La flexicurity come prospettiva di tutela dei lavoratori

Le recenti riforme del mercato del lavoro, attuate con l. n. 92/2012, c.d. Fornero e con il d. lgs. n. 23/2015 in attuazione della l. 83/2014, intervengono nel contesto fin’ora illustrato modificando dapprima radicalmente il testo dell’art. 18 dello Statuto, introducendo nuove tutele in caso di licenziamento illegittimo poi.

L’obiettivo è sempre quello del perseguimento della c.d. flexicurity, di cui tanto si parla. E su questo si sente la necessità di aprire una brevissima parentesi critica.

Il modello nasce ed evolve con successo nell’esperienza dei paesi baltici (così primi tra tutti Paesi Bassi, Danimarca per poi passare a Svezia ed estendersi via via). Ordinamenti strutturati in maniera completamente differente dal nostro.

Allo stesso modo si guarda a Stati Uniti e Gran Bretagna. Paesi dotati effettivamente di gran flessibilità per quanto concerne il mercato del lavoro e tuttavia economie forti e stabili.

Benissimo. Non si può affatto negare che l’attrattiva della costruzione di un sistema che muova in questa direzione, garantendo si alla parte datoriale la facoltà di agire a seconda delle esigenze produttive senza eccessivi vincoli e controlli, ma che al contempo fornisca al lavoratore una rete di sicurezza all’interno del mercato del lavoro costituita dalla possibilità di contare su supporti economici e soprattutto formativi tesi a favorire la rioccupabilità e l’agile reinserimento nel mercato anche con mansioni differenti.

E le più recenti modifiche del mercato del lavoro è a questo che puntano.
Gli obiettivi nello specifico sono quelli di incrementare l’occupazione, ridurre il dualismo nel mercato del lavoro tra insiders ed outsiders, attrarre i capitali stranieri, migliorare la «qualità» dei contratti di lavoro (evitando, con la riduzione della rigidità nella disciplina in materia, la fuga dal lavoro standard e l’incremento dei contratti precari).
I sostenitori della riforma sostengono che i sistemi di protezione del lavoro vigenti in “quei” paesi siano di molto migliori dei nostri su tutti i fronti. E a chi obietta che in Italia « non vi sono i soldi per farlo» rispondono che mettere un lavoratore in cassa integrazione non è affatto meglio che destinare gli stessi fondi ai servizi sociali che mancano nel nostro paese e ad un serio trattamento di disoccupazione e ad un buon servizio di outplacement .

Ma questa non è l’unica obiezione che si potrebbe muovere alle recenti riforme. Un ordinamento giuridico è un sistema composito, l’andamento del mercato del mercato del lavoro non può prescindere da altri aspetti dello stesso. I sistemi cui si fa riferimento sono costruiti i modo totalmente differente dal nostro ed auspicare i medesimi risultati intervenendo solo sulla flessibilità in entrata e in uscita del lavoro e non, ad esempio sul sistema finanziario pare in effetti poco realistico.
E, fondamentale, quanto alle ragioni addotte a giustificazione della riforma non si può non osservare come queste siano tutte di carattere economico . Profili più specificatamente propri del Diritto del lavoro, come la tutela del lavoratore dinanzi all’esercizio di un potere unilaterale che incide su aspetti personali molto importanti, sono completamente trascurati. L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro ha in effetti affermato che [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Certo la dimensione economica del lavoro è indiscutibile. Il singolo individuo, a livello aziendale, costituisce un fattore della produzione dotato di uno specifico livello di produttività e di un costo. Ed il costo del lavoro, nella sua dinamica complessiva, incide sui livelli occupazionali.

Ma il diritto del lavoro nasce anche per garantire al lavoratore la tutela dei diritti fondamentali riconosciuti. E sebbene le finalità di protezione del lavoratore non vengano abbandonate del tutto, si vedono certamente progressivamente subordinate alle esigenze di competitività, riduzione dei costi e flessibilità organizzativa reclamate dalle imprese.
Ad ogni modo, fatto sta che proseguendo sulla strada intrapresa per quanto riguarda la flessibilità in uscita l’unica area che rimarrà coperta da tutela reale per il lavoratore è quella concernente i diritti umani e quindi dei divieti di discriminazione.
Già con la l. 92/2012 l’obiettivo pareva essere questo ma la normativa che viene infine approvata è frutto di un parziale compromesso con le minoranze e del “dialogo” (anche se più di mera audizione s’è trattato), con le parti sociali . E lo stesso avviene per quanto concerne il c.d. jobs act con il decreto attuativo 23/2015.

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