Autore
Antoniol, Marco
Premesse
L’art. 10-bis offre due indicazioni relative al provvedimento conclusivo del procedimento in cui si inserisce il preavviso di rigetto. Anzitutto, nel primo periodo la norma pone come termine ad quem dell’obbligo comunicazionale l’adozione del “provvedimento negativo” [1]. Inoltre, il quarto periodo dispone che “dell’eventuale mancato accoglimento [delle] osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale” [2].
Peraltro, l’esame del provvedimento riveste un’importanza decisiva anche alla luce del principio fondamentale della giustizia amministrativa per il quale i soli provvedimenti sono direttamente impugnabili [3]. Salva dunque l’eccezionale impugnabilità autonoma della comunicazione dei motivi ostativi [4], l’impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento assurge al ruolo di strumento imprescindibile per far rispettare il complesso di regole dettate dall’art. 10-bis, la cui eventuale violazione inficia - almeno in teoria - la legittimità del provvedimento finale.
La negatività del provvedimento
La prima indicazione che l’art. 10-bis offre con riferimento al provvedimento si trova al primo periodo, laddove si fa espresso riferimento al solo “provvedimento negativo” [5].
La limitazione in parola, benché salutata con favore da alcune voci isolate [6], è aspramente criticata dalla dottrina maggioritaria che, ritenendo irrazionale l’esclusione dei controinteressati dallo spettro applicativo dell’istituto [7], giunge sovente a richiedere l’introduzione, accanto al preavviso di rigetto, di un simmetrico “preavviso di accoglimento” [8].
Ad ogni modo è bene precisare, sulla scorta della più attenta dottrina, che “il parametro cui riferire la negazione del provvedimento è [...] costituito dal contenuto dell’istanza” [9]: di conseguenza il provvedimento dovrà considerarsi negativo “sia nel caso in cui l’amministrazione intenda disporre la reiezione dell’istanza, sia nel caso in cui la domanda sia accoglibile solo in parte” [10].
L’obbligo motivazionale
La più importante prescrizione dettata dall’art. 10-bis con riferimento al provvedimento finale è però quella contenuta nel quarto periodo della disposizione, che impone di dar contro dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni presentate dagli astanti.
Al pari della comunicazione - che come si è detto, è obbligatoria solo laddove l’Amministrazione intenda dare esito negativo al procedimento - il provvedimento finale subisce un aggravamento motivazionale testuale nella sola ipotesi in cui le osservazioni degli astanti non incontrino il favore dell’Amministrazione. Autorevole dottrina osserva a questo proposito che “parrebbe dunque non necessario motivare se [le osservazioni] vengono accolte” [11].
La tesi sembra però esagerare il significato della norma, atteso che l’Amministrazione deve comunque indicare in parte motiva “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione” [12], tra i quali rientrano senz’altro le osservazioni private che sono state idonee a mutare la volontà del soggetto pubblico [13].
E’ infatti d’intuitiva evidenza che indicare nel provvedimento le risultanze dell’istruttoria anteriore al preavviso e non le integrazioni che ne hanno determinato il contenuto positivo lo esporrebbe de plano a censura per eccesso di potere. Ciò nondimeno, è pur vero che il legislatore precisa l’obbligo motivazionale del provvedimento nel solo caso in cui il provvedimento confermi lo schema comunicato ai sensi dell’art. 10-bis, rinunciando ancora una volta a parificare le esigenze dei controinteressati a fronte dell’accoglimento a quelle degli astanti a fronte del provvedimento negativo.
Da un differente punto di vista, altra dottrina ha osservato che “l’obbligo di motivazione del provvedimento finale appare letteralmente confinato dall’art. 10-bis alla sola eventualità di mancato accoglimento delle ‘osservazioni’, nulla dicendo il legislatore per il caso in cui siano depositati esclusivamente documenti” [14]. Ancora una volta, tuttavia, l’imprecisione legislativa può però essere corretta in via ermeneutica, dal momento che “anche dalla semplice produzione documentale è solitamente possibile trarre una rappresentazione di interessi contrastante con il progetto di decisione esternato nella comunicazione ex art. 10-bis” [15].
Per altro verso ancora, la dottrina non ha mancato di sottolineare la diversità del quarto periodo dell’art. 10-bis rispetto all’art. 10 della medesima legge sul procedimento [16]. Dopo aver attribuito ai soggetti partecipanti al procedimento il diritto “di presentare memorie scritte e documenti” [17], infatti, l’ormai ventennale art. 10 impone all’Amministrazione l’obbligo di valutarli soltanto “ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento” [18], con una formula limitativa che il legislatore del 2005 non ha voluto riprodurre [19].
Ciò nondimeno, secondo alcuni Autori “l’obbligo di motivazione dovrebbe ritenersi assolto pur quando la pubblica amministrazione si limiti a dare atto della inconferenza della produzione successiva al preavviso rispetto all’ambito procedimentale” [20], in analogia con quanto dettato dall’art. 10 e nonostante la chiara intenzione del legislatore di non utilizzare la medesima formula nel quarto periodo dell’art. 10-bis.
L’illegittimità del provvedimento per sua violazione dell’art. 10-bis: omessa confutazione delle osservazioni e altre forme di patologia motivazionale
Atteso che l’obbligo motivazionale di cui al quarto periodo costituisce - assieme all’indicazione che deve trattarsi di un provvedimento negativo - l’unica prescrizione dettata dall’art. 10-bis con riferimento al provvedimento finale, è giocoforza osservare che le sole ipotesi di illegittimità del provvedimento per sua diretta violazione dell’art. 10-bis saranno figure speciali di patologia motivazionale.
Tra esse viene in rilievo in primo luogo l’eventualità che nel provvedimento non venga spiegato il mancato accoglimento delle osservazioni degli astanti, contravvenendo a quanto espressamente prescritto dal legislatore.
In dottrina si è tentato talvolta di sostenere la non perentorietà dell’obbligo motivazionale di cui al quarto periodo, ma si è trattato di voci sostanzialmente isolate [21]: per la tesi maggioritaria, infatti, il quarto periodo dell’art. 10-bis “assume un’implicazione importante in tema di vizi che possono essere invocati in sede di impugnazione giurisdizionale del provvedimento finale” [22], dovendosi esattamente qualificare come violazione di legge l’ipotesi del provvedimento che, pur compiutamente motivato in ordine ad ogni altro profilo, trascuri la confutazione delle osservazioni del privato [23]. Di questo avviso, del resto, si è costantemente mostrata la giurisprudenza amministrativa [24].
Qualora invece gli astanti non presentino alcuna osservazione - non essendo obbligati a farlo [25] - si deve ritenere senz’altro legittimo un provvedimento che riporti in parte motiva le stesse argomentazioni anticipate con l’art. 10-bis [26].
Per converso giova sottolineare che la confutazione delle osservazioni, necessaria affinché il provvedimento si possa ritenere legittimo, non è di per sé sufficiente ai fini dell’adempimento dell’obbligo motivazionale. In dottrina si è infatti ipotizzata l’eventualità che il provvedimento, oltre a dar conto del mancato accoglimento delle osservazioni private, introduca dei nuovi motivi ostativi, non anticipati nella comunicazione ex art. 10-bis.
Il problema è stato risolto nel senso dell’illegittimità di un siffatto provvedimento [27], ma il principio richiede dei correttivi, dovendosi ammettere un’integrazione argomentativa almeno “con riferimento alle motivazioni addotte dall’istante od alla riapertura della fase istruttoria o a fatti sopravvenuti” [28]. Se così non fosse, infatti, l’Amministrazione si troverebbe in un vicolo cieco, dovendo confutare le osservazioni del privato senza poter estendere l’impianto motivazionale né affrontare la rischiosa via della rinnovazione della comunicazione, suggerita da certa dottrina [29] ma non sempre tollerata dalla giurisprudenza [30].
Nel senso dell’ammissibilità di una motivazione emendata si muovono del resto le prime decisioni in punto di art. 10-bis [31], osteggiando invece quelle modifiche che stravolgano l’intero impianto motivazionale del provvedimento [32].
L’illegittimità del provvedimento per vizi derivati: l’omissione della comunicazione dei motivi ostativi
Pur costituendo l’unica ipotesi di illegittimità del provvedimento per sua diretta violazione dell’art. 10-bis, la patologia motivazionale non esaurisce i casi di annullabilità del provvedimento finale. Poiché gli atti del procedimento non sono di regola autonomamente impugnabili, infatti, per i vizi derivati l’impugnativa va proposta contro l’atto conclusivo del procedimento, idoneo ad incidere sulle posizioni giuridiche [33].
Calata nel contesto del preavviso di rigetto, questa regola - nota come principio della derivazione [34] - comporta che ogni violazione di quanto disposto dall’art. 10-bis insuscettibile di ledere direttamente la posizione dei privati [35] costituisca motivo di censura del provvedimento finale, annullabile in tal caso per illegittimità derivata [36].
Ciò detto, alla luce del carattere residuale ed onnicomprensivo del principio di derivazione, dovrebbe costituire illegittimità derivata anche - e soprattutto - la violazione apparentemente più grave dell’art. 10-bis, ovverosia la completa omissione di quella comunicazione dei motivi ostativi che dà il nome alla disposizione e che ne costituisce il baricentro [37].
L’art. 10-bis, tuttavia, si innesta in un tessuto normativo già oggetto di tre lustri di elaborazione giurisprudenziale, risentendo in particolare dei consolidati orientamenti formatisi con riferimento all’altra comunicazione prevista dal Capo III della l. 241/90 [38]. E’ noto infatti che l’obbligo di dare notizia dell’avvio del procedimento, dettato dall’art. 8 della l. 241/90 in modo apparentemente perentorio [39], è stato progressivamente eroso dalla giurisprudenza amministrativa, che ha esteso le cause di esclusione previste dalla legge [40] e ne ha introdotte di nuove [41].
Questo processo di compressione del contraddittorio procedimentale, benché osteggiato dalla dottrina più autorevole [42], è stato suggellato dal legislatore del 2005 [43] introducendo nella legge sul procedimento una coppia di regole dall’elevatissima problematicità sia sistematica che applicativa [44].
Al capoverso della disposizione che riprende i casi di annullabilità del provvedimento amministrativo [45], infatti, la l. 15/05 ha escluso l’annullabilità del provvedimento in due ipotesi di vizi di forma inidonei a modificare il contenuto dell’atto: da un lato, il provvedimento vincolato è fatto salvo a fronte di qualsiasi violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti [46]; d’altro lato non è annullabile il provvedimento - vincolato o meno - non preceduto dall’invio della comunicazione di avvio del procedimento [47]; in entrambi i casi - seppur con alcune diversità letterali ed applicative - è comunque necessario che il contenuto del provvedimento non potesse essere diverso da quello in concreto adottato.
Per quanto riguarda anzitutto il primo periodo di questo nuovo art. 21-octies [48], la violazione della normativa sul preavviso di rigetto costituisce un esempio piuttosto evidente di vizio di ordine procedimentale [49]. E’ parimenti evidente, tuttavia, l’interferenza tra le due norme, attesa “la contraddizione di fondo di un potenziamento delle regole partecipative [...] cui però fa seguito un depotenziamento delle sanzioni” [50], che finisce per disorientare il cittadino [51].
Di conseguenza, la dottrina si è presto divisa tra chi ha individuato nella comunicazione dei motivi ostativi un’ipotesi di vizio non invalidante ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2 [52] - seppur giungendo spesso a malincuore a questa considerazione [53] - e chi ha preferito negare radicalmente il depotenziamento del nuovo istituto [54], obbedendo ad innegabili ragioni di equità ma esagerando l’eccezionalità di una disposizione che tale non sembra nelle intenzioni del legislatore [55] o interpretando in modo ingiustificatamente restrittivo il chiaro disposto dell’art. 21-octies, comma 2, prima parte [56].
Dal canto suo, la giurisprudenza amministrativa non sembra aver mai negato apertamente l’applicabilità della norma in parola all’ipotesi di omissione del preavviso di rigetto. Poiché però i primi provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 10-bis avevano natura ampiamente discrezionale [57], la concreta applicazione di questa regola si è fatta attendere fin quasi alla fine del 2005. Prima che la riforma compisse un anno, ad ogni modo, la giurisprudenza aveva già avuto occasione di avvallare la tesi per la quale non è annullabile il provvedimento non preceduto da comunicazione dei motivi ostativi se vincolato e doveroso nel contenuto [58].
Fin dalle prime pronunce, peraltro, la giurisprudenza amministrativa sembra avvertire [59] che l’applicazione della regola dettata dal primo periodo del capoverso dell’art. 21-octies si avvicina pericolosamente al vero punctum dolens del provvedimento viziato dall’omessa comunicazione dei motivi ostativi, costituito dal secondo periodo del medesimo capoverso. Tale regola, “frutto di un emendamento voluto dall’associazione magistrati amministrativi” [60], fa espresso riferimento, come si è detto [61], alla sola omissione della comunicazione di avvio del procedimento.
Tuttavia, alla luce dell’evidente analogia tra i due istituti [62] la dottrina più autorevole è apparsa fin dal principio piuttosto preoccupata dalla possibile estensione pretoria di una regola già di per sé problematica e discutibile [63]: tutti gli Autori più illustri che si sono occupati dell’argomento hanno pertanto escluso in modo perentorio che l’omessa comunicazione dei motivi ostativi possa costituire vizio non invalidante anche per i provvedimenti non aventi carattere vincolato [64], argomentando in genere sulla base dell’eccezionalità del ricordato secondo periodo e della sua conseguente inammissibile estensione analogica [65].
Accanto a questa impostazione autorevole e maggioritaria, tuttavia, in dottrina si è registrato fin dal principio anche un diverso orientamento, incline ad escludere l’annullabilità del provvedimento discrezionale viziato da omessa comunicazione dei motivi ostativi [66], sulla base della regola dettata dall’art. 21-octies con riferimento alla sola comunicazione di avvio del procedimento. Alla base di questa impostazione si trova normalmente l’identità di ratio tra le due comunicazioni [67], dalla quale prende le mosse la dottrina che ne sostiene l’applicazione analogica.
A prescindere dalla questione dell’eccezionalità di tale previsione - che naturalmente escluderebbe l’analogia, ma che risulta affermata solo da alcune voci isolate [68] - merita almeno un cenno la considerazione che l’estensione analogica è parimenti esclusa ogniqualvolta manchi una lacuna da colmare, che costituisce presupposto non meno necessario dell’identità di ratio [69].
Per quanto poi riguarda la prassi giudiziale, è bene osservare che, nell’esaminare la delicata questione, sia gli Autori che sposano la tesi restrittiva che gli Autori appartenenti alla corrente minoritaria hanno cura di denunciare che “anche la giurisprudenza non è univoca sul punto” [70].
L’oscillazione giurisprudenziale, viceversa, è più supposta che reale: diversamente che in dottrina, infatti, in giurisprudenza l’inapplicabilità del secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2 al provvedimento non preceduto da comunicazione di motivi ostativi è stata affermata apertis verbis da un ridottissimo numero di pronunce [71]. La giurisprudenza amministrativa, al contrario, ha incominciato con notevole puntualità a fare della regola in parola l’uso estensivo che la dottrina temeva.
La prima decisione in tal senso risale probabilmente al settembre 2005, allorquando il TAR Veneto dichiara espressamente che la disciplina di cui all’art. 21-octies, comma 2, seconda parte, “va applicata non soltanto nell’ipotesi di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento [...] ma anche nell’ambito dell’omessa comunicazione dell’avvio di quella particolare sequenza procedimentale che avrebbe dovuto trarre origine dalla non ancora formalizzata determinazione dell’Amministrazione di non accogliere la domanda presentata dall’interessato: e ciò in quanto anche nell’evenienza dell’anzidetto art. 10-bis l’Amministrazione procedente è tenuta ad iniziare un contraddittorio con il destinatario dell’emanando provvedimento, al fine di raccoglierne il contributo istruttorio indispensabile per addivenire ad una compiuta disamina di quegli elementi di fatto e di diritto che risulteranno decisivi per la determinazione da assumere” [72].
L’orientamento è confermato dal TAR Veneto nel dicembre dello stesso anno [73] e nello stesso periodo si allinea ad esso anche il giudice leccese [74].
Ciò detto, il motivo per cui a partire dal 2006 si danno pochi esempi di sentenze [75] che fanno espresso riferimento all’art. 21-octies, comma secondo, seconda parte, non è la preferenza per la tesi restrittiva bensì - al contrario - l’emersione di un nuovo e più agevole strumento per fare dell’art. 10-bis un’applicazione meno formalista.
Anche questo strumento era stato anticipato dalla dottrina che, proiettando nell’art. 10-bis i risultati della lunga elaborazione giurisprudenziale in tema di comunicazione di avvio del procedimento, aveva sottolineato fin dagli albori della norma...