TAR Sicilia, sez. III, Catania, 8 aprile 2010, n. 1059

TAR Sicilia, sez. III, Catania, 8 aprile 2010, n. 1059

N. 01059/2010 REG.SEN.
N. 06039/2004 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO



Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
sezione staccata di Catania (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente



SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 6039 del 2004, proposto da:
D.B.C., rappresentata e difesa dagli Avv. Carmelo Moschella e Alessandro Vaccaro, con domicilio
eletto presso la Segreteria del Tribunale;
contro
Comune di Taormina (Me), in persona del Sindaco pro-tempore;
per la condanna
al risarcimento dei danni patiti dalla ricorrente per la revoca (con determina sindacale n. 59 del 13.11.1998 poi
annullata dal T.A.R. Sicilia, Sez. st. di Catania) della concessione di occupazione di suolo pubblico.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 febbraio 2010 il Consigliere dott.ssa Alba Paola Puliatti e uditi per
le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:



FATTO

Con sentenza n. 1360/2002 del 7.5.2002 questo TAR ( III Sez.) annullava per incompetenza del Sindaco che l’aveva adottata la determina sindacale n. 59 del 13.11.1998, con cui era stata revocata la concessione per l’occupazione di suolo pubblico rilasciata al dante causa della ricorrente, a servizio del bar Saint Honoreè, sito nei pressi del centrale corso Umberto ( largo Salita palazzo Ciampoli) in Taormina. La ricorrente agisce per il risarcimento dei danni economici e dei danni non patrimoniali asseritamente derivati dal non aver potuto usufruire della “piazzetta”, ubicata nel nella via principale del centro storico della località turistica, per la sistemazione dei tavolini adibiti al consumo della clientela. All’udienza del 17 febbraio 2010 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.



DIRITTO

Il ricorso non può trovare accoglimento, né con riguardo al danno patrimoniale lamentato, né con riguardo agli asseriti danni non patrimoniali.

Con la sentenza n. 1360/2002 di questo TAR è stata accertata l’illegittimità del provvedimento di revoca della concessione di suolo pubblico di cui alla determina sindacale n. 59 del 13.11.1998 perché adottata dal Sindaco anziché dal Dirigente del settore, competente ai sensi dell’art. 6 della l. 127/1997, recepito dall’ordinamento regionale con l’art. 2, comma 3, della l.r. 23/1998. Conseguentemente, la ricorrente agisce per far valere il diritto al risarcimento del danno ingiusto derivato dal provvedimento illegittimo, pregiudizialmente annullato.

Ritiene tuttavia il Collegio che, pur sussistendo l’astratto nesso eziologico tra il provvedimento illegittimo e l’evento dannoso (mancato svolgimento dell’attività commerciale), nonché l’elemento psicologico della colpa, ravvisabile nella non corretta applicazione di norme di organizzazione e ordinamentali di corrente applicazione e facile conoscibilità, tuttavia non è dimostrato, sotto un primo profilo, il concreto verificarsi del “danno ingiusto” subito, quale “danno patrimoniale”, elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità aquiliana ex art.2043; inoltre, sotto altro profilo, non è configurabile, neppure astrattamente, il “danno non patrimoniale” ex art. 2059 c.c., di cui pure si chiede il ristoro sotto le voci di danno “all’immagine”, danno “esistenziale” e “alla sfera emotiva”, non sussistendo la lesione di interessi protetti normativamente, pur aderendo il Collegio ad una interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 2059 c. c.. Per quanto riguarda il “danno patrimoniale”, la dimostrazione della esistenza di un “danno ingiusto” quale conseguenza-evento del comportamento illecito (nella specie, l’adozione del provvedimento illegittimo) e la sua quantificazione, costituiscono oggetto di uno specifico onere probatorio, che non risulta assolto.

La ricorrente, facendo ricorso a semplici presunzioni, si limita ad affermare, a dimostrazione della sussistenza del “danno patrimoniale” e del suo ammontare, che nella piazzetta oggetto di concessione erano ubicati 12
tavolini per complessivi 48 posti e quantifica il danno da lucro cessante in euro 1.944.000 ( un milione novecentoquarantaquattromila euro), per il periodo che va da novembre 1998 ad agosto 2002, frutto di una “empirica sommatoria matematica” dalla quale si evincerebbe che n. 6 tavolini con 4 posti ciascuno, utilizzati per la media ponderale di tutto l’anno, avrebbero fruttato un incasso non inferiore ad euro 200 al giorno per ciascuno dei tavoli, per un danno complessivo giornaliero di 1.200 euro mensili, che moltiplicato per 46 mesi (dall’11/98 all’8/02) da il risultato predetto.

Osserva il Collegio che il risarcimento del danno a carico della pubblica amministrazione non può ritenersi un semplice effetto automatico dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato; e di conseguenza grava su chi assume di essere stato danneggiato l’onere ex art. 2697 c.c. di fornire la necessaria piena prova circa la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità dell’illecito di cui all’art. 2043 c.c., ivi compreso l’evento “danno” (Consiglio Stato, sez. V, 12 dicembre 2009, n. 7800).

Il ricorso alla prova presuntiva può ben costituire l’unica fonte offerta al giudice per la formazione del suo convincimento, in quanto non si tratta di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. Cass. n. 9834/2002, n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006); tuttavia, ai fini della dimostrazione della prova per presunzioni, occorre che siano raggiunte le soglie minime di gravità, precisione e concordanza
richieste dall’art. 2729 c.c. e che gli indizi forniti, valutati dal giudice alla luce del complessivo contesto, sostanziale e processuale, diano un esito altamente attendibile in ordine al fatto che si vuole dimostrare (Cassazione civile , sez. III, 13 marzo 2009 , n. 6181).

Questa soglia minima di precisione, gravità e concordanza non si può ritenere conseguita nella fattispecie, alla luce delle mere “ipotesi” e “calcoli aritmetici” svolti in ricorso, che danno per “scontata” la minore affluenza di clientela in conseguenza del non godimento da parte del titolare del bar “Saint Honoreè” del suolo pubblico per la posa dei tavolini, ipotesi questa certamente probabile, ma non dimostrata in modo efficace con gli indizi forniti. In ogni caso, ben avrebbe potuto la ricorrente, al fine di offrire indizi ben più consistenti per dimostrare il lucro cessante, produrre la dichiarazione dei redditi, o del volume d’affari relativi all’attività di cui sopra, relative ad. es. ai tre anni precedenti, in modo da far emergere, in via comparativa, la differenza con le dichiarazioni riferibili al periodo considerato (novembre\1998 - agosto/2002), la perdita di guadagno lamentata derivante dal provvedimento.

Né può trovare applicazione dinanzi a questo giudice, in una controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni, la regola propria del processo amministrativo, secondo cui è sufficiente, ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio, produrre “un principio di prova”, onde attivare i poteri istruttori del giudice. In materia di risarcimento dei danni valgono, infatti, le medesime regole del processo civile, e, in applicazione del principio generale fissato dall’art. 2697 c. c., occorre che sia data prova piena dei fatti costitutivi della pretesa; in altri termini, non può ritenersi che il giudice amministrativo disponga di quel “potere integrativo” delle prove, esercitabile nel giudizio di legittimità, il cui sistema probatorio è retto dal “principio dispositivo con metodo acquisitivo” degli elementi di prova da parte del giudice (Consiglio di stato, sez. V, 07 ottobre 2009 , n. 6118; C.d.S. Sez. VI, n. 5218/2005; IV n. 5399/2003; Sez. V n. 551/2001;).

Come efficacemente afferma la giurisprudenza amministrativa, “chi agisce per il risarcimento dei danni anche davanti al giudice amministrativo è tenuto a comprovare in modo rigoroso l’esistenza del danno che assume aver subito, non potendo invocare il c.d. principio acquisitivo” ( così, T.A.R. Liguria Genova, sez. II, 21 ottobre 2009 , n. 2914; T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 14 settembre 2009 , n. 820). Dunque, non si ritiene raggiunta la prova circa il lamentato danno patrimoniale attraverso i meri indizi offerti, che non si presentano con sufficiente grado di univocità e gravità. Quanto ai lamentati danni “non patrimoniali”, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, non siano configurabili, neppure astrattamente, danni risarcibili.

La ricorrente deduce l’ingiusto “danno all’immagine” patito dall’azienda, che in virtù del provvedimento si è vista rimuovere i tavolini forzatamente, danno almeno pari alla perdita di guadagno. Ed ancora, chiede il risarcimento del “danno esistenziale” ed alla “sfera emotiva”, subiti per effetto dell’ingiusto procedimento e per l’esecuzione coattiva della revoca, che in misura equitativa quantifica in euro 1.000.000.

Ritiene, viceversa, il Collegio, alla luce del più recente insegnamento della Corte Cass. Sez. Un. 11 novembre 2008 , n. 26972, innanzitutto, che il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, alla vita di relazione etc.), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. Tutte sono invece riconducibili alla categoria generale di “danno non patrimoniale” disciplinato dall’art. 2059 c. c..

Affermano le Sezioni Unite che è compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione, identificandosi un’unica categoria di danno ex art. 2059 c.c., ovvero il pregiudizio determinato dalla “lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica”.

Ed è stato precisato nella sentenza citata che, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., i danni non patrimoniali, connotati da tipicità, sono oltre quelli specificamente determinati dalla legge, quelle lesioni di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006) che individua il giudice in via di interpretazione, alla stregua della Costituzione, secondo il criterio della c.d. “minima tutela risarcitoria”. In altri termini, fuori dai casi di reato (ex art. 185 c.p.) e dalle ipotesi direttamente determinate dalla legge ordinaria, è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere, cioè, a monte, una ingiustizia costituzionalmente qualificata, ancorché il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso (ha osservato la Suprema Corte che la tutela in argomento non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana” sent. 11 novembre 2008, n. 26972 cit.).

In applicazione di tali enunciati e dei correlativi principi, ritiene il Collegio che, nella fattispecie, l’interesse del privato concessionario del suolo pubblico leso dal provvedimento di revoca, poi annullato dal T.A.R., non abbia natura tale da assurgere al rango di “diritto inviolabile” della persona costituzionalmente garantito.

La ricorrente allega un pregiudizio “all’immagine” dell’azienda e”al pacifico svolgimento della propria attività”, ed ancora il danno “esistenziale” e alla sfera emotiva e psicologica”.

Orbene, seppure volesse considerarsi la libertà di iniziativa economica come aspetto della libera espressione della personalità, riconducibile alla tutela della persona di cui all’art. 2 della Costituzione, va osservato che nella fattispecie, il provvedimento che ha disposto la revoca della concessione, sebbene abbia inciso sulle modalità di espressione dell’attività imprenditoriale in questione, non ne ha comportato una irrimediabile compromissione, in quanto l’attività commerciale del bar è proseguita e non è stata neppure dimostrata - come prima rilevato - una attendibile perdita di natura economica derivata dal mancato godimento in via esclusiva del suolo pubblico. La lesione di quell’interesse protetto dall’art. 2 Cost., seppure vi fosse stata, non sarebbe irrimediabile o consistente.

Inoltre, si consideri che la concessione di suolo pubblico è un provvedimento discrezionale, relativo all’uso esclusivo di un bene pubblico, che deve rispondere anche all’interesse pubblico, in sé revocabile e non rinnovabile per sopravvenute nuove valutazioni nel tempo circa il miglior perseguimento del pubblico interesse, in maniera anche contrastante con un consolidato interesse privato; di fronte al potere concessorio sussiste un interesse legittimo e non un diritto soggettivo pieno; la revoca della concessione non genera nei consociati la convinzione che il commerciante manchi di capacità o prerogative professionali, essendo nella coscienza sociale generalmente noto il carattere discrezionale (e perciò non definitivo) del provvedimento concessorio.

Ancora una volta, dunque, il “danno esistenziale” e quello “alla sfera emotiva” dedotti dalla ricorrente non assurgono al rango di interessi protetti a livello di “diritto inviolabile della persona” ed in tal senso il Collegio trova il conforto della citata sentenza della Corte di Cass. Sez. Unite laddove si afferma che:


  • la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte Cost. n. 87/1979);

  • la gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili;

  • “Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza;

  • “palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale”; “non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici”; “al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.


A tali puntuali e concatenate indicazioni interpretative aderisce questa Sezione, ritenendo, in definitiva, non meritevoli di tutela i danni “esistenziali” dedotti dalla ricorrente per difetto di quel requisito di “gravità dell’offesa” indicato dalle Sezioni Unite.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non essendosi costituito il Comune intimato.



P.Q.M.

Il tribunale Amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania (III Sezione interna) rigetta il
ricorso.

Nulla spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2010 con l’intervento dei Magistrati:
Calogero Ferlisi, Presidente
Alba Paola Puliatti, Consigliere, Estensore
Giovanni Milana, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 08/04/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL SEGRETARIO