Regime giuridico della proprietà pubblica

L’appartenenza alla mano pubblica di alcuni specifici beni determina, come già anticipato sopra, la loro sottoposizione ad una disciplina giuridica distinta e differenziata rispetto a quella cui vengono sottoposti i beni privati.

Con riferimento a ciò occorre affrontare tale disamina partendo dal regime giuridico cui sono assoggettati i beni demaniali.

Tale problema prende necessariamente le mosse dall’individuazione del momento costitutivo, modificativo ed estintivo di tale status da cui consegue l’applicazione o la cessata applicazione della disciplina giuridica peculiare del codice civile.


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Di conseguenza, la dottrina ha provveduto ad individuare beni che acquistano il carattere in esame per il fatto giuridico naturale della loro stessa esistenza e beni che sono, invece, dalla stessa legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico e che richiedono l’esercizio di un’attività amministrativa per entrare nel mondo del diritto come beni pubblici, dovendo essere trasformati o costruiti e destinati, formalmente o anche di fatto, al soddisfacimento di una finalità pubblicistica.

Con riferimento a tale ultima categoria spesso le pubbliche amministrazioni redigono appositi elenchi nell’ambito dei quali vengono indicati i beni soggetti al regime demaniale.

In merito a tali elenchi è sorto un dibattito interpretativo tra dottrina e giurisprudenza in ordine alla loro relativa natura giuridica.

A tale riguardo, infatti, mentre la giurisprudenza gli conferisce una valenza dichiarativa, ritenendo che gli stessi creano una presunzione relativa di appartenenza del bene all’ente cui esso è attribuito, la dottrina, invece, ritiene che sia sempre necessario un atto di destinazione tipico della P.A..

Il carattere demaniale può anche cessare, si parla a tale riguardo di «sdemanializzazione».

Occorre, però, una puntualizzazione ulteriore: infatti, mentre per i beni del demanio naturale la perdita del carattere della demanialità è conseguente ad un accadimento naturale, con riferimento ai beni del demanio artificiale la dottrina e la giurisprudenza prevalenti richiedono la necessità di un provvedimento amministrativo espresso, frutto di una valutazione discrezionale da parte della P.A., con cui di attesti la cessazione della demanialità di quel bene [1].

Ciò che, invece, risulta controverso tra gli interpreti concerne l’ammissibilità della «sdemanializzazione tacita».

Sul punto l’orientamento prevalente in giurisprudenza sembra piuttosto essersi attestato intorno ad una posizione assai rigorosa richiedendo in capo alla P.A. la sussistenza di comportamenti concludenti dai quali possa evincersi una volontà inequivoca della stessa in ordine alla cessazione del carattere demaniale di uno specifico bene [2].


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Sempre secondo quanto emerge dalla predetta sentenza del Consiglio di Stato, è necessario che si palesino circostanze tali da rendere non configurabile un’ipotesi differente dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene, perciò, non è sufficiente, affinché possa parlarsi di sdemanializzazione, il mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo tempo, a detto uso.

Da ultimo, inoltre, è opportuno dare atto del fatto che l’art. 829 c.c. specifica che può verificarsi un passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato, ma esso deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa. Inoltre, dell’atto deve essere data comunicazione in Gazzetta ufficiale della Repubblica.

Tale atto amministrativo riveste, secondo certa dottrina [4], natura dichiarativa in quanto viene sostenuto che la perdita della qualità di bene demaniale deriva sempre dalla perdita dei consueti presupposti.

Identificati i momenti costitutivi, modificativi ed estintivi della demanialità è ora possibile passare all’analisi della relativa disciplina giuridica, così come individuata dal codice civile.

A tale riguardo, l’art. 823 c.c. afferma che i beni demaniali sono inalienabili [5], inusucapibili, insuscettibili di espropriazione forzata, e, quindi, impignorabili, ed, inoltre, non possono costituire diritti a favore dei terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano.

Più in particolare, per ciò che concerne il profilo dell’inespropriabilità di tali beni occorre aggiungere che l’art. 4 del D.P.R. 327/2001, ossia il T.U. in materia di espropriazioni per pubblica utilità, stabilisce che «i beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene ad essere pronunciata la sdemanializzazione».

Un ulteriore profilo peculiare in ordine al regime giuridico dei beni demaniali concerne la loro tutela.

Infatti, a tale riguardo l’art. 823 comma 2 c.c. precisa che «spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice».

Da tale affermazione è chiaramente percepibile il carattere…



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Nel caso in cui, invece, la pubblica amministrazione stessa decida di perseguire la strada amministrativa in tal caso quest’ultima provvederà ad esercitare la c.d. autotutela esecutiva, ossia un potere espressamente conferito dalla legge, attraverso cui il soggetto titolare dei beni demaniali può tutelarli attraverso le garanzie del procedimento amministrativo e senza fare ricorso all’autorità giurisdizionale.

Si è molto discusso in ordine all’estensibilità del rimedio pubblicistico anche nei confronti dei beni rientranti nel patrimonio indisponibile dello Stato seppur in assenza di una espressa previsione legislativa in tal senso.

A tale riguardo, è stato affermato a livello maggioritario che sebbene l’autotutela esecutiva sia esercitabile solo nei confronti di soggetti privati e non anche nei confronti di soggetti pubblici essa è riferibile anche ai beni patrimoniali indisponibili in quanto anche per essi il nostro legislatore prevede una disciplina derogatoria rispetto al regime comune.

Il principio di tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi impone che l’esecutorietà, consistente nel potere attribuito alla P.A. di portare ad esecuzione i propri atti coattivamente, contro la volontà del soggetto obbligato, al fine di conseguire le situazioni di vantaggio che con essi nascono, non sia da annoverare tra le qualità dell’atto stesso per cui essa non è appartenente a tutti gli atti, ma necessita di una espressa previsione legislativa in tal senso.

Fino a che è mancata una presa di posizione espressa da parte del legislatore…



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La dottrina, invece, qualificando l’art. 823 c.c. quale norma meramente a carattere programmatico ha statuito la necessità di una disposizione che attribuisse tale specifico potere ad un’autorità determinata.

Le osservazioni della dottrina sono state recentemente accolte dal legislatore che attraverso la novella 15/2005 ha provveduto ad inserire nel corpus della legge 241/1990 l’art. 21 ter, il quale, al suo primo comma, afferma che «Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge».

In tema di beni pubblici il limite all’autotutela possessoria è costituito dalla pendenza di una controversia volta ad accertare la proprietà di un bene.

In tal caso, essendo preclusa alla P.A. la possibilità di percorrere la via amministrativa ecco che alla stessa non rimane che avvalersi degli strumenti di tutela ordinari.

La ragione di tale preclusione consiste nel fatto che diversamente opinando si consentirebbe all’autorità amministrativa di sostituirsi a quella giudiziaria, incidendo su situazioni altrui sottoposte alla cognizione giudiziale.

Questa preclusione rivolta alla P.A. ha, però, un senso laddove l’azione in autotutela esecutiva…



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L’esperibilità da parte dell’amministrazione di azioni possessorie ha decretato l’insorgere di questioni strettamente connesse al riparto di giurisdizione.

Il principio che è emerso all’esito di un’analisi delle pronunce giurisprudenziali sul punto è quello secondo cui sussiste la giurisdizione del giudice ordinario laddove il comportamento della P.A. non si ricolleghi neppure mediatamente all’esercizio di un potere amministrativo, diversamente ricorrerà la giurisdizione del giudice amministrativo.

A tale riguardo, ad esempio, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 2005 [7] , riprendendo il dictum della Corte Costituzionale pronunciato con la nota sentenza 204/2004, hanno affermato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in relazione all’azione possessoria promossa dal privato nei confronti della pubblica amministrazione in conseguenza della mera attività materiale, non sorretta da alcun formale provvedimento amministrativo.

Diversamente, le Sezioni Unite nel 2007 [8] hanno statuito che ove risulti, sulla base del criterio del petitum sostanziale, che oggetto della tutela invocata non è una situazione possessoria, bensì il controllo di legittimità dell’esercizio del potere ecco che non ricorrerà la giurisdizione del giudice ordinario, ma piuttosto quella del giudice amministrativo.

La disciplina dei beni demaniali così ricostruita è stata in parte modificata per effetto della riforma introdotta dal d.lgs. 28 maggio 2010, n. 85 con cui è stato approvato il c.d. federalismo demaniale [9].

Sulla base di quest’ultimo lo Stato provvede all’attribuzione ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e…



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L’ente territoriale, a seguito del trasferimento, dispone dei beni nell’interesse della collettività di riferimento.

I beni trasferiti entrano a far parte del patrimonio disponibile dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni, e potranno essere alienati previa valorizzazione e a seguito di una valutazione di congruità rilasciata nel termine di trenta giorni da parte dell’Agenzia del demanio o del territorio, secondo le rispettive competenze.

Tale trasferimento, inoltre, ha comportato che, nel momento in cui lo stesso si sarà definitivamente attuato, ne conseguirà che le entrate degli enti territoriali non riguarderanno solo le tasse, ma anche la capacità degli stessi di gestire con modernità ed efficacia questi beni.

Una volta analizzato nel dettaglio il regime giuridico cui vengono assoggettati i beni demaniali ecco che è opportuno passare ad analizzare quello attinente ai beni del patrimonio indisponibile dello Stato.

Anche tale categoria di beni è sottoposta al vincolo di destinazione inteso nel senso che gli stessi sono finalizzati al perseguimento di pubbliche utilità e non possono essere sottratti a tale destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano

Ciò che, però, li differenzia dai beni demaniali, come già detto, è, innanzitutto, il fatto che possono appartenere a qualsiasi ente pubblico e non solo ad enti territoriali e possono consistere sia in beni immobili che in beni mobili.

Per ciò che attiene al momento costitutivo della indisponibilità oltre ai casi in cui un bene riveste tale qualifica per espressa previsione legislativa, e cioè oltre ai casi menzionati dall’art. 826 c.c., bisogna distinguere tra quelli che sono «destinati» per natura, in virtù delle loro caratteristiche oggettive, al perseguimento di un pubblico servizio e quelli che, invece, divengono tali solo a seguito di un provvedimento di destinazione, che ben può consistere in una disposizione legislativa statale o regionale ovvero in un provvedimento dell’Amministrazione.



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Proprio perché il ruolo centrale è assunto dalla concreta destinazione del bene ecco che è stato sostenuto che esso può essere qualificato come indisponibile anche quando l’Amministrazione ponga in essere comportamenti concludenti dai quali sia desumibile inequivocabilmente la volontà di sottoporre il bene al vincolo di destinazione [10].

In particolare, il T.A.R. Catania Sicilia [11] ha recentemente precisato che per il riconoscimento dell’appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile, sulla base dell’espressione letterale «beni destinati» contenuta nell’art. 826 comma 3 c.c., si richiede la compresenza di un requisito soggettivo, consistente nella proprietà del bene da parte della Pubblica Amministrazione, e di un requisito oggettivo, costituito dalla concreta destinazione dello stesso al pubblico servizio.

L’assenza del requisito oggettivo, fa si che tale bene non venga considerato appartenente al patrimonio indisponibile.

Infatti, risulta insufficiente, ai fini di tale destinazione, un mero progetto di utilizzazione, benché espresso in un atto amministrativo, occorrendo, invece, che lo stesso sia seguito da opere di trasformazione o che, comunque, superando l’aspetto meramente intenzionale, venga data effettività alla destinazione stessa.

In questa prospettiva, è stato sostenuto dalla giurisprudenza che la proprietà parziaria di un bene del patrimonio indisponibile potrebbe risultare una contraddizione in termini, potendo tale comproprietà essere di pregiudizio all’effettiva destinazione pubblicistica del bene stesso.

Un ulteriore profilo interessante in ordine alla disciplina giuridica dei beni in esame attiene alla perdita del carattere della indisponibilità che è strettamente correlato alle modalità del suo stesso acquisto.

Infatti, per quei beni che sono indisponibili per natura la perdita di tale status



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Il regime cui sono assoggettati i beni indisponibili è in parte diverso da quello cui sono sottoposti i beni demaniali.

L’art. 828 c.c. si limita ad affermare che tali beni non possono essere sottratti alla propria destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

Si tratta di beni che sono sottoposti ad un regime di incommerciabilità relativa, e che possono formare oggetto di diritti reali a favore di terzi se ciò sia compatibile con la loro specifica destinazione.

Più precisamente, detti beni, pur potendo essere oggetto di negozi di diritto privato, risultano gravati da uno specifico vincolo di destinazione ad uso pubblico.

Per ciò che attiene, invece, al profilo della loro espropriabilità, l’art. 4 comma 2 del T.U. sulle espropriazioni, facendo proprio un preesistente orientamento pretorio, prevede che i beni in esame possono essere espropriati solo per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione.

Tale statuizione, secondo certa dottrina [12], non risulta essere incompatibile con il tenore letterale dell’art. 828 comma 2 c.c. ove si consideri che la previsione in esso contenuta, secondo cui i beni in esame non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano…



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...ritenga nel bilanciamento comparativamente più rilevante.

Infine, per completezza espositiva, è opportuno aggiungere che la disciplina giuridica cui sono assoggettati i beni rientranti nella categoria del c.d. patrimonio disponibile dello Stato è notevolmente differente da quella riferibile ai beni rientranti nelle altre due citate categorie.

Infatti, la i beni «disponibili» sono integralmente sottoposti ad una disciplina privatistica essendo commerciabili, alienabili, usucapibili e soggetti ad esecuzione forzata, nonché liberamente trasferibili, senza che esista nessun vincolo di destinazione. 

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