Sanatoria «ordinaria» e «straordinaria» degli abusi edilizi

La sanatoria c.d. ordinaria o di regime

In materia edilizia, la nozione di sanatoria attiene al fenomeno della legittimazione di atti o comportamenti di privati tramite un atto amministrativo, con modalità legalmente prescritte.

Essa, quindi, si discosta dall’accezione tradizionalmente riconosciutale, in virtù della quale la medesima si sostanzia in un atto amministrativo che rimuove i vizi relativi all’esercizio della potestà amministrativa.

L’ordinamento giuridico italiano conosce e disciplina due tipologie di sanatoria degli abusi edilizi: quella c.d. ordinaria o di regime, disciplinata attualmente dagli artt. 36 ss. T.U. Edilizia, e quella straordinaria, disciplinata da leggi speciali.

La prima è stata regolata per la prima volta dall’art. 15 L. 10/77, per l’ipotesi di annullamento dell’allora concessione edilizia o di varianti non essenziali, che lasciava però irrisolta la questione della sanabilità delle opere prive di titolo autorizzativo, ma sostanzialmente non contrastanti con le norme e prescrizioni urbanistiche vigenti al momento dell’esecuzione e al momento di presentazione dell’istanza di regolarizzazione.

Successivamente, con l’entrata in vigore della L. 47/85, è entrata a pieno titolo nel sistema giuridico la sanatoria per accertamento di conformità.

L’istituto in esame presupponeva un’attività valutativa, e modestamente discrezionale, da parte dell’ente interessato, circa la sostanziale conformità dell’opera alla normativa urbanistica complessivamente vigente.

Al riguardo, il giudice amministrativo riteneva che il rilascio della concessione in sanatoria ex. art 13 L. 47/85, lungi dal determinare l’attenuazione dell’affidamento del privato in ordine alla stabilità di tale provvedimento, presupponeva una particolare attività valutativa da parte del comune, circa la sostanziale conformità dell’opera alla normativa vigente. Ne discendeva che la consapevole espressione di tale accertamento collocava il privato in una situazione non solo del tutto equiparabile a quella del titolare di un’ordinaria concessione edilizia, ma pure idonea a fondargli un legittimo affidamento sull’insussistenza di violazioni urbanistico-edilizie, rafforzato dal pagamento, a titolo sanzionatorio, del contributo di costruzione in misura doppia [1].

L’istituto in commento è stato introdotto nell’ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio in materia di abusi edilizi, nel senso di una maggiore severità, con l’intento di [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Il rilascio della concessione edilizia in esito ad accertamento di conformità, pertanto, attribuisce al responsabile dell’abuso una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella del titolare di un’ordinaria concessione edilizia, onde non può avere a presupposto se non il fatto che la fattispecie alla quale si riferisce risulta conforme, sotto ogni altro aspetto, soggettivo ed oggettivo, alla normativa vigente [2].

Attualmente, la materia è disciplinata dall’art. 36 T.U.

Esso, al comma 1, dispone che in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’art. 22, co. 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, co. 3, 33, co. 1, 34, co. 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.

Il rilascio è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall’articolo 16. Nell’ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l’oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso [3].

Una volta pagata detta somma, e ottenuto il permesso in sanatoria, non è più possibile contestare il suo ammontare.

Difatti, secondo il giudice amministrativo, l’oblazione consiste in un negozio giuridico unilaterale, processuale o extra processuale, produttivo di effetti giuridici di diritto pubblico, costituiti dal riconoscimento della sussistenza dell’illecito, con conseguente rinuncia irretrattabile alla garanzia giurisdizionale, e da cui deriva la rinuncia dello Stato all’applicazione di una sanzione superiore, sicché va esclusa la ripetibilità della somma pagata, ed è irrilevante ogni riserva fatta a tal fine [4].

Quanto ai soggetti legittimati a proporre l’istanza, si deve rilevare che, se da un lato l’amministrazione deve obbligatoriamente intervenire in presenza di abusi, dall’altro, l’accertamento dei presupposti di diritto e di fatto necessari per il rilascio del permesso in sanatoria non può prescindere da una specifica iniziativa di parte.

Le verifica della possibilità di ammettere le opere realizzate abusivamente, infatti, rientra tra le facoltà riconosciute dal legislatore al proprietario del manufatto stesso, non costituendo ciò un obbligo per l’amministrazione comunale, cui è al più demandato di provvedere all’eliminazione dell’intervento eseguito in difetto del prescritto titolo abilitativo [5].

Tanto premesso, l’art. 36 T.U. dispone che la domanda può essere presentata sia dal responsabile dell’abuso, che dal proprietario dell’immobile, ampliando in tal modo il novero di soggetti legittimati rispetto alle precedenti previsioni di cui all’art. 13 L. 47/85, che faceva riferimento soltanto alla prima categoria citata.

Per meglio delimitare i confini della norma, viene in ausilio quanto disposto dall’art. 29 T.U.

Esso qualifica come responsabile dell’abuso il titolare del titolo, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori, nonché il progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività.

Ne consegue che sono da ritenersi legittimati tutti coloro che vantino un interesse giuridico, e, quindi, anche il conduttore o il possessore.

Resta escluso solo chi non abbia un titolo idoneo di possesso all’atto della presentazione dell’istanza [6].

Quanto al termine entro cui si può presentare la domanda di sanatoria, l’art. 36 T.U. prevede termini differenti a seconda della natura degli interventi abusivi.

Per le opere eseguite in assenza di permesso di costruire, in totale difformità, o con variazioni essenziali, di cui all’art. 3, co. 3, T.U., il termine è di novanta giorni decorrenti dall’ingiunzione di demolizione del dirigente, previo accertamento dell’abuso.

Per gli interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso, di cui all’art. 33, co. 1, T.U., l’istanza deve essere presentata [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Infine, per i casi di parziale difformità del permesso, di cui all’art. 34, co. 1, T.U., il termine di presentazione della domanda è rimesso ancora alla discrezionalità del dirigente che ingiunge la rimozione o la demolizione dell’opera illecita [7].

Secondo la più recente giurisprudenza, qualora l’amministrazione procedente abbia conoscenza di eventuali soggetti controinteressati, deve comunicare loro l’avvio del procedimento di sanatoria edilizia. Diversamente, il procedimento risulterà irregolare [8].

Particolarmente dibattuto in giurisprudenza, è il tema della natura giuridica da ascrivere al silenzio dell’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità avanzata dal privato.

Ci si è a lungo chiesti, cioè, se lo stesso configuri un’ipotesi di mero inadempimento, o silenzio rifiuto, cui conseguirebbe l’obbligo dell’autorità di procedere, o se, piuttosto, si tratti di silenzio rigetto.

La questione non ha rilievo meramente teorico, dal momento che dall’adesione all’una o all’altra impostazione discendono diverse conseguenze sul piano giuridico. Nel primo caso, infatti, l’oggetto del relativo giudizio sarebbe limitato all’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere sull’istanza del privato, mentre, nel secondo, sarebbe costituito direttamente dalla verifica della fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente [9].

A sciogliere i nodi sul punto, è intervenuto il Supremo Consesso di Giustizia amministrativa, affermando che "il silenzio dell’amministrazione a fronte di un’istanza di sanatoria costituisce un’ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono pertanto collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto dell’istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso; ne consegue che tale provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé motivo privo di motivazione, tant’è che l’art. 13 L. 47/85 attribuisce al silenzio serbato dalla p.a. il valore di diniego vero e proprio, ed è impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per contenuto precettivo dell’atto" [10].

Pertanto, una volta decorso il termine di sessanta giorni, si forma il silenzio diniego. Esso può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura, e tanto meno la mancata motivazione [11].

Ai sensi dell’art. 37 T.U., il permesso in sanatoria può essere richiesto anche per gli interventi effettuati in assenza o in difformità del titolo abilitativo tacito denominato s.c.i.a.

In tal caso, il rilascio del provvedimento è subordinato a due ulteriori condizioni: il rispetto del termine indicato nell’art. 36 T.U.; il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione nella misura determinata nel comma 3 dello stesso articolo.

La somma dovuta, che va da un minimo di cinquecentosedici euro ad un massimo di cinquemilacentosessantaquattro euro, è stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all’aumento del valore dell’immobile, valutato dall’agenzia del territorio [12].

Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente, o il responsabile del competente ufficio comunale, si pronuncia con adeguata motivazione entro sessanta giorni, decorsi inutilmente i quali essa si intende rifiutata.

Il provvedimento di diniego, postulando una valutazione dei suoi presupposti, non può essere annoverato tra gli atti privi di alcun margine di discrezionalità, con la conseguenza che esso risulta essere illegittimo, ai sensi dell’art. 10 bis L. 241/90, qualora non sia preceduto dalla tempestiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Di qui, l’illegittimità dell’atto di ingiunzione, in presenza di un’istanza di parte, volta alla regolarizzazione di un abuso edilizio: la p.a. , prima di attivare i propri poteri repressivi, deve pronunciarsi preventivamente su tale istanza per esigenze garantistiche di tutela della posizione del contravventore, oltre che per ragioni di economia [13].

In merito agli effetti della proposizione dell’istanza, l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che "ove essa intervenga successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione e prima del ricorso giurisdizionale, determina l’inammissibilità di quest’ultimo per carenza di interesse, in quanto il riesame dell’abusività dell’opera provocato da detta istanza comporta la necessaria formazione di un nuovo procedimento, di accoglimento o di rigetto, idoneo comunque a superare la misura sanzionatoria oggetto dell’impugnativa. L’interesse del responsabile dell’abuso edilizio viene pertanto traslato verso il provvedimento che, eventualmente, respinga detta istanza e disponga ex novo la demolizione" [14].

All’esito del procedimento, in caso esso si concluda positivamente, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia a quello di presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo del manufatto.

Al contrario, in caso di rigetto, l’ordine di demolizione a suo tempo adottato riacquista efficacia, la quale era rimasta sospesa in attesa della conclusione del procedimento. In tal caso, però, il termine concesso per la demolizione spontanea dell’opera decorrerà dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato.

Pertanto, la presentazione della domanda in questione non comporta di per sé l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell’impugnazione originariamente proposta avverso le ordinanze di demolizione. Essa determina, piuttosto, un arresto dell’efficacia delle misure ripristinatorie, determinandosi uno stato di temporanea quiescenza dell’atto, per evitare, in caso di accoglimento della domanda, la demolizione di un’opera conforme alla strumentazione urbanistica vigente [15].

Quanto alle conseguenze sotto il profilo penale, l’art. 45 T.U. dispone che "1. L’azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’articolo 36. 2. Il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle normative urbanistiche vigenti".

Dal combinato disposto degli artt. 36 e 45 T.U. emerge, quindi, che il rilascio del provvedimento in sanatoria sortisce due effetti, uno amministrativo, e uno penale. Da un lato, infatti, consente al manufatto realizzato sine titulo, o in difformità dello stesso, di ottenerlo ex post; dall’altro, comporta l’estinzione della relativa fattispecie criminosa.

Il giudice penale ha il potere-dovere di verificare la legittimità del permesso di costruire rilasciato in sanatoria, e di accertare che l’opera realizzata sia conforme alla normativa vigente in materia.

In difetto di tale conformità, il titolo conseguito non estingue i reati, e il mancato effetto estintivo non si ricollega ad una valutazione di illegittimità del provvedimento della p.a., ma alla verifica dell’inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell’estinzione del reato in sede di esercizio del sindacato di legittimità del fatto estintivo incidente sulla fattispecie tipica penale [16].

È opportuno chiarire, altresì, che la presentazione dell’istanza in commento, così come quella di condono, se da un lato impone la sospensione del procedimento o dell’azione penale, non impedisce il compimento di atti urgenti, quale quello del sequestro preventivo. Tanto discende dalla circostanza che la misura cautelare reale ha il solo scopo di lasciare inalterata la situazione, o di impedire la prosecuzione dell’opera, giacché nell’attesa della pronuncia dell’autorità amministrativa, non si può consentire all’interessato di portare a termine un’opera che, ancorché sanabile, è comunque illecita. Inoltre, per l’estinzione del reato è sempre necessaria la dichiarazione formale [17].

Pertanto, solo il conseguimento del titolo abilitativo in sanatoria può giustificare la revoca del sequestro.

È utile specificare, inoltre, che dal tenore letterale dell’ultimo comma dell’articolo 45 T.U., consegue che l’efficacia estintiva non può prodursi in relazione ai connessi reati in materia di opere in cemento armato, di costruzioni in zone sismiche e di vincoli storico-artistici o paesaggistico-ambientali. La previsione citata, infatti, si limita al riferimento ai reati previsti dalle norme urbanistiche vigenti

Sul punto, la Corte Costituzionale ha chiarito che la scelta legislativa è tutt’altro che palesemente irragionevole ed arbitraria, in quanto [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Analogo discorso vale per l’esclusione dei reati paesaggistico-ambientali, distinti ed autonomi rispetto alle violazioni urbanistiche.

Anche in questo caso, pare opportuna la previsione della legge, "attesa la particolare tutela dei beni paesaggistico-ambientali, considerata tra i principi fondamentali della Costituzione come forma di tutela della persona umana nella sua vita, sicurezza, e sanità, con riferimento anche alle generazioni future in relazione al valore estetico-culturale assunto dall’ordinamento quale valore primario ed assoluto insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi atto. (…) Per di più, in tale accertamento non vi è una previsione procedimentale di partecipazione di autorità preposta ai vicoli paesaggistico-ambientali" [19].

Da ultimo, giova specificare che, riferendosi l’effetto estintivo di cui al citato articolo 45 ai reati come specificati, senza accennare alle eventuali sentenze di condanna passate in giudicato, si deve escludere che l’effetto estintivo possa estendersi anche alle suddette pronunce di condanna [20].

Tuttavia, il rilascio del permesso in sanatoria dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, anche se non produce l’effetto estintivo di cui sopra, può comportare l’inapplicabilità e la revoca dell’ordine di demolizione [21].

Per concludere, è utile riportare quanto recentemente ribadito dalla Suprema Corte, ovvero che "la speciale causa di estinzione di cui all’art. 45 DPR 380/2001 opera in favore di tutti i responsabili dell’abuso e non solo dei soggetti legittimati a chiedere il permesso di costruire, mentre il pagamento della somma dovuta a titolo di oblazione può essere richiesto una sola volta, trattandosi di un adempimento della procedura amministrativa che resta al di fuori dello schema penalistico" [22].


La sanatoria c.d. giurisprudenziale

Prima dell’entrata in vigore del T.U. Edilizia, al fine di attenuare gli effetti della rigorosa applicazione dell’art. 36 T.U, e cioè per evitare di dover disporre la demolizione di un manufatto originariamente abusivo, del quale deve poi essere consentita la realizzazione in base alla sopravvenuta disciplina, la giurisprudenza ha ammesso l’istituto della sanatoria c.d. giurisprudenziale.

Essa ammette la sanabilità di un’opera, anche se abusivamente realizzata, qualora ne risulti la conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo, e addirittura anche solamente a quella applicabile al momento della presentazione dell’istanza.

La ratio sottesa all’orientamento in esame consiste nell’esigenza di evitare la demolizione di un manufatto prima di ottenere la concessione per realizzarla nuovamente.

In virtù dell’istituto in commento, quindi, il permesso di costruire può essere rilasciato anche relativamente ad opere che, anche se non conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento in cui vennero eseguite, lo siano divenute successivamente per effetto di normative o disposizioni pianificatorie sopravvenute.

Il rilascio del titolo, però, non può comportare l’estinzione del reato urbanistico, non trovando applicazione, in tal caso, il disposto dell’art. 45 T.U., difettandone i presupposti.

Invece, esso esplica effetti sull’ordine di demolizione del manufatto abusivo. Infatti, comportando il rilascio del permesso la regolarizzazione dal punto di vista amministrativo dell’opera illecita, rende incompatibile la sopravvivenza della misura sanzionatoria, e ne giustifica la revoca in sede esecutiva. Essa, però, non è automatica, poiché il giudice dell’esecuzione è tenuto a controllare la legittimità dell’atto concessorio, sia circa la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione, sia dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio [23].

A fondamento della sanatoria giurisprudenziale si pone le pretesa esigenza di improntare l’esercizio del potere di controllo sull’attività edificatoria al buona andamento della p.a., che imporrebbe, in sede di accertamento di conformità, di accogliere l’istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica attualmente in vigore, sebbene non conformi a quella vigente al momento della loro realizzazione.

In tal modo, si eviterebbe uno spreco di attività inutili, sia dell’amministrazione, sia del privato.

Quest’impostazione, tuttavia, non ha convinto.

Di recente, infatti, si è assistito ad un totale ripensamento e ribaltamento dell’orientamento della giurisprudenza in materia.

Difatti, solo qualche anno fa il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi in merito, affermando il principio secondo cui [Omissis - versione integrale presente nel testo].

In sostanza, secondo il giudice amministrativo la sanatoria edilizia può ben intervenire anche a seguito della conformità sopraggiunta di un intervento che in un primo tempo non era assentibile.

Il principio normativo della doppia conformità – si legge nella sentenza – "è riferibile all’ipotesi ragionevolmente avuta di mira dal legislatore, desumibile cioè dal senso delle parole utilizzate dall’art. 13 L. 47/85, ovvero dal vigente art. 36 T.U. Edilizia, ipotesi che è quella di garantire il richiedente dalla possibile variazione in senso peggiorativo della disciplina edilizia, a seguito di adozioni di strumenti che riducano o escludano, appunto lo ius aedificandi quale sussistente al momento di presentazione dell’istanza".

A tal proposito il Consiglio di Stato ha osservato che "gli artt. 13 e 15 L. 47/85, richiedenti, per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l’inerzia dell’amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda".

Viceversa, "la norma non può ritenersi diretta a disciplinare l’ipotesi inversa dello ius superveniens edilizio favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell’istanza".

Secondo il giudice amministrativo sarebbe dunque ammissibile anche la sanatoria di opere conformi alla normativa vigente al momento in cui il Comune provvede sulla domanda pur se contrastanti con quella vigente al momento della presentazione dell’istanza.

In effetti, osserva il Consiglio di Stato, "imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente conforme, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lede parte sostanziale dello stesso interesse pubblico tutelato, poiché per un solo intervento, che sarebbe comunque legittimamente realizzabile, si dovrebbe avere un doppio carico di iniziative industriali-edilizie, con la conseguenza contrastante con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell’impatto territoriale ed ambientale".

Nonostante quanto ribadito dal Supremo Consesso, però, non si può non rilevare che l’agire della p.a. deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale fondamentale cui è informata l’attività amministrativa, e che trova fondamento positivo in molteplici previsioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101, 113 Cost.).

Esso, poi, non può non presupporre a sua volta quello di legalità: non può esservi rispetto del principio di buon andamento della p.a., se non vi è, al contempo, rispetto di quello di legalità.

In materia edilizia il punto di equilibrio tra questi è stato rintracciato dal legislatore nel consentire la sanatoria degli abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull’utilizzo del territorio, non solo di quella vigente al momento dell’istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all’epoca della loro realizzazione [25].

Solo il rispetto del criterio della c.d. doppia conformità, quindi, consente di evitare il determinarsi di un’insanabile contraddizione, che si manifesterebbe imponendo, da un lato, all’autorità comunale di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, e, dall’altro, consentendo violazioni sostanziali della normativa del settore.

Di quanto sopra ne ha preso atto anche il Consiglio di Stato, che nel 2013 è intervenuto nuovamente sulla questione, attestandosi, però, su una posizione diametralmente opposta alla sua precedente.

Con la pronuncia dell’11 giugno 2013, n. 3220, la sezione V del Supremo Consesso, ha bocciato la sanatoria giurisprudenziale, affermando che non esiste alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità da essa, siano conformi alla normativa urbanistica vigente nel momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda di sanatoria.

Si legge in sentenza, infatti, che " la sanatoria giurisprudenziale, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.

Alla luce di tali argomenti, è altresì evidente che l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui all’art. 13 L. 47/85, così come dedotta dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai, l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema costituzionale".

Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate che l’opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell’opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto dell’inerzia dell’amministrazione; ciò significa che [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 13, L. 47/85, l’autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell’intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati [26].

Peraltro, giova osservare che l’art. 36 DPR 380/2001, norma attualmente vigente sul medesimo tema, e non innovativa rispetto alla norma anteriormente vigente (art. 13 L. 47/85), e che disciplina l’accertamento di conformità richiesto dalla ricorrente, recita: "In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire…il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" [27].

Pertanto, è la stessa norma, la quale come si ribadisce non ha carattere innovativo, che attualmente conferma l’insussistenza dell’istituto sopra sunteggiato, denominato sanatoria giurisprudenziale.

Conclusivamente, dall’art. 13 L. 47/85 non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza la, o in difformità dalla, concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria.