La Corte Costituzionale interviene sulla natura giuridica delle reti idriche: la pronuncia 320/2011

La tematica relativa alla natura giuridica delle reti idriche ha avuto modo di interessare recentemente sia la Corte Costituzionale [1] che la Corte dei Conti.

La Consulta è stata chiamata ad intervenire a seguito della proposizione, ad opera del Presidente del Consiglio dei Ministri, di una questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 1 comma 1, lett. t) della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010,n. 21 [2] per la parte in cui introduce nell’art. 49 della legge regionale n. 26/2003 i commi 2,4 e 6, lett. c), in riferimento all’art. 117 comma 2, lettere e), l), m), s) Cost..

In particolare, occorre precisare che il predetto comma 2 stabilisce che «Gli enti locali possono costituire



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Il comma 4 del medesimo articolo della legge regionale prevede che la società patrimoniale d’ambito «In ogni caso … pone a disposizione del gestore incaricato della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali» e che «L’ente responsabile dell’ATO può assegnare alla società il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio, le attività di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse».

Da ultimo, ai sensi del comma 6, lett. c) della legge regionale in esame viene previsto che, al fine di ottemperare nei termini all’obbligo di affidamento del servizio al gestore unico, l’ente responsabile dell’ambito territoriale ottimale, tramite l’Ufficio d’ambito di cui all’art. 48 della stessa legge regionale 26/2003, effettua «la definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti».

Prima di affrontare l’analisi della sentenza in esame è opportuno precisare che essa interviene a due anni di distanza da una precedente sentenza [3] emanata sempre dalla nostra Consulta, con la quale era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il primo comma dell’art. 49 della legge della Regione Lombardia 26/2003, nel testo novellato dalla legge regionale 18/2006 [4].

La Corte Costituzionale nel 2009 aveva sostenuto che l’imposizione ad opera della legge censurata del principio della separazione tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico integrato violava la competenza esclusiva statale in materia di funzioni fondamentali dei Comuni di cui all’art. 117 comma 2 lett. p) Cost., …



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Con la sentenza del 2011 la Corte Costituzionale interviene nuovamente, come già anticipato, sulla legge lombarda questa volta censurando, però, i commi 2, 4 e 6 dell’art. 49 della stessa [5].

Secondo la ricostruzione della Consulta al momento dell’entrata in vigore della legge regionale predetta che al suo art. 49 comma 2 prevede, con riferimento alle infrastrutture idriche, un caso di cessione ad un soggetto privato di beni demaniali, incidendo con ciò sul regime giuridico della proprietà pubblica, era già in vigore l’art. 113 TUEL secondo cui, invece, «Gli enti locali non possono cedere la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio



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Inoltre, sempre al momento dell’entrata in vigore della medesima legge regionale era vigente anche l’art. 23-bis [6] comma 5, D.L. 112/2008, il quale, in parziale contrasto con l’art. 113 comma 13 TUEL stabiliva che «Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati».

In sostanza, il punctum dolens dell’intera vicenda consiste nel fatto che la legge regionale censurata, seppur con riferimento alle sole infrastrutture idriche, ha previsto la cessione ad un soggetto di diritto privato di beni demaniali, incidendo pertanto sul regime giuridico della proprietà pubblica.

La tematica dei beni pubblici, però, come ha avuto modo di sottolineare la stessa Consulta, rientra nella materia dell’ordinamento civile, concernente la potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l) Cost..


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Quest’ultima, però, è stata ritenuta insussistente dalla Corte Costituzionale che ha avuto modo di rilevare la circostanza per cui il comma 13 dell’art. 113 TUEL, che consentiva il conferimento delle reti in proprietà a società di diritto privato a capitale interamente pubblico era da ritenersi già tacitamente abrogato al momento dell’emanazione della legge regionale in esame per incompatibilità con il comma 5 dell’art. 23 bis del D.L. 112/2008, il quale aveva stabilito il principio secondo cui le reti sono di proprietà pubblica.

Per di più, il comma 1 dell’art. 143 del d.lgs. 152/2006 conferma la natura demaniale delle infrastrutture idriche, dettando una specifica normativa di settore e disponendo che non solo gli acquedotti, ma anche le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica fanno parte del demanio ai sensi dell’art. 822 e 824 comma 1 c.c..

Pertanto, alla luce di quanto detto, la Corte Costituzionale, con riferimento al caso in esame, è pervenuta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 49 comma 2 della legge della regione Lombardia, in quanto privo di una normativa statale cui dare attuazione [7].

Infatti, oltre alle motivazioni già analizzate e sostenute a sostegno della propria decisione…



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...il patrimonio della società, i quali, invece, possono liberamente circolare integrando la garanzia generica dei creditori limitabile solo nei casi stabiliti dalla legge dello Stato nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di ordinamento civile [8].

Per di più nel ragionamento giuridico seguito dalla Corte si inserisce la considerazione secondo cui non è fondata la tesi proposta secondo cui di fatto l’abrogazione dell’art. 113, comma 13 del TUEL non si sarebbe mai verificata in quanto quest’ultima non risultava inserita nell’art. 12, comma 1, lett. a), del regolamento di delegificazione di cui al D.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 attuativo dell’art. 23-bis D.L. 112/2008.

Infatti, è stato opportunamente chiarito che il citato art. 23-bis ha previsto due diverse modalità di abrogazione della normativa previgente:


a) la lettera m) del comma 10 ha affidato al Governo il potere di individuare espressamente, attraverso l’emanazione di un regolamento, le disposizioni abrogate ai sensi dello stesso art. 23-bis [9];

b) Il successivo comma 11, invece, con riferimento al solo art. 113 TUEL, ne ha disposto l’abrogazione «nelle parti incompatibili con le disposizioni» del medesimo art. 23-bis [10].


Alla luce di quanto detto, ne consegue, pertanto, che la circostanza per cui il sopra citato regolamento di delegificazione non abbia ricompreso al suo interno il comma 13 dell’art. 113 TUEL tra le disposizioni abrogate non esclude che l’effetto abrogativo si sia già verificato a partire dalla data di entrata in vigore della lex posterior.

Per di più, il comma 13 in esame non ha ripreso vigore neanche a seguito della abrogazione dell’art. 23-bis D.L. 112/2008 in seguito al referendum popolare del giugno 2011.

Infatti, il quadro normativo così delineato non è stato scalfito, ma anzi confermato ad opera del D.L. 13 agosto 2011…



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In seguito a tutte le considerazioni appena effettuate ne deriva che, in particolare il settore idrico integrato continua ad essere disciplinato dall’art. 143 del d.lgs. 152/2006 [11] che, a sua volta, sancisce la proprietà demaniale delle infrastrutture idriche e, quindi, di conseguenza, la loro inalienabilità se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge.

La ricostruzione effettuata dalla Corte Costituzionale non è andata, però, esente da critiche.

Sul punto, infatti, secondo una certa opzione interpretativa [12] l’affermazione contenuta nell’art. 23-bis comma 5 D.L. 112/2008 costituisce semplicemente un’affermazione di principio, sancita con riferimento a quelle reti che già erano pubbliche all’entrata in vigore della norma: più precisamente, essa sembra piuttosto rivolta a disciplinare le nuove fattispecie, conservando, invece, le vecchie fattispecie il loro regime proprio.

Analoghe considerazioni sono state rivolte dagli interpreti anche al nuovo art. 4 comma 28 del D.L. 13 agosto 2011 n. 138, convertito nella legge del 14 settembre 2011, n. 148 che ha riproposto integralmente il contenuto del citato art. 23-bis, abrogato a seguito della tornata referendaria svoltasi nel giugno del 2011.

Certa dottrina [13], infatti, sul punto dichiara che «sembra doversi ritenere che la norma non implichi una proprietà pubblica necessaria delle reti destinate a pubblico servizio locale. In sostanza, dovrebbero rimanere pubbliche (senza dunque possibilità di cederle) solo le reti che già lo sono o per le quali è prevista nei rapporti in corso la devoluzione all’ente locale.

Ove, invece, si volesse sostenere che tali reti non possono mai appartenere a soggetti privati, la norma dovrebbe comunque essere applicata restrittivamente: non ogni impianto destinato a pubblico servizio, ma solo quelli che si sviluppano in reti [14].

Inoltre, in questa seconda ipotesi, (proprietà pubblica necessaria) la disposizione sarebbe comunque da applicare alle nuove fattispecie che si verificano dopo l’entrata in vigore delle norme così introdotte. Le precedenti fattispecie conserverebbero il regime loro proprio al momento della realizzazione (a seconda che sia stato convenuto tra le parti: permanenza nella proprietà privata; devoluzione all’ente locale alla scadenza del rapporto).



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È stato, inoltre, sostenuto che l’art. 23-bis comma 5, D.L. 112/2008 non sembra essere direttamente incompatibile con il comma 13 dell’art. 113 TUEL che, infatti, si limiterebbe a prevedere la proprietà pubblica delle reti e l’incedibilità delle stesse.

Secondo la Corte Costituzionale [15], invece, la previsione del citato comma 13, in ordine all’incedibilità del capitale totalmente pubblico delle società patrimoniali non ha rilevanza con riferimento alla potenziale alienazione dei cespiti delle stesse (comprese le reti) facenti parte del patrimonio sociale: i beni in esso compresi, infatti, sono suscettibili di circolare liberamente.

Un aspetto analizzato da un altro filone di pensiero [16] ha riguardato gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale in esame.


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Pertanto, l’intervenuta abrogazione tacita dell’articolo 113 comma 13 TUEL ipotizzata dalla Consulta in via interpretativa non costituisce l’oggetto della pronuncia e tanto più non può concernere i rapporti in corso.

Inoltre, dalla lettura dell’articolo 136 della Costituzione si evince che la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione [17].

Alla luce di quanto detto ne consegue che i rapporti sorti in precedenza non cadono ipso iure perché sono sorti in forza di una legge che era pienamente valida ed efficace fino a quel momento.

Applicando quanto detto al caso in esame ne consegue che le società patrimoniali che risentono dell’effetto abrogativo provocato dalla sentenza della Consulta sono solo quelle cui si riferisce l’art. 49 della suddetta legge della regione Lombardia e non quelle cui, invece, intende riferirsi l’art. 113 comma 13 TUEL che non costituisce, come già detto, oggetto principale della pronuncia.

Quest’ultimo risulterebbe tacitamente abrogato a seguito di una interpretazione in tal senso effettuata dalla Corte.

A tale riguardo, però, i giudici ordinari, riconoscono un potere interpretativo in capo alla Corte Costituzionale solo ove una giurisprudenza consolidata manca.

Inoltre, solo le decisioni della Corte che dichiarano l’illegittimità di norme…



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Pertanto, come osservato dalla stessa giurisprudenza della Cassazione, l’attività interpretativa della Consulta, pur rappresentando un autorevole precedente non ha efficacia vincolante né nei confronti del giudice né nei confronti della Pubblica Amministrazione [18].