Le occupazioni illegittime nel regime anteriore al testo unico

Nel corso del XX secolo, le occupazioni illegittime[1] non hanno mai trovato compiuta regolamentazione in norme di legge. Le conseguenze giuridiche di tali occupazioni, quindi, erano il frutto di un’intensa opera di creazione giurisprudenziale, alla quale il legislatore e la Corte costituzionale avevano dato un contributo tutto sommato marginale. Vera protagonista nell’elaborazione dell’istituto era stata infatti la Corte di cassazione, alla quale l’occupazione acquisitiva[2] deve le proprie origini e la propria affermazione.

Le origini dell’istituto si fanno normalmente risalire alla c.d. “sentenza Bile”[3], resa appunto dalla Corte di cassazione, a Sezioni Unite, nel 1983. A dir la verità, però, la stessa sentenza riconosceva espressamente di aderire ad un orientamento precedente[4], emerso poco prima ed ancora in via di affermazione[5], ma già avvallato dalle stesse Sezioni Unite[6]. D’altra parte, non si può certo dire che dopo il 1983 non si siano più tentate strade alternative[7], com’è del resto naturale in sede di elaborazione di un istituto squisitamente giurisprudenziale. Il merito della sentenza Bile, allora, era piuttosto quello di aver dato all’espropriazione sostanziale una base solida e rigorosa, facendosi carico di confutare tanto gli opposti orientamenti giurisprudenziali[8] quanto le critiche al nuovo indirizzo avanzate medio tempore dalla dottrina[9]. La costruzione, ad ogni modo, risultava tutto sommato convincente e per questo i successivi tentativi di sovversione[10] venivano sedati dalle stesse Sezioni Unite, che in più occasioni[11] giungevano a riaffermare i principi già chiariti nel 1983.

Sulla scorta di queste continue conferme, i suddetti principi maturavano in effetti dei tratti piuttosto chiari, i quali, benché ancora oggetto di critiche dottrinali[12], avevano il merito di dare alle occupazioni illegittime una regolamentazione netta e precisa. In estrema sintesi, l’occupazione acquisitiva configurava un modo di acquisto della proprietà a favore della p.a. che si verificava allorché quest’ultima, avendo occupato illegittimamente un bene per la realizzazione di un’opera pubblica, ne operava una irreversibile trasformazione ma non ne perfezionava la procedura espropriativa; con tale trasformazione, dunque, si producevano vari effetti, a cominciare dall’estinzione della proprietà del privato e dal corrispondente acquisto della proprietà pubblica a titolo originario; nello stesso momento, però, si consumava anche un atto illecito, con la conseguenza che la p.a. era obbligata a risarcire il danno cagionato al privato con il proprio comportamento, se richiesto nel termine prescrizionale di cinque anni[13]. Come si vede, dunque, delle molte tutele teoricamente offerte al proprietario del bene occupato rimaneva la sola azione risarcitoria, peraltro assoggettata ad un breve termine prescrizionale[14] e con esclusione del risarcimento in forma specifica, reso impossibile dal fatto che proprietaria risultava ormai la pubblica amministrazione.

Le conclusioni della sentenza Bile trovavano poi ampia conferma nella giurisprudenza successiva, unitamente ad alcune precisazioni. Tra esse, merita senz’altro di essere ricordata la centralità della dichiarazione di pubblica utilità. Su questo punto, per vero, la sentenza Bile era stata un po’ evasiva, ma in breve tempo era diventato chiaro[15] che in tanto si poteva parlare di occupazione acquisitiva in quanto vi fosse una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità[16]. In caso contrario si doveva parlare piuttosto di “occupazione usurpativa”[17], con notevoli differenze sul piano pratico. Diversamente dall’occupazione acquisitiva, infatti, l’occupazione usurpativa costituiva un illecito permanente[18], con la conseguenza che l’azione risarcitoria non era soggetta a prescrizione[19] ed il privato poteva chiedere in ogni tempo la restituzione del bene. Per sdrammatizzare almeno in parte quest’ultimo effetto, tuttavia, l’istituto veniva a sua volta corretto riconoscendo al privato proprietario la possibilità di optare, anziché per la restituzione del bene, per il solo risarcimento per equivalente: nella proposizione di quest’ultima domanda, infatti, la giurisprudenza intravedeva una volontà abdicativa del diritto di proprietà, con la conseguenza che il privato conseguiva una soddisfazione puramente monetaria e l’amministrazione otteneva la proprietà del bene anche in presenza delle illegittimità più gravi[20].

Occupazione acquisitiva ed usurpativa naturalmente si escludevano a vicenda, ponendosi al contempo in rapporto di reciproca complementarietà e venendo così a costituire i due versanti di un unico istituto più ampio, noto come “espropriazione sostanziale”[21] o come “espropriazione indiretta”[22], che qui si ritengono espressioni di identica portata[23]. Alla fine degli anni ’80, tale istituto appariva già «diritto vivente»[24], tant’è che il legislatore ne prendeva atto[25] e ne estendeva la disciplina all’illegittima occupazione di terreni destinati all’edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata[26], di per sé sottratta al meccanismo pretorio in quanto non costituente opera pubblica in senso stretto[27]: l’intervento normativo, benché poco rigoroso[28] e ben lungi da una completa regolamentazione dell’istituto[29], mostrava quantomeno che il legislatore era al corrente dell’elaborazione pretoria ed anzi lo apprezzava al punto da estenderlo oltre i suoi iniziali limiti applicativi. Analogo appariva anche l’atteggiamento della Consulta, che dapprima si limitava a far salva la norma[30], ma poi ne estendeva a sua volta l’ambito di applicazione[31], includendo in particolare l’occupazione usurpativa laddove il legislatore si era interessato della sola acquisitiva[32]. Forte di questo “via libera”, il legislatore tornava allora ad occuparsi dell’istituto, dapprima per tassare le plusvalenze derivanti dalla percezione di somme «comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazione d’urgenza divenute illegittime»[33], poi per consentire alla Cassa depositi e prestiti di aiutare gli enti territoriali a sostenere gli oneri risarcitori da accessione invertita[34] e soprattutto per quantificare il risarcimento da occupazione illegittima in misura pari all’indennità da espropriazione legittima[35], che nel frattempo era stata sensibilmente abbattuta ad opera del c.d. “decreto Amato”[36]. L’«ardita costruzione legislativa»[37] consistente nell’estendere il quantum indennitario ad un risarcimento del danno veniva però censurata dalla Consulta, che riteneva irragionevole la parificazione del risarcimento del danno all’indennità di esproprio nella misura in cui rendeva sostanzialmente indifferente, per l’autorità espropriante, concludere l’azione amministrativa in modo legittimo o illegittimo[38]. Il legislatore tornava allora sulla questione introducendo uno scarto del 10% tra indennità da espropriazione legittima e risarcimento da occupazione acquisitiva[39] e questo scarto, benché modesto, veniva ritenuto sufficiente dalla successiva giurisprudenza costituzionale[40]. La Corte di cassazione, però, aveva subito cura di precisare che il taglio del risarcimento si applicava alla sola occupazione acquisitiva[41]: l’usurpativa, viceversa, rimaneva assoggettata alla quantificazione ordinaria, con conseguente integralità del danno risarcibile in caso di assenza di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità[42].

La situazione della metà degli anni ’90 vedeva quindi, in estrema sintesi, un legislatore ed una Consulta al lavoro fianco a fianco per limare alcuni profili dell’occupazione acquisitiva, senza però contestare le scelte di fondo compiute dalla Corte di cassazione ed anzi allargandone i risvolti applicativi fino a dove quest’ultima non era arrivata. Permanevano, ad onor del vero, alcuni profili di incerta regolamentazione, sulla cui esatta quantificazione non v’è però uniformità di vedute: si tratta infatti di problemi marginali secondo la giurisprudenza civile[43] e parte della dottrina[44], mentre altri Autori[45] e la giurisprudenza amministrativa[46] li ritenevano insormontabili.

In ogni caso, le zone d’ombra delle occupazioni illegittime riscontrate fino a quel momento erano davvero ben poca cosa in confronto agli sconvolgimenti che su di esse si sarebbero abbattuti a partire dalla seconda metà della medesima decade.





[1] Delineato nel capitolo che precede il rapporto tra le occupazioni illegittime di diritto comune e quelle poste in essere dalla p.a., d’ora in avanti ci si riferirà sempre a queste ultime, se non diversamente specificato.

[2] L’istituto di creazione pretoria ha molti nomi, tra cui “occupazione acquisitiva” e “occupazione appropriativa” ed “accessione invertita”. Con i termini “espropriazione sostanziale”, “espropriazione indiretta” ed “espropriazione di fatto”, invece, ci si riferisce nel testo al sistema complessivamente originato dall’unione dell’occupazione acquisitiva e dell’occupazione usurpativa, sulla quale cfr. infra, pag. 19.

[3] Si tratta della fondamentale Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464, così chiamata dal nome del giudice estensore, come ricorda Loro P., Le alternative all’esproprio e all’articolo 43, in Articolo 43 d.P.R. 327/2001 incostituzionale. Occupazioni illegittime: che fare? Atti del convegno esproprionline di Legnaro del 17 novembre 2010, pag. 94.

[4] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464: «A questo punto - poste di fronte alla scelta fra l’orientamento tradizionale di cui al n. 3 [...] e il più recente indirizzo di cui al n. 5, [...] le sezioni unite, rimeditato il problema anche alla luce delle implicazioni comportate da ciascuna delle due tesi, ritengono di dover aderire alla seconda».

[5] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 8 giugno 1979, n. 3243 e 28 aprile 1981, n. 2556, nonché Cass. Civ., Sez. Un., 17 giugno 1982, n. 3674, tutte ricordate da Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464.

[6] Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464. È curioso peraltro che, occupandosi del problema dell’«espropriazione di fatto» prima della svolta del 1983, dottrina autorevolissima riportasse già una tesi giurisprudenziale sostanzialmente coincidente con quella prospettata da quest’ultima pronuncia, qualificandola come «giurisprudenza ultraventennale, ormai consolidata»: cfr. Sandulli A.M.: Diritto Amministrativo, XIII ed., Napoli, 1982, II, pag. 777. In nota, l’Autore rinvia a Cass. Civ., Sez. I, 30 aprile 1981, n. 2644, la quale afferma che la realizzazione di una strada militare su suolo privato determina l’acquisto del suolo al demanio militare, ma non compare tra i precedenti menzionati da Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464.

[7] Cfr. Cass. Civ. Sez. II, 18 aprile 1987, n. 3872 nonché Cass. Civ., Sez. I, 11 luglio 1990, n. 7210, 17 luglio 1991, n. 7952, 8 ottobre 1992, n. 10979 e 8 ottobre 1992, n. 10979, tutte esaminate da Maruotti L., Articolo 43, Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblica utilità, in Caringella F., De Marzo G., De Nictolis R., Maruotti L., L’espropriazione per pubblica utilità. Commento al testo unico emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 come modificato dal D.Lgs. 302/2002, Milano, 2003, II ed., pagg. 581 e 585.

[8] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464.

[9] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464.

[10] Cfr. De Marzo G., Articolo 43, in Caringella F., De Marzo G., De Nictolis R., Maruotti L., L’espropriazione per pubblica utilità. Commento al testo unico emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 come modificato dal D.Lgs. 302/2002, Milano, 2003, II ed., pag. 619, che ricorda la «significativa evoluzione, non priva di tensioni interne», della giurisprudenza in tema di occupazione appropriativa».

[11] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 10 giugno 1988, n. 3940 e 25 novembre 1992, n. 12546, sulle quali cfr. Maruotti L., Articolo 43, cit., rispettivamente pagg. 581-582 e pagg. 585-586. Cfr. altresì De Marzo G., Articolo 43, cit., pag. 626: «La fragilità delle soluzioni proposte condusse, nel 1988 [...], alla riconferma dell’orientamento inaugurato cinque anni prima e alla chiarificazione delle sue ragioni, ispirate ad esigenze di certezza del diritto e ad “elementari sentimenti di giustizia”».

[12] Cfr. Maruotti L., Articolo 43, cit., pag. 581, per il quale «tale orientamento, poi consolidatosi, era stato severamente criticato da chi aveva posto in evidenza: la c.d. elasticità del diritto di proprietà (nel senso che esso continua ad esistere anche [se] subisce gravi incidenze, perché vi è la possibilità di espansione delle relative facoltà; il principio di legalità, espresso dal secondo comma dell’art. 42 Cost., per il quale l’amministrazione può coattivamente acquistare la proprietà privata solo nei casi previsti dalla legge». Cfr. altresì De Marzo G., Articolo 43, cit., pagg. 615 e 626, laddove si ricorda rispettivamente che la soluzione dell’occupazione acquisitiva «non ha mancato di incontrare critiche in dottrina» e che «nei primi tempi successivi alla pubblicazione della sentenza del 1983, vi fu una levata di scudi della dottrina».

[13] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 6 febbraio 1983, n. 1464: «In conclusione, le sezioni unite ritengono che nelle ipotesi in cui la pubblica amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un’opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l’occupazione si configurava legittima, la radicale trasformazione del fondo - ove sia dal giudice di merito ritenuta univocamente interpretabile nel senso dell’irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell’opera pubblica - da un lato comporta l’estinzione in quel momento del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all’ente costruttore e dall’altro costituisce un illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi prima indicati, la condanna dell’ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l’eventuale diminuzione del potere di acquisto subìto dalla moneta fino al giorno della liquidazione, e con l’ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità intervenuto successivamente a tale momento deve considerarsi del tutto privo di rilevanza - sia ai fini dell’assetto proprietario sia ai fini della responsabilità da illecito». Per una sintesi più recente della struttura dell’occupazione acquisitiva cfr. Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293: «L’acquisto della proprietà conseguiva ad un’inversione della fattispecie civilistica dell’accessione di cui agli artt. 935 ss. cod. civ., in considerazione della trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa ricostruzione, la destinazione irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato comportava l’acquisto a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della proprietà del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del privato. La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10 giugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura della “occupazione acquisitiva”, limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l’interesse pubblico su quello privato». In dottrina cfr. ex multis Borgo M., Occupazione acquisitiva, occupazione usurpativa, acquisizione coattiva sanante ex art. 43 t.u. espropri, in www.esproprionline.it, 16 gennaio 2006 - 16 marzo 2006, parte prima, pag. 2: «Elaborando un istituto volto a contemperare i problemi legati alla perdita della proprietà con il riconoscimento di un adeguato ristoro per il proprietario, le Sezioni Unite della Cassazione stabilivano che, qualora la P.A. (o un suo concessionario) occupasse un fondo di proprietà privata per la realizzazione di un’opera pubblica e tale occupazione risultasse illegittima per totale assenza del provvedimento di occupazione, oppure per decorso dei termini di un’occupazione legittima, l’attività di trasformazione radicale dell’immobile preesistente avrebbe determinato l’estinzione del diritto di proprietà in capo al proprietario originario e, contemporaneamente, l’acquisizione a titolo originario della proprietà del bene in capo all’ente espropriante».

[14] Cfr. De Marzo G., Articolo 43, cit., pagg. 614-615. Secondo l’Autore, la «prescrizione quinquennale del diritto del proprietario al risarcimento del danno» costituisce infatti, assieme alla «inutilità del decreto di esproprio emanato in un momento successivo al perfezionarsi della fattispecie acquisitiva», una delle «due implicazioni pratiche più rilevanti della costruzione elaborata dalla giurisprudenza». L’Autore ritorna poi sulla questione infra, a pag. 619, ricordando che «il fatto che il diritto risarcitorio spettante al proprietario vittima dell’illecito della P.A. sia assoggettato al termine quinquennale di prescrizione ha, per lungo tempo, aggravato le conseguenze della creazione giurisprudenziale, dell’occupazione appropriativa».

[15] Cfr. Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293: «La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10 giugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura della “occupazione acquisitiva”, limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l’interesse pubblico su quello privato». In dottrina cfr. Melloni I., Acquisizione coattiva sanante: nascita e morte di un istituto controverso. Carrellata storica delle soluzioni individuate dalla giurisprudenza e dal legislatore al problema delle occupazioni illegittime, in Articolo 43 d.P.R. 327/...