Presupposti per l’esercizio dei poteri di autotutela
Con riferimento alla d.i.a. edilizia non sembra applicabile l’istituto della revoca, disciplinato dall’art. 21-quinquies della legge n. 241/1990, visto che ad essa deve essere riconosciuto carattere irrevocabile, analogamente a quanto disposto in tema permesso di costruire dall’art. 11, co. 2, terzo periodo, T.U., per cui la nostra analisi sarà limitata al solo «annullamento d’ufficio», il quale, come si è detto sopra, per la «super d.i.a.» è espressamente previsto dagli artt. 38 e 39 T.U..
È doveroso osservare che tale conclusione risulta avallata anche dalle modifiche recentemente apportate all’art. 19, co. 3, della legge n. 241/1990 dall’art. 6, co. 1, lett. a), della legge n. 124/2015, che ha espunto ogni riferimento all’art. 21-quinques: invero, se la norma sulla revoca non è applicabile alla s.c.i.a., sembra ragionevole ritenere che identico principio debba valere anche per le residue ipotesi d.i.a. sopravvissute al d.l. n. 78/2010, giacché d.i.a. e s.c.i.a. condividono la medesima ratio di semplificazione.
I presupposti per l’esercizio di tale potere possono essere rinvenuti all’art. 21-nonies, co. 1, della legge n. 241/1990, che, oltre all’illegittimità del provvedimento, richiede la sussistenza di un interesse pubblico, il rispetto di un termine ragionevole e il contemperamento con gli interessi dei destinatari (ossia il denunciante) e dei controinteressati (leggasi: i soggetti che hanno interesse a che l’attività edilizia assentita con d.i.a. non sia posta in essere).
L’art. 6, co. 1, lett. d), della legge n. 124/2015 ha modificato la norma in esame specificando che il termine ragionevole per l’esercizio del potere di autotutela non deve superare i diciotto mesi dall’adozione del provvedimento, se si tratta di atti autorizzativi o che hanno l’effetto di attribuire dei vantaggi economici.
Ai sensi del nuovo comma 2-bis dell’art. 21-nonies, inoltre, prevede che l’anzidetto limite di diciotto mesi per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio non trova applicazione nel caso di provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione o dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato, ferma restando l’applicazione delle sanzioni penali e delle misure repressive previste dagli artt. 75 e 76 del D.P.R. n. 445/2000.
Di seguito si esamineranno partitamente i singoli presupposti che si sono ora elencati in via generale, tenendo conto delle recenti innovazioni introdotte dalla legge n. 124/2015.
Quanto all’illegittimità del provvedimento, si dovrà tener conto di quanto si è detto sulla natura giuridica della d.i.a. e del fatto che, anche alla luce delle recenti innovazioni apportate dal d.l. n. 138/2011, in tale meccanismo manca una fattispecie provvedimentale.
Pertanto, si dovrà più correttamente parlare di insussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti dalla legge per lo svolgimento dell’intervento, e tale insussistenza dovrà essere valutata alla luce della normativa vigente non al momento della presentazione della d.i.a., ma alla scadenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio, senza che si possa tener conto di eventuali norme urbanistiche non ancora operanti o sopravvenute rispetto a questo momento.
Peraltro, non sembra possibile che la P.A. possa esercitare i propri poteri di autotutela sulla «super d.i.a.» qualora esista una pronuncia giurisdizionale che abbia affermato la sussistenza dei presupposti per intraprendere l’intervento, e questo in applicazione del principio per cui qualora il G.A. abbia escluso l’illegittimità del provvedimento, la P.A. non potrà per gli stessi motivi oggetto di giudizio annullare l’atto, a meno che il ricorso non sia stato respinto per motivi c.d. pregiudiziali.
Alla luce di quanto si è sin qui esposto, la mera incompletezza documentale della d.i.a. non giustifica di per sé l’intervento in autotutela della P.A., occorrendo, piuttosto, che quest’ultima solleciti prima la produzione degli atti mancanti ritenuti essenziali ai fini del completamento della pratica.
Nemmeno il mero mutamento di interpretazione di una norma giuridica può giustificare l’annullamento d’ufficio, mentre invece l’esercizio del potere di autotutela su un provvedimento originariamente legittimo potrebbe essere giustificato da una legge successiva retroattiva che renda l’atto illegittimo o da una sentenza che dichiari l’incostituzionalità della norma su cui si fonda il provvedimento.
È da chiarire inoltre che è irrilevante che la presenza del vizio sia o meno dovuta a colpa imputabile della P.A., che non vi è alcun dovere di valutare l’eventuale sanabilità dell’opera illegittimamente assentita e che la P.A., in presenza di dubbi sulla sussistenza dei presupposti per assentire l’intervento con d.i.a., non può esercitare il potere di autotutela riservandosi di approfondire gli aspetti ritenuti rilevanti, giacché la rimozione di un atto può essere effettuata soltanto a seguito dell’accertamento della sua illegittimità e non già a fronte di una situazione che sia ancora da verificare.
Infine, occorre precisare che a seguito delle modifiche apportate dall’art. 25, co. 1, lett. b-quater), del d.l. n. 133/2014 all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, non è possibile esercitare il potere di autotutela nell’ipotesi in cui il vizio abbia carattere meramente formale o procedimentale ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, della stessa legge n. 241/1990.
La necessità di ripristinare la legalità violata non è tuttavia sufficiente a legittimare l’esercizio del potere di autotutela, occorrendo la presenza di un interesse pubblico ulteriore, specifico, attuale e concreto alla rimozione del titolo edilizio, che tuttavia non è facile da definire.
Accanto, infatti, a pronunce che ritengono che l’interesse pubblico sia presente in re ipsa nelle ipotesi di annullamento del titolo edilizio e non sia necessaria una specifica motivazione sul punto, argomentando dalla particolare rilevanza che assume la necessità di ripristinare il corretto assetto del territorio, vi sono anche decisioni che richiedono che la P.A. compia un’adeguata valutazione dell’effettiva utilità per la collettività locale di perseguire l’assetto urbanistico ritenuto astrattamente ottimale nel momento in cui furono posti in essere la norma o il piano, piuttosto che l’assetto territoriale pur divergente determinatosi in esito all’intervento costruttivo assentito. In tal senso sarebbe sufficiente l’individuazione di un interesse solo lato sensu urbanistico, comprensivo di interessi genericamente inerenti l’assetto del territorio, alla tutela ambientale e paesaggistica, al traffico, all’ecologia e alla salute dei cittadini. Si è anche specificato, ma il punto è controverso, che le ragioni di pubblico interesse devono essere ulteriori rispetto a quelle che avrebbero giustificato il diniego della concessione edilizia.
Peraltro, in giurisprudenza si è affermato il principio per cui la P.A., nell’annullare d’ufficio il titolo edilizio, deve far sì che il provvedimento non risulti incongruo o iniquo, adottando la soluzione che in concreto si palesa meno pregiudizievole per l’insieme delle esigenze da considerare, tenendo anche conto che alla realizzazione della situazione ha per lo meno concorso anche lei stessa.
È sulla base di questa considerazione che si è arrivati a sostenere che, qualora il titolo edilizio sia stato rilasciato per edifici di altezza eccedente le misure massime consentite dagli strumenti urbanistici vigenti, l’eventuale annullamento in via amministrativa o giurisdizionale non deve investire le licenze stesse nella loro interezza, bensì solo per la parte irregolare del progetto.
Ad ogni modo, resta ferma la regola, oramai acquisita in giurisprudenza, secondo cui l’annullamento parziale del titolo edilizio è possibile soltanto qualora l’opera sia scindibile, in modo tale da poter essere oggetto di più progetti e titoli abilitativi edilizi, e quindi nel momento in cui la caducazione del titolo edilizio sia frutto di valutazioni prive di elementi discrezionali. Questo principio rinviene la sua ratio nel fatto che l’amministrazione comunale può soltanto accogliere o respingere una domanda di rilascio di un titolo edilizio, ma non modificare il progetto, non potendosi imporre all’interessato la realizzazione di un’opera diversa dal progetto che egli ha presentato.
Inoltre, sempre in ragione del principio di proporzionalità e di economicità dei mezzi, si è affermato che la P.A., prima di procedere all’annullamento in autotutela deve esaminare l’istanza di variante progettuale che sia stata presentata dal titolare del titolo edilizio allo scopo di eliminare il vizio.
Il requisito della ragionevolezza del termine deve tenere conto della complessità della valutazione che la P.A. è chiamata a compiere e delle difficoltà di risalire all’errore in cui essa è incorsa e va valutata anche alla luce dell’art. 39 T.U., che, come si dirà, fissa un termine di dieci anni per l’annullamento regionale.
Come si è avuto modo di anticipare, la legge n. 124/2015 ha introdotto un termine massimo per l’esercizio dei poteri di autotutela, fissandolo in diciotto mesi nei casi di «provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Se è pacifico che – come si vedrà al paragrafo successivo – detto limite temporale si applica alla s.c.i.a., in virtù del rinvio all’art. 21-nonies contenuto nella nuova formulazione del comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241/1990, tale conclusione non è altrettanto certa con riferimento alla «super d.i.a.», per la quale manca un analogo rinvio.
Nondimeno, ragioni di coerenza sistematica inducono a ritenere che il limite temporale di diciotto mesi possa trovare applicazione alla «super d.i.a.», non essendo ragionevole immaginare che esso venga in rilievo per il permesso di costruire (che rientra certamente tra i «provvedimenti di autorizzazione») e non anche per lo strumento di semplificazione che lo sostituisce.
Lo stesso ragionamento può essere compiuto anche prendendo le mosse dalla s.c.i.a., poiché non vi è alcuna ragione per escludere che il limite temporale di diciotto mesi trovi applicazione anche alla «super d.i.a.», che con la s.c.i.a. condivide la ratio di semplificazione.
Occorre chiedersi, a questo punto, quale sia il dies a quo del termine di diciotto mesi, non essendo chiaro se esso decorra dal momento della presentazione della «super d.i.a.» oppure dalla scadenza del termine di trenta giorni per l’esercizio del potere inibitorio.
La seconda soluzione appare preferibile, perché prima dello spirare del termine di trenta giorni il denunciante non può intraprendere i lavori oggetto della «super d.i.a.», cosicché soltanto alla scadenza del termine per l’esercizio dei poteri inibitori si può ritenere che la fattispecie abilitativa sia perfetta.
Per quanto concerne le «super d.i.a.» presentate anteriormente al 28 agosto 2015 – data di entrata in vigore della legge n. 124/2015 – non è ovviamente immaginabile un’applicazione retroattiva del limite di diciotto mesi, ma non appare nemmeno possibile sostenere che esse siano totalmente sottratte all’applicazione delle nuove disposizioni.
La soluzione più ragionevole, dunque, è quella di ritenere che anche per queste denunce valga il termine di diciotto mesi, il quale però decorrerà non dalla presentazione della «super d.i.a.» o dalla scadenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio, ma dall’entrata in vigore della legge n. 124/2015.
Occorre puntualizzare, inoltre, che il termine di diciotto mesi indicato dal legislatore non è un termine minimo ma massimo: ciò significa che, in relazione alle circostanze del caso concreto, il termine «ragionevole» potrebbe essere anche inferiore alla soglia indicata dalla legge n. 124/2015.
Ai sensi del nuovo co. 2-bis dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, il termine di diciotto mesi non trova applicazione nell’ipotesi di «super d.i.a.» accompagnata da false rappresentazioni dei fatti o da dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato.
In questa ipotesi particolare, dunque, la P.A. non deve rispettare alcun termine massimo, ma dovrà farsi riferimento al parametro elastico della «ragionevolezza», da valutarsi caso per caso.
Questo accade, tuttavia, soltanto nel caso di «falsità» della rappresentazione dei fatti o delle dichiarazioni sostitutive di certificazione o dell’atto di notorietà che accompagnano la «super d.i.a.», e non in caso di dichiarazioni o di rappresentazioni che siano frutto di un mero errore.
In secondo luogo, la falsità deve essere conseguenza di una condotta costituente reato che sia stata accertata con sentenza definitiva, ossia con un provvedimento giurisdizionale non più impugnabile con i mezzi di impugnazione ordinari che accerti definitivamente la sussistenza della falsità e della rilevanza penale del fatto.
Non è, dunque, sufficiente né la mera contestazione di reato, né la pendenza di un processo penale, né un provvedimento che applica una misura cautelare prevista dal codice di procedura penale.
Non è ben chiaro se rileveranno solo i reati di falso oppure anche i casi in cui il falso è elemento costitutivo di una fattispecie più complessa in cui viene assorbito, come il reato di indebita percezione di erogazione a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.) o di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), in cui prevale l’elemento dell’induzione in errore della P.A., rispetto al quale il falso si pone in rapporto di strumentalità; anche a voler accogliere l’interpretazione più ampia, resterebbero comunque esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 21, co. 2-bis, della legge n. 241/1990 i fenomeni corruttivi e, più in generale, tutte le fattispecie in cui il provvedimento amministrativo illegittimo è frutto di una condotta illecita di cui sono stati partecipi i pubblici funzionari in cui non si discuta di un’eventuale falsità degli atti.
È stato osservato, inoltre, che potrebbe verificarsi il caso in cui l’autore del reato non sia il beneficiario del provvedimento oggetto del procedimento di annullamento d’ufficio, il quale subirebbe così il prolungamento del termine per l’esercizio del potere di autotutela senza aver contribuito sul piano oggettivo e soggettivo alla consumazione della fattispecie di reato da cui deriva la falsità della dichiarazione.
In questo caso, è da credere che la P.A. possa tener conto della peculiare posizione del destinatario del provvedimento di autotutela nell’esercizio della propria discrezionalità e, nello specifico, in sede di bilanciamento dell’interesse pubblico con quello dei privati interessati, posto che l’accertamento del reato non consente di prescindere dagli altri presupposti indicati dal primo comma dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
È incerto, peraltro, se la sentenza debba necessariamente provenire dal giudice penale o possa anche essere un provvedimento del giudice civile o amministrativo che contenga, anche solo incidentalmente, l’accertamento dell’esistenza degli elementi costitutivi di un fatto previsto dalla legge come reato.
La soluzione più condivisibile sembrerebbe essere la seconda, poiché il comma 2-bis dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 non contiene alcuna limitazione e non specifica che la sentenza debba essere «penale».
Per quanto riguarda, inoltre, le sentenze del giudice penale, si deve osservare che la norma che si sta esaminando non richiede espressamente che la sentenza debba essere «di condanna», per cui si pone il problema di quelle sentenze che, pur essendo di proscioglimento, potrebbero contenere nella motivazione un accertamento della sussistenza degli estremi di una condotta di reato.
Ad esempio, l’imputato potrebbe essere prosciolto per l’assenza ab origine o il venir meno di una condizione di procedibilità (art. 529 c.p.p.), come nei (per vero rari) casi in cui il reato di falso è punibile a querela della persona offesa e questa non sia stata presentata.
Altri esempi potrebbero essere quelli delle pronunce che dichiarano il proscioglimento per l’estinzione del reato per amnistia, prescrizione, morte dell’autore, ecc. (art. 531 c.p.p.) o per esito positivo della messa in prova (art. 168-bis c.p. e artt. 464-bis e ss. c.p.p.) oppure la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).
Ulteriore problema, poi, si pone per le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. «patteggiamento») ai sensi degli artt. 444 ss. c.p.p., non essendo chiaro se debba darsi maggiore importanza all’equiparazione delle stesse alle sentenze di condanna (artt. 445, co. 1-bis, c.p.p.) o piuttosto al principio per cui tali pronunce contengono un accertamento di responsabilità soltanto incompleto.
Ciò che si deve escludere, tuttavia, è che la P.A., una volta scaduto il termine di diciotto mesi, possa apprezzare autonomamente l’esistenza degli elementi costitutivi di un fatto previsto dalla legge come reato che sia la causa della falsità della dichiarazione sostitutiva prodotta a corredo della «super d.i.a.» o della rappresentazione dei fatti contenuta nella «super d.i.a.» o nella documentazione allegata.
Del pari, si deve escludere – come si è anticipato – che il comma in esame crei un automatismo tra accertamento della falsità delle dichiarazioni e annullamento d’ufficio, poiché...