Decisione sull'esito della prova

La decisione sull’esito della prova


Alla conclusione del periodo di prova sono possibili dunque due esiti: o si considera superata la prova ed il reato è dichiarato estinto; o non si considera superata la prova e trovano applicazione gli artt. 32 e 33 del d.P.R 448/1988, relativi alle forme dell’udienza preliminare o dibattimentale, a seconda della fase di concessione del periodo di sospensione.

La valutazione conclusiva verte sull’esame della personalità del minorenne dopo la prova. Evidentemente il concetto di personalità è, a questi fini, assunto in senso non statico ma dinamico, e cioè con riferimento alla possibilità che nel soggetto si siano prodotti dei cambiamenti. Si esamina, quindi, un percorso, da un punto iniziale ad un punto di arrivo. Nell’effettuare queste valutazioni il collegio si basa innanzitutto sull’osservanza del progetto da parte del ragazzo, ma sebbene ciò costituisca l’unico dato oggettivo su cui fondare il giudizio, non è l’unico elemento da prendere in considerazione.

L’art. 29 d.P.R 448/1988 afferma che il giudice deve tenere conto «del comportamento del minorenne» e «dell’evoluzione della sua personalità». Il dettato normativo risulta essere anche in questo caso un po’ lacunoso, e ciò ha dato adito alla presenza di due diversi orientamenti dottrinari, in ordine alla valutazione sull’esito della prova.

Da un lato, infatti, c’è chi ritiene sufficiente la pedissequa osservanza delle prescrizioni, adducendo ragioni di garanzia e l’esigenza di limitare l’eccessivo potere discrezionale del giudice; dall’altro, c’è chi considera fondamentale la partecipazione attiva del minore al progetto, da cui si evinca la sua rieducazione .

A ben vedere, per quanto riguarda l’analisi del comportamento del minorenne, sicuramente è un dato indicativo della buona riuscita della prova il fatto che il minore, nel corso della stessa, abbia dimostrato costanza ed impegno nel partecipare ai programmi educativi, alle attività ed ai percorsi lavorativi predisposti dai servizi minorili. Nessuno pretende che il minore assuma su di sé incombenze specifiche o si obblighi a raggiungere risultati predeterminati; in genere si richiede soltanto che egli accetti di adeguarsi al programma rieducativo senza incorrere in quelle gravi e ripetute trasgressioni che, a norma dell’art. 27 d.lgs 272/1989, possono causare la revoca della misura.

Con il menzionare poi, quale ulteriore elemento indicativo della buona riuscita della prova, l’evoluzione della personalità del minore, sembra che il legislatore abbia ancora una volta voluto ribadire che il fine primo dell’istituto è proprio quello di favorire una progressiva e graduale crescita e maturazione dei ragazzi, ed in particolare di quelli che, a causa dell’inadeguatezza dell’ambiente sociale e familiare in cui vivono, presentano una destrutturazione generale di base.

Ciò significa, quindi, che al termine del periodo di prova il giudice deve poter valutare che si è verificato un cambiamento nella vita del minore, che ha imparato ad accettare se stesso, a costruire un corretto rapporto critico con gli altri, a convivere ed a confrontarsi con loro .

Problematica è la situazione in cui, pur avendo il giovane tenuto fede agli impegni assunti, così da far escludere una sua qualche avversione al programma rieducativo, tuttavia non sia stato in grado di cambiare realmente la propria condotta di vita, di maturare e di responsabilizzarsi.

In questi casi le opinioni sono divergenti e la valutazione circa l’esito della prova dipende molto dalla sensibilità del giudice e degli operatori che affrontano il caso concreto. Alcuni, infatti, affermano che si possa prorogare la prova, per garantire, ai soggetti più deboli e bisognosi di tempi più lunghi di adattamento, una ulteriore possibilità.
Altri, invece, escludono tale opportunità motivando la scelta sulla base dell’assenza di alcuna previsione legislativa sul tema ed esistendo, al contrario, una norma che espressamente dispone i termini di durata massima della prova a seconda del tipo di reato commesso .

La Corte di Cassazione si è pronunciata in senso favorevole alla proseguibilità della prova, l’unico limite che ha posto riguarda l’invalcabilità del tempo massimo previsto per ciascun provvedimento in relazione alla tipologia del reato commesso .


L’esito positivo della prova


La valutazione positiva circa l’evoluzione della personalità del minore all’esito della prova comporta l’emanazione di una sentenza che dichiara estinto il reato.
Si tratta di una sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p, se pronunciata nell’udienza preliminare, o di non doversi procedere ex art. 531 c.p.p, se pronunciata in seguito a dibattimento. Tale sentenza, proprio per confermare la natura destigmatizzante della misura, ai sensi degli artt. 686 c.p.p e 14 d.P.R. 448/1988, non è iscrivibile nel casellario giudiziale .

Quale causa estintiva del reato, quindi, la buona riuscita della prova comporta il venir meno della cosiddetta «punibilità in astratto», cioè della potestà statuale di utilizzare le sanzioni penali previste per il reato (o talune di esse), rinunciando lo Stato, prima della emanazione della sentenza definitiva di condanna, ad infliggere la punizione minacciata dalla norma .


L’esito negativo della prova


Nel caso in cui, invece, il giudice ritenga che la prova abbia avuto un esito negativo, questi procederà a norma degli artt. 32 e 33 d.P.R. 448/1988, ovvero fisserà l’udienza preliminare o dibattimentale, avendo acquisito tra l’altro, attraverso il periodo di prova, ulteriori elementi di giudizio sulla personalità del minore, utili al fine di prendere nei suoi confronti la decisione più congrua.

Gli indici rivelatori negativi possono essere vari: la trasgressione degli impegni assunti, la commissione di ulteriori gravi reati, la mancanza di collaborazione con i servizi sociali, il disinteresse o l’intolleranza nei confronti del contenuto della prova.
Ciò in genere si evince proprio dalla relazione conclusiva che viene effettuata dai servizi dell’amministrazione della giustizia che hanno seguito il ragazzo durante tutto il suo percorso.

Il procedimento dunque, in questi casi, viene ripreso proprio dal punto in cui era stato sospeso, e la sentenza viene pronunciata dagli stessi giudici che pronunciarono l’ordinanza di sospensione.
Alcuni Autori sostengono, a questo proposito, che il giudice, durante la prosecuzione del processo, non possa procedere al proscioglimento nel merito dell’imputato, in quanto considerano come presupposto fondante la concessione della messa alla prova, l’accertamento della responsabilità penale del minore; e allo stesso modo, negano che il giovane possa ottenere una sentenza di proscioglimento ex art. 98 c.p ., per incapacità di intendere e di volere, giacché anche l’esistenza di tale requisito viene considerata quale elemento imprescindibile affinché si possa applicare l’istituto della messa alla prova. Dunque, secondo tale orientamento, le scelte processuali che il giudice potrebbe effettuare in presenza di una messa alla prova fallita si ridurrebbero: al rinvio a giudizio o alla condanna a sanzione sostitutiva, per quanto riguarda il giudice dell’udienza preliminare, e alla sola condanna, per quanto riguarda il giudice del dibattimento.

Altri Autori però, non condividono tali posizioni, ed ammettono al contrario, l’eventualità che, ripresa l’udienza preliminare o dibattimentale ai sensi dell’art. 29 d.P.R 448/1988, il quadro probatorio possa arricchirsi di ulteriori e determinanti elementi di valutazione, così da consentire al giudice di emettere anche una sentenza di proscioglimento.

Discussa è poi la possibilità di concedere il perdono giudiziale in caso di esito negativo della messa alla prova. In questo caso, parte della dottrina , ritiene ammissibile l’utilizzo di tale strumento processuale, in quanto afferma che l’incapacità del ragazzo di adeguarsi al progetto di intervento formulato dai servizi non esclude a priori la possibilità giudiziale di formulare un giudizio prognostico positivo circa la sua futura buona condotta. Pertanto, nel caso in cui al termine della prova, dovessero sussistere i presupposti di legge previsti per la concessione del perdono giudiziale (assenza di precedenti penali, esiguità della pena in concreto applicabile e, soprattutto, possibilità di formulare un giudizio di futura buona condotta), tale beneficio non potrebbe che essere applicato. Dall’analisi delle statistiche (tabella 1.1) possiamo notare come nell’80,5% dei casi si giunga ad un esito positivo della prova con la conseguente estinzione del reato, mentre si giunge alla condanna nell’8,5% dei casi, al proscioglimento nello 1,0%. Si tratta di una percentuale di successi piuttosto elevata che testimonia, quindi, la positività di tale strumento nell’ambito dell’azione di recupero e di reinserimento del minore, attraverso un aiuto concreto da parte degli organi della giustizia per il raggiungimento di tale fine.


Tabella 1.1 – Casi di messa alla prova ex art. 28 D.P.R.
(omissis.....)

Per concludere è importante fare una ulteriore valutazione circa i rischi cui si può incorrere nella esecuzione e valutazione della prova.

Il primo ed il più serio è quello individuabile nella disuguaglianza di fruizione.

Può darsi infatti, che la misura diventi più fruibile (o fruibile soltanto) da parte di ragazzi già inseriti in relazioni sociali significative, mentre quelli più socialmente deprivati ne possono beneficiare in misura inferiore o minima. Così come è possibile che essa sia richiesta da chi vuole evitare la decisione, e sia invece rifiutata da chi non ha niente da perdere. Le variabili connesse al ceto sociale quindi, possono influenzare la godibilità della misura. Si tratta di un rischio serio ed oggettivo, che dovrebbe però comportare l’eliminazione, non della misura, ma delle disuguaglianze sociali.
L’altro rischio è poi quello della disuguaglianza del beneficio.

L’esito positivo della prova infatti, è condizionato non solo dal ragazzo, ma anche e soprattutto dalla capacità di mobilitazione delle risorse intorno a lui.

Ciò può dipendere da molte variabili, le più importanti delle quali sono: la disponibilità e la capacità della famiglia; la disponibilità e capacità di risorse istituzionali e di volontariato; l’esistenza e funzionalità dei servizi locali; la professionalità degli operatori. Purtroppo, la presenza e l’operatività dei servizi non è uguale in tutto il territorio nazionale, avendo il progetto politico sottostante al d.P.R n. 616/1977 trovato numerosi ostacoli di carattere generale (vedi mancanza di interesse per l’approvazione di una legge quadro di riordino dell’assistenza) e locale (scarsa attenzione alle esigenze dei servizi sociali, scarsità di mezzi economici, utilizzati con preferenza per investimenti diversi dalla prevenzione e dai servizi).

D’altra parte però non si può nemmeno pretendere che le norme processuali penali possano risolvere da sole questo tipo di problematiche: da esse possiamo solo esigere che offrano opportunità rispettando le garanzie, e non che evitino gli squilibri sociali .

La prassi applicativa ha dimostrato fondati questi timori, considerato che, dalle statistiche del 2009, emerge che la messa alla prova è stata applicata per l’83,2% nei confronti di ragazzi italiani, e per il 16,8% nei confronti di ragazzi stranieri.
Questo divario è la conseguenza delle notevoli difficoltà che i servizi incontrano nel formulare un progetto per un ragazzo straniero, che nella stragrande maggioranza dei casi è presente irregolarmente nel territorio italiano e non ha risorse familiari o ambientali a cui fare riferimento.

Le interpretazioni del dato ci spingono dunque, ad ipotizzare che nell’intervento di messa alla prova la variabile di essere straniero rileva in senso negativo.

A causa della condizione stessa di migrante, della carenza di riferimenti all’esterno e di un tessuto sociale conosciuto, e quindi a causa dei legami deboli e precari con il territorio, un ragazzo straniero è posto, a parità di condotta, in una posizione di svantaggio rispetto ad un ipotetico imputato italiano .

Le ragioni della minore applicazione dell’istituto della messa alla prova nei confronti degli stranieri sono molteplici e devono essere differenziate, distinguendo in particolare fra i ragazzi rom e quelli extracomunitari.

Per quanto riguarda i primi, se hanno una stabile dimora, la messa alla prova potrebbe anche essere attuata: infatti, i servizi sociali conoscono le famiglie che stanno nei campi rom del territorio e quindi sono in grado di elaborare un progetto che tenga presente la situazione individuale del ragazzo e i rapporti interpersonali tenuti da quest’ultimo. Tuttavia, una prima difficoltà nell'attuazione della misura è costituita dal fatto che le famiglie rom spesso si oppongono a qualsiasi intervento, anche assistenziale, che in qualche modo venga a controllare le loro attività: il consenso e la collaborazione dei parenti sono invece presupposti essenziali per garantire il successo della misura. Inoltre non esistono strutture e servizi in grado di garantire ai ragazzi rom lo svolgimento di attività che permettano loro di guadagnare. Nella stragrande maggioranza dei casi i minori nomadi vivono in condizioni di vera e propria miseria, per cui qualsiasi esperienza rieducativa deve essere attuata permettendo loro di guadagnare; invece, per ora, difficilmente si trovano strutture che offrano ai ragazzi questa opportunità.

L'unico tipo di prescrizioni che potrebbero essere contenute nel progetto di messa alla prova sono quelle della permanenza al campo o dell'astensione da certi comportamenti, ma in tal modo la messa alla prova diventerebbe una sorta di misura cautelare e perderebbe la sua valenza educativa.

Nei confronti dei minori extracomunitari, poi, l'applicazione della misura è ancora più difficile. I ragazzi extracomunitari che entrano nel circuito penale, infatti sono prevalentemente irregolari, e quindi non avendo alcun documento essi non possono essere identificati e pertanto risulta assai difficile accertare la loro età. Inoltre essi, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno una famiglia, dormono alla stazione, nei giardini pubblici, oppure sono ospitati da altre persone che provengono dal loro paese d'origine e che sfruttano le loro attività illecite, rappresentate soprattutto dallo spaccio di droga.

L'impossibilità di individuare il nucleo familiare di appartenenza ostacola la redazione, da parte dei servizi minorili, del rapporto sulla situazione familiare del ragazzo imputato, la quale, invece, è un presupposto essenziale per creare un progetto di messa alla prova che sia adeguato rispetto alla personalità del minore deviante. Anche nei rari casi in cui la famiglia è identificabile, difficilmente si può contare su di essa per la riuscita della prova del ragazzo, in quanto, spesso, proprio l'ambiente in cui è cresciuto lo ha avviato alla delinquenza .

In questo quadro purtroppo desolante, una nota positiva si può comunque delineare, analizzando infatti, i dati del 1998, emerge un divario ancora più grande rispetto a quello odierno, con una concessione a ragazzi italiani del 96% dei casi ed a ragazzi stranieri solo nel 4% dei casi. Ciò denota dunque un impegno da parte delle istituzioni per modificare questa tendenza, anche se ancora la strada da percorrere è molto lunga, soprattutto nel sud Italia e nelle isole, dove tale divario risulta essere più consistente.
 

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