Il reato di «abusivismo edilizio»

Inquadramento e profili normativi dell'abuso edilizio


«Un intervento edilizio iniziato senza le prescritte autorizzazioni amministrative è un abuso edilizio ed è sanzionabile anche penalmente. In alcuni casi, il problema non è solo quello di individuare quale tipo di autorizzazione richiedere, ma anche comprendere se è necessaria un’autorizzazione» [1].

Le poche parole della Suprema Corte sono sufficienti per cogliere sin da subito la complessità della materia dell’abusivismo edilizio, dovuta tanto alla sua accentuata transdisciplinarietà, ponendosi al confine tra il diritto penale, amministrativo e civile, tanto alle continue modifiche normative.

Il quadro si complica ulteriormente se si considera che il significato della locuzione in esame non è rinvenibile normativamente: alcuna definizione viene fornita dal legislatore. Essa viene piuttosto utilizzata per indicare una pluralità eterogenea di tipologie di illeciti diversi tra loro.

In generale, con l’espressione “abuso edilizio” si intende l’intervento edilizio eseguito in assenza del titolo richiesto, in totale difformità o con variazioni essenziali. Si fa riferimento, quindi, alla variazione della struttura o della volumetria di un immobile non approvata dagli uffici competenti o non sanata successivamente.

La linea di demarcazione tra opera legittimamente realizzata ed opera abusiva è estremamente labile, ma gravida di conseguenze giuridiche e giurisdizionali.

In linea generale, la tendenza del legislatore è stata quella di “deprovvedimentalizzare” il settore dell’edilizia privata, in risposta alle esigenze di semplificazione dettate dalla L. 241/90 ed in vista del perfetto coordinamento tra la nuova e la vecchia normativa. Tuttavia, il risultato è stato quello opposto di moltiplicazione delle norme e degli adempimenti, col conseguente proliferare di dubbi interpretativi e interventi giurisprudenziali [2].

Prima di procedere all’analisi della disciplina vigente, pare opportuno un breve excursus delle tappe normative fondamentali che hanno interessato la materia.

La prima disposizione legislativa contenente riferimenti alla materia urbanistica risale alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo, anche se l’esigenza di far precedere l’attività edificatoria da un provvedimento amministrativo venne prevista già nel 1935 con il R.D.L. n. 640 del 25 marzo.

Ma il vero punto di partenza della legislazione urbanistica in Italia è la L. 17 agosto 1942 n. 1150 che ha sostituito l’autorizzazione preventiva con la licenza edilizia e ha introdotto, all’art. 32, il primo sistema repressivo degli abusi, imperniato sull’ordine di demolizione inteso come atto discrezionale del Sindaco, cui veniva riconosciuta la potestà discrezionale di ordinare la demolizione dell’opera iniziata senza licenza, oppure di far proseguire nonostante l’ordine di sospensione dei lavori.

A tale disciplina è subentrato il sistema sanzionatorio previsto dall’art. 13 della L. 765/1967 (c.d. legge ponte), che, modificando l’art. 41 della L. 1150/1942, ha esteso la preventiva licenza edilizia all’intero territorio comunale [3], per chiunque intendesse «eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero procedere alla esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno». La legge in parola ha inoltre introdotto, in caso di impossibilità di procedere alla restituzione o alla demolizione delle opere eseguite senza licenza o in contrasto con questa, [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Successivamente, con l’entrata in vigore della L. 10/1977, c.d. legge Bucalossi, è stata ulteriormente rafforzata la salvaguardia del regolare assetto del territorio, estendendo l’obbligo di concessione edilizia (da ora sostitutiva della licenza) alla maggior parte degli interventi.

Inoltre, con l’art. 15, modificativo dell’art. 21 L. 1159/1942, è stata introdotta una terza sanzione, consistente nell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e dell’area di sedime in caso di inottemperanza all’ordine di demolire [4].

Lo stesso articolo ha inoltre significativamente sostituito alla potestà discrezionale del Sindaco, l’obbligatorietà della sanzione demolitoria in relazione ai manufatti realizzati in mancanza della concessione edilizia, o anche solo in sua difformità [5].

Il sistema vigente di tutela del territorio è racchiuso nel D.P.R. 380/2001, c.d. T.U dell’edilizia.

In generale, va evidenziato che il T.U., ai sensi dell’art. 1, "contiene i principi fondamentali e generali e detta le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia", stabilendo al successivo art. 2 la competenza dello Stato e degli enti locali in una materia riqualificata dalla riforma del titolo V Cost..

Esso recepisce i principi della filosofia bassaniniana, ed è improntato quindi alla semplificazione dell’attività amministrativa.

Il Testo Unico si incentra su nuove ipotesi di abuso, sulla conferma della precedente tripartizione degli illeciti in abusi edilizi (artt. 31 e ss.), abusi urbanistici (art. 30) e abusi ambientali (art.31, comma 6, art. 33, commi 3 e 4, e art. 37, commi 2 e 3, nonché le disposizioni del D.Lgs. 42/2004), sul dovere di intervento repressivo mediante ordine di demolizione, confisca del terreno e sanzioni pecuniarie articolate in diverse tipologie.

Le nuova normativa modifica radicalmente l’individuazione e la qualificazione delle opere a basso impatto urbanistico (art. 6), e ridefinisce i titoli abilitativi, distinguendo tra permesso di costruire, e d.i.a. (oggi s.c.i.a.). con carattere generale e residuale. Espunge quindi definitivamente dall’ordinamento la figura dell’autorizzazione all’esecuzione dei lavori, introducendo piuttosto titoli abilitativi taciti.

Il sistema che ne risulta è notevolmente semplificato.

L’art. 3 T.U. riconduce i vari tipi di intervento edilizio alle seguenti categorie:
  • manutenzione ordinaria e straordinaria;

  • restauro e risanamento conservativo;

  • ristrutturazione edilizia;

  • nuova costruzione,

  • ristrutturazione urbanistica.


Per tutte le altre attività, l’art. 6 co.1 T.U. sancisce il principio dell’attività edilizia libera, nell’ottica di una sempre maggiore liberalizzazione degli interventi edilizi, ma fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e della normativa di settore.

L’art. 10 T.U, invece, elenca le opere soggette a permesso di costruire, ovvero quelle di:
  • nuova costruzione;

  • ristrutturazione urbanistica;

  • ristrutturazione edilizia che porti ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comporti un aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti, o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comporti mutamenti della destinazione d’uso.


Le opere che rientrano nelle altre categorie sono, invece, soggette a SCIA, ma di questo si dirà meglio infra.

Quanto al sistema sanzionatorio degli abusi urbanistico-edilizi, esso risulta attualmente disciplinato dall’art. 44 T.U., oltre che dalla normativa antisismica e da quella relativa alle costruzioni in conglomerato cementizio armato e a struttura metallica, ovvero dalla c.d. normativa tecnica per l’edilizia, contenuta anch’essa nel medesimo T.U.

Nello specifico, l’art. 44 T.U. prevede tre ipotesi criminose cui sono ricollegate sanzioni penali di diversa entità, salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme restando le sanzioni amministrative.

In particolare esso prevede:
  • l'ammenda fino a 10.329 euro per l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire;

  • l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 5.164 a 51.645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l'ordine di sospensione;

  • l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 15.493 a 51.645 euro nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dal primo comma dell'articolo 30. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso.


Quanto ai rapporti tra le tre ipotesi summenzionate, si può anticipare brevemente che, dalla natura autonoma delle stesse, risulta applicabile la disciplina del concorso materiale, ad esempio nel caso di intervento effettuato senza permesso di costruire e proseguito nonostante l’ordine di sospensione dei lavori.

Al contrario, è da escludersi il concorso formale tra l’ipotesi sub a) e sub b), essendo il primo reato, più grave, assorbente il secondo.

Quanto all’ipotesi sub c), è ormai pacifico l’orientamento giurisprudenziale che ritiene tale fattispecie un’autonoma ipotesi di reato e non circostanza aggravante delle precedenti [6].

D’altronde, essa si riferisce [Omissis - versione integrale presente nel testo].


Interventi edilizi completamente liberi


L’art. 6 T.U. individua le categorie di interventi edilizi eseguibili senza alcun assenso pubblicistico, derivando la facoltà edificatoria direttamente dal diritto di proprietà [7].

Esso dispone che, "fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, i seguenti interventi sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo:
  • gli interventi di manutenzione ordinaria;

  • gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;

  • le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, che abbiano carattere geognostico e che siano eseguite in aree esterne al centro edificato;

  • i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio di attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;

  • le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività agricola".


Quanto alla prima categoria di interventi, ovvero quelli di manutenzione ordinaria, già l’art. 9, lett. c), L. 10/1977 escludeva espressamente l’obbligo della concessione edilizia per gli stessi.

L’art. 3 co.1 lett. a) T.U., richiamando il dettato dell’art. 31 L. 457/1978, li qualifica come quegli interventi che "riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti".

Si tratta, in sostanza, di tutti quegli interventi destinati alla mera conservazione del buono stato dell’immobile, in modo tale che venga mantenuto idoneo all’uso cui è deputato, ma senza apportarvi modifiche incidenti sulla destinazione urbanistica e sulle strutture portanti e divisorie.

In tale categoria rientra, quindi, ogni attività necessaria o utile per eliminare il deperimento d’uso delle finiture [8], pur senza incidere sulle parti murarie in senso proprio e, dunque, ogni intervento che non abbia ad oggetto porzioni o elementi strutturali di un edificio e che non comporti l’aumento delle unità immobiliari [9].

Non possono pertanto inquadrarsi nel concetto di manutenzione ordinaria tutti quegli interventi che, anche se preordinati ad integrare o mantenere in efficienza impianti tecnologici esistenti, si risolvono nella creazione di nuovi e consistenti manufatti [10].

Vi rientrano, ad esempio, gli interventi per:
  • intonaci, pitturazione e rivestimenti interni, nonché sostituzione di serramenti, infissi, serrande, finestre e abbaini [11];

  • sostituzione e riparazione di porte, eliminazione dei rivestimenti murali e pitturazione delle pareti, sostituzione degli elementi terminali (prese elettriche e di fonia/dati) degli impianti tecnologici [12];

  • riparazione di opere fognanti private;

  • rifacimento dei pavimenti;

  • sostituzione e adeguamento di impianti idrici, elettrici, di riscaldamento, che non comportino alterazione dei locali;

  • sostituzione di serramenti;

  • installazione di sanitari;

  • installazione di un nuovo cancello rispetto al precedente arrugginito;

  • installazione di cassa continua all’esterno di un istituto bancario;

  • sostituzione di una pensilina per la copertura dell’accesso ad una cantina [13];

  • installazione di un videocitofono;

  • sostituzione di una caldaia;

  • sostituzione di una palizzata disposta a protezione dei gradini di una discesa a mare con altra palizzata di legno, sia pure a disegno diverso;

  • riparazione delle controsoffittature;

  • riconfigurazione della stazione radio base per la telefonia cellulare [14];

  • sostituzione del manto di copertura del tetto che non comporti alterazione dell’aspetto o delle caratteristiche originarie [15].

  • Per quanto riguarda, invece, l’edilizia industriale, la circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 1918 del 16 novembre 1977 ha stabilito che, in generale e con riferimento agli impianti industriali, possono considerarsi opere di ordinaria manutenzione gli interventi intesi ad assicurare la funzionalità dell’impianto ed il suo adeguamento tecnologico; che, in rapporto alle dimensioni dello stabilimento, non ne modifichino le caratteristiche complessive; siano interne al suo perimetro; non incidano sulle sue strutture e sul suo aspetto.


Queste opere non devono, però: compromettere aspetti ambientali e paesaggistici; comportare aumenti di densità; determinare implicazioni sul territorio in termini di traffico; richiedere nuove opere di urbanizzazione e, più in generale, di infrastrutturazione; determinare alcun pregiudizio di natura igienica ovvero effetti inquinanti; essere, comunque, in contrasto con specifiche norme di regolamento edilizio o di attuazione dei piani regolatori [16].

Quanto alla seconda categoria di interventi di cui alla lett. b) art. 6 T.U., si fa riferimento a quelli volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio e, quindi, che non incidono sul carico urbanistico.

Per sagoma dell’edificio deve intendersi la conformazione planovolumetrica della costruzione e il suo perimetro inteso in senso sia verticale sia orizzontale. Per cui, essa comprende [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Ne consegue che non richiedono titoli abilitativi gli interventi volti all’ampliamento di una porta; la realizzazione di rampe e ascensori interni; la creazione di servizi igienico-sanitari idonei per gli inabili fisici e l’eliminazione dei dislivelli dei pavimenti [18].

Quanto alla lett. c) dell’art. 6 T.U., per ricerca geognostica nel sottosuolo si intendono gli interventi temporanei dovuti ad esigenze contingenti, destinati alla raccolta di elementi conoscitivi circa la consistenza e le caratteristiche fisico-compositive del suolo, indipendentemente dalla finalità scientifica o privata delle stesse.

Per quanto riguarda, invece, la nozione di centro edificato, essa è mutuabile dall’art. 18 co. 2 L. 865/1971, relativa all’indennità di espropriazione, ove esso è definito come quello delimitato per ciascun centro o nucleo abitato dal perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità e i lotti interclusi, con l’esclusione degli insediamenti sparsi e delle aree esterne seppur interessate dal processo di urbanizzazione.

La lett. d) dell’art. 6 T.U. si riferisce, invece, ai movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari. Coi primi si intendono le sole opere che non comportino un’edificazione, dovendosi escludere quindi gli scavi e i reinterri finalizzati alla realizzazione anche di un semplice muro di contenimento.

Gli impianti idraulici agrari sono costituiti, invece, da tutte le opere relative alla rete di captazione, di irregimentazione e di distribuzione dell’acqua per le esigenze agro-silvo-pastorali.

Da ultimo, la norma in commento liberalizza le serre mobili stagionali, prive di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività agricola, purché non dotate di strutture fisse che alterino in modo duraturo l’assetto del territorio [19].

Per completezza, occorre accennare al dettato dell’art. 17 D.Lgs 128/2006, che qualificava come attività completamente libera anche quella di installazione dei depositi di gas dei petroli liquefatti di capacità complessiva non eccedente i 13 mc..

A seguito della modifiche apportate all’art. 6 T.U. dall’art. 5 D.L. 40/2010, è dubbio se tale attività possa ancora essere realizzata senza alcuna comunicazione preventiva. Tuttavia, la questione può essere ragionevolmente risolta positivamente in ragione della ratio del decreto succitato, ovvero quella di aggiungere una nuova ipotesi di attività edilizia libera.

È bene sottolineare, per concludere, che tutte le attività summenzionate e liberalizzate devono essere effettuate sempre e comunque nel rispetto delle specifiche prescrizioni delle normative di settore.

Sul punto la Cassazione ha infatti specificato che le previsioni di cui all’art. 6 T.U. non sono comunque applicabili agli interventi che, nonostante rientrino nelle categorie ivi previste, si pongono in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici [20].


Interventi soggetti a S.C.I.A.


L’art. 22 del T.U. individua gli interventi edilizi realizzabili mediante un titolo abilitativo tacito denominato oggi segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.).

Essa opera, in via residuale, in relazione alle categorie di interventi non espressamente sottoposte al permesso di costruire, di cui all’art. 10 T.U., e a quelle non appartenenti all’attività edilizia libera, di cui all’art. 6 T.U., e nel rispetto, comunque, delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e, in generale, della disciplina urbanistico-edilizia vigente.

L’istituto in esame, disciplinato dall’art. 19 L. 241/90, è stato oggetto di plurimi interventi di riforma, tra i quali, da ultimo, quello operato dall’art. 49, co. 4-bis, L. 122/2010 (di conversione del D.L. 79/2010). Esso ha provveduto alla riscrittura della norma in questione, sostituendo completamente la disciplina della dichiarazione di inizio attività.

La segnalazione certificata di inizio attività rappresenta, in attuazione della fondamentale esigenza di semplificazione dell’attività edilizia, una delle maggiori manifestazioni della tendenza alla liberalizzazione delle attività private, consentendone l’esercizio senza che sia richiesto un vaglio preventivo della pubblica amministrazione.

Difatti, l’art. 19 L. 241/90 dispone che il privato possa intraprendere l’esercizio di alcune attività immediatamente e sulla base di un atto da egli stesso formulato e presentato all’amministrazione competente, senza che debba attendersi un pronunciamento costitutivo da parte di quest’ultima.

Ad essa, infatti, resta preclusa la possibilità di assentire preventivamente all’esercizio dell’attività intrapresa, residuandole soltanto la possibilità di esercitare, entro un termine perentorio, un potere inibitorio dell’attività già in atto.

L’intervento legislativo di riscrittura dell’art. 19 L. 241/90 ha implicato:
  • la ridefinizione dell’ambito applicativo dello stesso;

  • la puntualizzazione del contenuto della comunicazione del privato;

  • la generalizzazione della possibilità di avvio immediato dell’attività (in continuità con la c.d. d.i.a. immediata introdotta già dalla L. 69/2009);

  • la delimitazione del potere di intervento dell’amministrazione successivamente alla scadenza del termine;

  • la previsione di uno specifico regime sanzionatorio per la certificazione mendace dei requisiti e dei presupposti per l’avvio dell’attività.


È utile sottolineare che il succitato art. 49 L. 122/2010, oltre ad aver riformulato radicalmente l’art. 19 L. 241/90, ha anche espressamente disposto che le espressioni segnalazione certificata di inizio attività e s.c.i.a. sostituiscono rispettivamente quelle di dichiarazione di inizio attività e d.i.a., ovunque ricorrano.

In un primo momento, ciò ha comportato dei problemi di coordinamento tra l’art. 19 L. 241/90 e la d.i.a. in materia edilizia, disciplinata dagli artt. 22 e 23 T.U.

Dapprima, infatti, si è ritenuto che la disciplina edilizia, poiché speciale, prevalesse su quella generale.

Successivamente, il D.L. 70/2011, all’art. 5, ha espressamente disposto che le disposizioni di cui al citato art. 19 L. 241/90 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunzie di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal T.U., "con esclusione dei soli casi di cui le denunce stesse, in base a normativa statale o regionale, siano [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Dunque, ne restano esclusi sia gli interventi soggetti permesso di costruire, sia quelli sottoposti alla c.d. d.i.a. alternativa, per i quali continuano a trovare applicazione le disposizioni speciali del T.U. Edilizia.

Quanto alla disciplina specifica in materia edilizia, l’art. 22 T.U. individua gli interventi realizzabili tramite tale titolo abilitativo tacito distinguendo tra:
  • "interventi non riconducibili all’art. 10 e all’art. 6 che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia";

  • "varianti al permesso di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire". La norma prosegue specificando che tali varianti, che costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale, "possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori". Sembra dunque consentita la possibilità di iniziare interventi in difformità dal permesso di costruire, regolarizzabili entro la fine dei lavori [21].


Con specifico riferimento alle ipotesi di variante al permesso di costruire, occorre sottolineare che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono considerarsi tali.

Esse si configurano solo quando il progetto già approvato non risulti essenzialmente e radicalmente modificato dal nuovo elaborato, come accadrebbe, ad esempio, nel caso di aumento del numero di piani dell’immobile.

Per qualificare o meno la modifica come mera variante occorre fare riferimento alle modificazioni qualitative o quantitative di non particolare consistenza, prendendo a tal fine in considerazione elementi quali la superficie, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà prossime e le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato [22].

Dovrebbe dunque riconoscersi carattere di nuovo permesso di costruire a quel provvedimento che, nonostante sia formalmente qualificato come variante, autorizzi la realizzazione di un manufatto completamente diverso dall’originario [23].

Al riguardo, la Suprema Corte ha ribadito che integra il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire la realizzazione di interventi edilizi su un preesistente manufatto, comportanti modifiche alla sagoma ed incrementi di superficie o volumetrici, non essendo gli stessi in quadrabili nella categoria delle varianti minori o leggere, soggette a mera segnalazione certificata di inizio attività [24].

La Corte ha inoltre specificato che tra i parametri urbanistici richiamati dall’art. 22 T.U. rientrano sia le distanze tra gli edifici, sia la sagoma, intesa come contorno dello stesso, ricomprendente le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti.

Ne consegue che soltanto le aperture che non comportino superfici sporgenti non rientrano nella nozione di sagoma, e restano quindi sottoposte al regime delle varianti in corso d’opera, soggette come tali a sola s.c.i.a.

Restano, invece, escluse, ad esempio, la realizzazione di una scala esterna di accesso al primo piano, di un sottotetto del primo piano, o di uno sporto al solaio del sottotetto [25].

Devono, dunque, considerarsi subordinati alla s.c.i.a. gli interventi edilizi minori tra i quali, a titolo meramente esemplificativo, si ricordano:
  • le opere di manutenzione straordinaria e opere interne modificative delle parti strutturali degli edifici [26];

  • gli interventi di restauro e risanamento conservativo;

  • opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti, consistenti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;

  • aree destinate ad attività sportive che non creino volumetria;

  • recinzioni, muri di cinta e cancellate di dimensioni limitate;

  • varianti a permessi edilizi già rilasciati non incidenti sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modifichino la destinazione d’uso, la categoria edilizia o la sagoma, e non violino le prescrizioni contenute nella concessione edilizia;

  • le occupazioni di suolo per deposito di materiale;

  • le demolizioni;

  • gli scavi e reinterri per la coltivazione di cave e torbiere [27].


La denuncia di inizio attività in materia edilizia è oggi limitata alle sole ipotesi di cui all’art 22, co. 3 T.U., ai sensi del quale possono essere realizzati mediante d.i.a. in alternativa al permesso di costruire (c.d. super d.i.a.):

  • interventi di ristrutturazione di cui all’.art 10, co.1. lett. c), T.U.;

  • interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati;

  • interventi di nuova costruzione in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.


È fatta salva, inoltre, la possibilità per le Regioni di individuare ulteriori ipotesi oppure di ridurre l’ambito di quelle già previste, fermo restando le sanzioni penali di cui all’art 44 T.U..

L’art 23 T.U., modificato dal D.L. 83/2012, dispone che la super d.i.a. deve essere presentata allo sportello unico almeno trenta giorni prima dall’effettivo inizio dei lavori, accompagnata da una dettagliata relazione che attesti la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e igienico-sanitarie (co. 1).

Occorre ancora specificare che, ai sensi dell’art. 22 co. 6 T.U., ove si debbano realizzare interventi soggetti a s.c.i.a. in relazione ad immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale, occorre che essi siano preceduti dal parere o dall’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative.

La s.c.i.a., invece, va esclusa per i lavori relativi a manufatti non sanati, né condonati, poiché gli ulteriori interventi ripeterebbero le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale sono pertinenti [28].

Quanto alla natura giuridica della s.c.i.a., essa è stata oggetto di un acceso dibattito nel quale si sono fronteggiate due tesi, emerse prima e dopo il passaggio legislativo dalla d.i.a. alla s.c.i.a.

Originariamente la d.i.a. era considerata atto amministrativo tacito destinato a formarsi in presenza dei requisiti formali e sostanziali, e per effetto del decorso del termine assegnato all’amministrazione per esercitare il potere inibitorio.

Successivamente è stata qualificata come atto formalmente e soggettivamente privato, cui la legge ricollega direttamente l’effetto di abilitare l’istante all’esercizio dell’attività.

A dirimere la questione è intervenuto il Consiglio di Stato, affermando espressamente che "la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto del privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge" [29].

Tale orientamento è stato da ultimo confermato dal legislatore col D.L. 138/2011, che è intervenuto direttamente sull’art. 19 L. 241/90, inserendovi il co. 6-ter. Ai sensi di quest’ultimo "la s.c.i.a., la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono solo sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104" [30].

L’unico rimedio esperibile dal terzo che si ritenga leso dall’attività intrapresa in forza del titolo abilitativo tacito è, dunque, solo l’azione avverso il silenzio-inadempimento di cui all’art. 31 c.p.a..

Quanto ai rapporti tra s.c.i.a. e super d.i.a., si può rilevare che questa non è un istituto ontologicamente diverso da quello disciplinato nei primi due commi dell’art. 22 T.U., differenziandosi solo in relazione agli interventi assoggettabili alternativamente alla procedura.

Molto diverso è invece il sistema sanzionatorio collegato ai due titoli in esame.

Infatti, nel caso dei co. 1 e 2 art. 22 T.U., ove la s.c.i.a. si pone come titolo abilitativo esclusivo, la sua mancanza o la difformità delle opere eseguite non comporta l’applicazione di sanzioni penali, ma solo amministrative, ai sensi dell’art. 37 co. 6 T.U.

È punibile comunque ex art. 44, co. 1 lett. a) T.U., anche se preceduta da rituale denuncia d’inizio, l’esecuzione di interventi sostanzialmente difformi dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.

Diversamente, nei casi di super d.i.a. di cui all’art. 22 co. 3 T.U., ove essa si pone come alternativa al permesso di costruire, ai sensi dell’art. 44 co. 2-bis T.U., l’assenza sia del permesso di costruire che della denuncia di inizio attività, ovvero la totale difformità delle opere eseguite rispetto alla super d.i.a. presentata, integrano il reato di cui all’art. 44, lett. b) T.U.

Non vi è comunque sanzione penale per la difformità parziale [31].

È bene soffermarsi, concludendo, sui rapporti tra s.c.i.a. e la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di cui all’art. 10-bis L. 241/90.

Occorre premettere al riguardo che, soprattutto in materia edilizia, le leggi speciali dettano sovente garanzie partecipative almeno pari a quelle offerte dal preavviso di rigetto di cui alla norma summenzionata.

E così, l’art. 23 T.U. prevede una disciplina speciale in ordine agli effetti che conseguono alla d.i.a. (s.c.i.a.), mediante la predisposizione di un procedimento apposito, nel cui ambito sono assicurate al denunciante specifiche garanzie.

Ne consegue che l’inapplicabilità dell’art. 10-bis L. 241/90 non comporta alcuno svuotamento in pregiudizio dell’istante, essendo ulteriori garanzie procedimentali assicurate dalle previsioni speciali.

Il procedimento in questione si sostanzia nella formazione di un titolo ex lege caratterizzato da strutture e funzioni proprie, che escludono l’applicabilità della garanzia partecipativa di cui all’art. 10-bis.

Si conclude, quindi, che[Omissis - versione integrale presente nel testo]