L'usucapione pubblica

L’usucapione pubblica in generale

Con l’espressione “usucapione pubblica” si intende far riferimento non ad un distinto istituto acquisitivo di matrice pubblicistica, che non esiste, ma alla ordinaria usucapione civilistica il cui beneficiario sia un soggetto pubblico, che semmai presenta alcune particolarità derivanti dalla natura pubblica dell’usucapente.

Possono usucapire tutti i soggetti in grado di possedere, di essere titolari di diritti e capaci processualmente [1], e dunque anche le persone giuridiche pubbliche, titolari di tutti i poteri privatistici propri delle persone giuridiche ad eccezione di quelli esclusi dalla legge [2].

L’usucapione avviene quando il soggetto pubblico, mediante gli organi del suo apparato amministrativo, esercita continuativamente il possesso ad usucapionem del bene per tutta la durata necessaria [3].

L’usucapione a favore di un soggetto pubblico territoriale, il Comune, può configurarsi anche quando il possesso ad usucapionem non sia esercitato direttamente dall’ente, bensì da una indifferenziata comunità di persone alla quale sia riconducibile tanto il corpus (la signoria di fatto sul bene) quanto l’animus possidendi (l’intenzione di esercitare uti cives sul bene un potere corrispondente a quello di proprietario o di titolare di un ius in re aliena) [4].

Non è sufficiente l’utilizzo esercitato soltanto dalle persone che si trovino in una posizione qualificata rispetto al bene, quali ad esempio i proprietari frontisti: l’uso deve rispondere alla necessità od alla utilità di un insieme di soggetti agenti come esponenti della collettività ed essere esercitato continuativamente per la durata prescritta dalla legge, con l’intenzione di agire uti cives e misconoscendo il diritto del proprietario, di tal che esso non possa essere attribuito a mera tolleranza di quest’ultimo [5].

Aspetti peculiari dell’usucapione pubblica consistono nella duplice esigenza che il possesso sia strumentale al soddisfacimento dell’interesse pubblico cui è preposto il soggetto usucapente, cioè non sia estraneo alla funzione di esso, e che il bene usucapendo sia idoneo a soddisfare tale pubblico interesse [6].

Riassumendo, l’usucapione pubblica presuppone: l’idoneità del bene all’uso pubblico; la rispondenza dell’uso a una utilità pubblica e non al soddisfacimento dell’interesse privato di alcuni singoli; l’esercizio della signoria sul bene, corrispondente ad un diritto reale di godimento, da parte dell’ente o di una collettività di persone agenti uti cives e non uti singuli [7]; il disconoscimento anche implicito di ogni contrario diritto del proprietario; la non riscontrabilità nel proprietario di un atteggiamento di mera tolleranza; la continuità nell’esercizio dell’uso per la durata stabilita dal codice civile ai fini dell’usucapione.

Così come nell’usucapione in generale, anche nell’usucapione pubblica non occorre provare l’esistenza di continui atti di godimento, nell’arco di tempo considerato, potendo la continuità del possesso configurarsi anche quando gli atti di esercizio siano fisiologicamente intermittenti in relazione alla destinazione del bene: occorrerà in tal caso accertare l’esistenza di una relazione tra questi atti di esercizio, in modo che si possa individuare il primo di essi dal quale far decorrere l’usucapione. Viceversa non sarà il proprietario a dover dimostrare la continuità degli atti di difesa [8].

Il caso più frequente di usucapione per utilizzo del bene da parte della collettività riguarda diritti di servitù, come ad esempio il diritto di uso pubblico di passaggio gravante su una strada privata [9]; deve in ogni caso trattarsi – giusta l’art. 1061 c.c. – di servitù apparenti [10].

La p.a. può usucapire il bene privato del quale abbia disposto la concessione in uso a terzi per oltre un ventennio, anche sussistendo l’erronea convinzione che il bene fosse già demaniale, circostanza che conferma, peraltro, la volontà di gestirlo uti domina [11].

Per quanto riguarda il titolo trascrivibile di accertamento dell’avvenuta usucapione pubblica, secondo alcune pronunce non può essere altro che la pronuncia giudiziale [12], secondo altre può essere lo stesso provvedimento acquisitivo ex art. 43 dPR 327/2001, nonostante l’efficacia costitutiva evincibile dal suo tenore letterale [13].


L’usucapione pubblica e l’occupazione illegittima di beni privati

Assai complesso, a causa del notevole grado di controverse elaborazioni giurisprudenziali implicate, è l’intreccio dell’istituto dell’usucapione con le problematiche relative alla cd. occupazione appropriativa e usurpativa, cioè alle varie forme di occupazione illegittima di suoli privati da parte della pubblica amministrazione in sede di realizzazione di opere pubbliche, nonché, dopo l’entrata in vigore dell’articolo 43 del dPR 327/2001 (testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità), con il nuovo istituto della cosiddetta acquisizione coattiva sanante.

La tradizionale costruzione pretoria dell’occupazione appropriativa, o acquisitiva, introdotta dalla sentenza Cass. SSUU n. 1464/1983 e tuttora ammessa dalla Suprema Corte di Cassazione nonostante la contrarietà della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e del Consiglio di Stato, lascia poco spazio all’operatività dell’usucapione, giacché allo scadere della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera pubblica in funzione della quale il fondo privato è stato occupato, sussistendo l’irreversibile trasformazione del bene, questo diviene automaticamente di proprietà dell’ente occupante (configurando così un caso di accessione invertita), senza la necessità del decorso del tempus ad usucapiendum.

Si prospetta invece una situazione diversa con riguardo, da un lato, alla cosiddetta occupazione usurpativa, o illecito permanente, laddove l’occupazione è sine titulo, ovvero svincolata dall’esercizio di un potere pubblico, e, dall’altro lato, alle occupazioni illegittime in ordine alle quali si ritenga operativo l’articolo 43 cit.; in entrambi i casi non opera l’accessione invertita, e dunque è teoricamente aperta la strada dell’usucapione del bene da parte dell’ente occupante.

Per quanto riguarda, in particolare, l’assetto dell’occupazione illegittima emergente dal t.u. espropri cit., la giurisprudenza amministrativa ha precisato che l’azione restitutoria da parte del proprietario spogliato può essere esercitata in ogni tempo, senza alcun limite prescrizionale, risultando la restitutio in integrum impedita – in mancanza della scelta della PA di acquisire in sanatoria il bene ex art. 43 cit. o in mancanza di rinuncia abdicativa del proprietario – dall’eventuale maturazione dell’usucapione ventennale a favore dell’ente pubblico occupante [14]; più in generale i giudici amministrativi fanno discendere il trasferimento del diritto dal normale provvedimento di esproprio, o atto di cessione volontaria, ovvero, in caso di procedura espropriativa illegittima, dal provvedimento acquisitivo ex art. 43, ovvero dall’usucapione [15], e, con qualche incertezza, dall’accertamento giudiziale dell’”abdicazione” da parte del proprietario il quale, reagendo all’occupazione illegittima, abbia optato per la tutela risarcitoria anziché per quella restitutoria.

Sembra da escludersi che accertamento dell’usucapione e accertamento dell’illecita occupazione ai fini risarcitori possano coesistere: è stato infatti affermato che l’avvenuta usucapione, essendo un acquisto a titolo originario, esclude il presupposto del risarcimento da illecito, rendendo irrilevante l’illiceità del possesso di chi abbia usucapito [16], purché, beninteso, si tratti di possesso non viziato ai sensi dell’articolo 1163 c.c..

Quest’ultimo aspetto merita una particolare riflessione.

In caso di acquisto violento o clandestino del possesso, esso non giova all’usucapione fino a quando cessa la violenza o la clandestinità (nec vi, nec clam: art. 1163).

Sussiste una netta differenza tra la tradizionale e rigorosa nozione di violenza intesa come azione fisica (vis absoluta o vis in corpore illata: ad esempio la rimozione della recinzione e l’ingresso nel fondo con mezzi pesanti) o morale (vis compulsiva o vis in animo illata) costrittiva dell’altrui volontà e arbitraria, e l’amplissima nozione giurisprudenziale di violenza in tema di azione di reintegrazione, (un cui possibile presupposto è il carattere violento dello spoglio: art. 1168 c.c.), ove la violenza è ravvisata in qualsivoglia adprehensio del bene avvenuta senza il consenso dell’avente diritto, esplicito o rivelato per facta concludentia da un comportamento inequivocabilmente acquiescente (non ravvisabile nella mera inazione) [17].

Quest’ultima impostazione, se ritenuta valida nell’ambito dell’usucapione, inibirebbe in pratica la configurabilità dell’usucapione – giusta l’articolo 1163 – ogniqualvolta il titolare del diritto sul bene, o il precedente possessore, non abbia dato esplicito consenso ad una occupazione illegittima della PA, ovvero, a maggior ragione, abbia manifestato una qualche forma di contrarietà extragiudiziale o contrasto giudiziale.

Sennonché, anche volendo accogliere la nozione più ristretta di violenza, si può agevolmente osservare come l’impossessamento forzoso in esecuzione di un decreto di esproprio o di occupazione temporanea consista in un’azione coercitiva esecutiva di un provvedimento autoritativo, che consente di ottenere legalmente l’apprensione del bene contro la volontà del destinatario. Tale impossessamento contrario alla volontà del destinatario non è viziato ai sensi dell’articolo 1163 perché è fondato su un titolo previsto dalla legge che lo legittima. Ma se quel titolo non c’è o è viziato, l’impossessamento per le vie di fatto compulsivo della volontà dello spoliatus diventa arbitrario, e negare – a quel punto – il suo carattere violento, equivarrebbe ad ammettere che la p.a. operante in carenza di potere possa essere esonerata dalle conseguenze civilistiche del suo comportamento.

In altri termini, la violenza è un uso della forza arbitrario, e quando la p.a. occupa forzosamente un terreno sine titulo, fa per l’appunto un uso della forza arbitrario. A trarne le conclusioni ai sensi dell’articolo 1163, con le conseguenti ripercussioni in tema di occupazione illegittima, la giurisprudenza non è ancora sostanzialmente giunta: non manca però qualche avvisaglia [18].

Va tuttavia ricordato che parte della giurisprudenza in materia di usucapione è arrivata ad ammettere - a dispetto della tradizionale opinione secondo cui il possesso ad usucapionem debba essere “pacifico” - che il possesso possa diventare violento successivamente al suo acquisto e mantenersi ciononostante giovevole all’usucapione [19]; ciò, nell’ambito dell’occupazione illegittima, consentirebbe verosimilmente di inferire che, a differenza della inesistenza o illegittimità iniziale del titolo di occupazione, la sua illegittimità sopravvenuta - ad esempio per scadenza infruttuosa dei termini -, quand’anche qualificabile come violenza, non impedisca l’usucapione ai sensi dell’articolo 1163 c.c..


La legge 448/1998

Occorre spendere alcune parole sulla previsione contenuta al comma 21 dell’articolo 31 della legge n. 448/1998 (finanziaria 1999), in base alla quale «In sede di revisione catastale, è data facoltà agli enti locali, con proprio provvedimento, di disporre l’accorpamento al demanio stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso pubblico, ininterrottamente da oltre venti anni, previa acquisizione del consenso da parte degli attuali proprietari».

Ora, l’utilizzo ininterrotto ventennale potrebbe, evidentemente, ben configurare l’avvenuta usucapione, se avente i connotati di possesso ad usucapionem con il corpus e l’animus possidendi, ma la norma introduce due aspetti incompatibili con la disciplina dell’usucapione: la “disposizione” del passaggio di proprietà con provvedimento amministrativo – mentre l’usucapione può essere accertata solo con una sentenza non costitutiva – ed il consenso degli “attuali proprietari” – mentre nell’usucapione, dopo il ventennio “attuale proprietario” è colui che ha usucapito, e comunque il consenso dell’usucapito non impedisce l’usucapione –.

In definitiva si può ritenere che la p.a. disponga, dopo codesta legge finanziaria, di un ulteriore titolo di acquisizione di un bene al demanio stradale, distinto dall’usucapione: è all’uopo sufficiente la dimostrazione di un utilizzo ininterrotto per vent’anni, e non delle ulteriori condizioni del possesso ad usucapionem, ed è possibile disporre in via amministrativa il passaggio di proprietà, con effetto costitutivo ex nunc : occorre tuttavia il consenso dei proprietari.


Immemoriale e dicatio ad patriam

Prima della codificazione napoleonica, l’immemorabile, o immemoriale, era considerato un titolo di presunzione di corrispondenza alla situazione di diritto di una situazione di fatto caratterizzata dalla vetustas, cioè dalla sua protrazione da tempo immemorabile, le cui origini si perdono nel passato senza che vi sia memoria del contrario [20].

Si ritiene per lo più in dottrina e giurisprudenza che l’immemoriale, nell’ambito del diritto civile, non trovi spazio di applicazione in quanto abrogato dal codice civile del 1865 e non richiamato in vigore dall’attuale codice civile, nel quale il sistema di presunzioni del possesso intermedio e anteriore (artt. 1142 e 1143) rende irrilevante il periodo antecedente rispetto al momento di esistenza di un titolo o rispetto al momento in cui possa con certezza essere fatto risalire un atto di possesso [21].

Eppure ciò non ha impedito che il principio preterlegale dell’immemoriale si sia affermato in presenza di interesse pubblico: vasta è la giurisprudenza che qualifica il possesso collettivo ab immemorabili, esercitato da una comunità di individui uti cives, idoneo all’acquisto di una servitù di diritto pubblico a prescindere da altri titoli di acquisto [22].

I diritti di servitù d’uso pubblico possono essere acquistati per possesso ab immemorabili – così come per usucapione – anche se non vi siano opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, in quanto il requisito dell’apparenza è richiesto dall’art. 1061 cod. civ. soltanto per le servitù prediali [23].

La dicatio ad patriam è il comportamento volontario ed univoco del proprietario consistente nel destinare un proprio bene, o nel non impedire la destinazione di un proprio bene, con carattere di definitività, continuità e non di mera occasionalità, precarietà e tolleranza, a beneficio di una comunità indeterminata di soggetti, al fine di soddisfare in via permanente, analogamente a quanto avviene per i beni demaniali, un’esigenza comune ai membri di tale collettività considerati uti cives, a prescindere dalle motivazioni di tale comportamento, dalla sua spontaneità, dallo spirito che lo anima, e dalla stessa consapevolezza e intenzionalità degli effetti giuridici correlati all’insorgenza del diritto di uso pubblico [24].

La dicatio ad patriam trova dunque il suo fondamento in un comportamento di fatto del proprietario, e non, come avviene nell’usucapione o nell’immemorabile, nel possesso del bene da parte della comunità, e non necessita di formali ed espresse manifestazioni di volontà.

Sul piano pratico, la sostanziale differenza tra dicatio ad patriam ed usucapione consiste nel fatto che nella dicatio la costituzione della servitù prescinde dalla durata dell’uso collettivo in quanto, una volta accertato, anche per facta concludentia, il requisito della volontaria dicatio e la sussistenza oggettiva dell’uso pubblico, la servitù può ritenersi perfezionata con l’inizio stesso dell’uso in tal modo legittimato, senza che occorra attendere il decorso di un determinato lasso di tempo [25].

In giurisprudenza si è giunti ad affermare che la volontarietà del comportamento del proprietario può anche consistere nel mettere a disposizione il bene nell’ambito di una convenzione stipulata ad altri fini, arrivando in tal modo alla inevitabile conclusione che alla successiva formalizzazione occorre attribuire efficacia dichiarativa e non costitutiva della servitù [26].

A differenza dell’usucapione, uso ab immemorabili e dicatio ad patriam sono titoli idonei all’acquisto della sola servitù di uso pubblico, non della proprietà del bene.

Autore

Loro, Paolo

Laureato in giurisprudenza, direttore e coordinatore scientifico della rivista Esproprionline, direttore del network di riviste tecnico-giuridiche Territorio.it, consulente e operatore in materia di espropriazione per pubblica utilità, direttore dei notiziari bimestrali di giurisprudenza Esproprionline, Urbium, Patrimoniopubblico, curatore di repertori e massimari giurisprudenziali, autore e curatore di varie pubblicazioni, docente in numerosi corsi di formazione, già capo ufficio espropriazioni del Comune di Padova.