Occorre ora prendere in considerazione le differenze sussitenti tra l’indennità spettante al proprietario nel caso di una legittima espropriazione e l’indennizzo dovuto in caso di acquisizione coattiva sanante.
Questo perchè il danno erariale, di cui possono essere chiamati a rispondere gli operatori, sta proprio nel differenziale tra indennità di esproprio e di occupazione da un lato, e indennizzo e risarcimento da espropriazione illegittima dall’altro.
Si tratta, in sostanza, dell’applicazione di quello che nel Cap.II abbiamo visto essere il criterio utilizzato dal giudice contabile, ma anche dalla parte attrice, ai fini della stima del danno erariale subito dall’amministrazione.
In base alla regola della Differenztheorie, infatti, qualora quanto dovuto dall’amministrazione al privato a causa dell’utilizzo senza titolo del bene per scopi di interesse pubblico superi quanto comunque dovuto dall’amministrazione stessa qualora avesse espropriato la proprietà secondo diritto, le casse dell’erario avranno subito un danno, di cui il pubblico dipendente sarà chiamato a rispondere innanzi alla Corte dei conti.
Da sottolineare è, senz’altro, la circostanza che il comma 3 dell’art. 42-bis, nel quantificare l’indennizzo previsto per i terreni edificabili, non preveda l’applicazione della maggiorazione del dieci per cento contemplata dal comma 2 dell’art. 37 nell’ipotesi di espropriazione posta in essere legittimamente[1].
Ed analoghe osservazioni possono farsi riguardo l’indennità aggiuntiva prevista per le aree non edificabili dal comma 4 dell’art. 40[2].
L’omessa previsione dei suddetti correttivi, applicabili invece in caso di espropriazione posta in essere in modo legittimo, comporta come conseguenza che l’amministrazione, paradossalmente, possa avvantaggiarsi del proprio illecito, dato che, come è stato osservato, «in entrambi i casi [...] il proprietario del bene illegittimamente occupato e poi acquisito ex art. 42-bis ottiene un indennizzo-risarcimento verosimilmente inferiore a quanto gli sarebbe spettato con una procedura espropriativa legittima»[3].
Condivisibile è, pertanto, l’opinione di chi, correttamente, suggerisce di porre rimedio ad una situazone di tal genere facendo «commisurare l’indennizzo di cui all’art. 42-bis non tanto al valore venale del bene, bensì all’indennità di esproprio che avrebbe dovuto essere corrisposta se si fosse proceduto ad espropriazione legittima, cioè ad un’indennità già comprensiva dei suoi correttivi»[4].
A scongiurare il rischio di una Pubblica Ammistrazione che si vede “costretta” a pagare meno nel caso di un’occupazione illegittima, rispetto ad un’espropriazione posta in essere secundum ius, il legislatore, come già anticipato, ha comunque previsto sia un indennizzo per il danno di tipo non patrimoniale «forfettariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene», da intendersi quale valore venale determinato ai sensi del comma 3 dell’art. 42-bis, sia un risarcimento del danno, senza però distinguere, come per l’indennizzo, tra danno patrimoniale e non patrimoniale[5].
Occorre sul punto notare che il suddetto risarcimento, fissato dal comma 3, se non risulta una diversa entità del danno, nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale determinato ai sensi del comma 3 medesimo, si presenta inferiore al «dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area», pari in sostanza all’8,33%, previsto invece dal comma 1 dell’art. 50 in materia di indennità di occupazione legittima.
Il risultato a cui si perviene è, ancora una volta, quello che vede l’espropriazione illegittima risultare per l’Amministrazione economicamente più vantaggiosa di quella legittima, per scongiurare il quale è stato condivisibilmente suggerito di compiere la «coraggiosa scelta di elevare automaticamente il danno risarcibile all’8,33% […]»[6].
Un altro aspetto che non viene preso in considerazione dall’art. 42-bis ai fini dell’indennizzo del pregiudizio patrimoniale è rappresentato dal deprezzamento che subisce la parte del bene che rimane nella disponibilità del privato.
Al riguardo è senz’altro da condividere la tesi che, in ossequio alla posizione assunta in passato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ritiene necessario tenere conto del deprezzamento dell’area residua.
Questo perchè «in primo luogo [...] si tratta senza dubbio della soluzione più equa, dal momento che il deprezzamento dell’area residua è pacificamente considerato in sede di quantificazione dell’indennità di esproprio», dal comma 1 dell’art. 33, «e non è pensabile che una posta sia indennizzata nell’espropriazione legittima e non nell’acquisizione sanante […]. La necessità di considerare il deprezzamento, inoltre, può essere ricavata dall’art. 44 del testo unico ed in questo senso si è orientata in passato una parte della giurisprudenza, in virtù di un’audace interpretazione analogica»[7].
Per quanto concerne l’indennità dovuta per il periodo di occupazione legittima l’art. 42-bis anche su questo punto tace e si deve, di conseguenza, far riferimento a quanto disposto dall’art. 50 comma 1, secondo il quale, come già accennato, «nel caso di occupazione di un area, è dovuta al proprietario un’indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua».
Occorre, inoltre, non trascurare il fatto che nella prassi degli operatori il provvedimento di acquisizione coattiva sanante di cui all’art. 42 bis è preceduto da verbali nei quali viene conordato un indennizzo che, in quanto non rispettoso dei criteri determinati dall’art. 42 bis stesso, risulta assai modesto, se non addirittura simbolico.
Al riguardo è stato osservato che «il diritto patrimoniale all’indennizzo in capo al proprietario è pur sempre un diritto disponibile, cioè un diritto che può essere negoziato od oggetto di rinuncia da parte del suo titolare»[8].
Per cui se, al fine di non incorrere in vizi del consenso di cui agli artt. 1427 e ss. c.c. e conseguente annullamento dell’accordo, risulta dall’accordo stesso, in modo chiaro, che «si va a sanare una procedura illegittima, e che il proprietario, consapevolmente e liberamente, decide di accordarsi con l’Amministrazione sul quantum sottoscrivendo le clausule satisfattorie e rinunziative del caso», non vi sono ragioni per escludere l’emanazione di un provvedimento di acquisizione «nel quale la liquidazione del danno venga effettuata per relationem»[9].
Il fatto che l’indennizzo sia stato determinato sulla base di un accordo tra privato e amministrazione al di fuori dei principi fissati dall’art. 42 bis, e anche qualora risulti vantaggioso per l’amministrazione stessa, non esonera di per sé i soggetti coinvolti nella procedura da responsabilità per danno erariale.
Secondo quanto disposto dal comma 7 del suddetto articolo, si dovrà, comunque, procedere alla trasmissione del provvedimento acquisitivo, nonché dell’accordo, alla Corte dei conti, alla quale spetta, in via esclusiva, verificare se si è in presenza o meno di un danno per l’erario[10].
La condotta dei dipendenti pubblici che per negligenza e superficialità pongono in essere comportamenti od omissioni che conducono ad un’occupazione illegittima è senz’altro connotata da colpa grave, la quale, come meglio si vedrà in seguito, costituisce uno degli elementi costitutivi della responsabilità erariale.
Cosa accade, però, nel caso in cui gli operatori non emananino il provvedimento di acquisizione sanante, non aggrappandosi così al “salvagente” loro lanciato dal legislatore ?
L’amministrazione che ha atteso inerte il passare del tempo non portando a termine il procedimento di espropriazione, ma lo stesso può dirsi nel caso di occupazione ab origine sine titulo, può, perseverando nell’illeceità della sua condotta, solo sperare che si compia, ai sensi dell’art. 1158 c.c., l’usucapione a suo favore.
L’acquisto della proprietà degli immobili e dei diritti reali immobiliari richiede, ai sensi della disposizione da ultimo citata, il possesso continuato per vent’anni, anche se l’amministrazione versa in malafede e purchè non vi siano interruzioni o sospensioni.
Nel percorrere tale via, però, occorre tener presente che, secondo la giurisprudenza, è a far data dal momento in cui l’occupazione diventa illegittima che si verifica un fatto idoneo a determinare l’interversione del possesso, prima operando in favore dell’Amministrazione una mera detenzione legale, inidonea ai fini della configurazione dell’animus rem sibi habendi, utile ai fini dell’usucapione[11].
Altrimenti, qualora l’espropriato eserciti il suo diritto alla restituzione del bene, l’esercizio del quale non è subordinato all’impugnazione degli atti del procedimento non portato a termine, il giudice non potrà fare altro che ordinare la restituzione del bene medesimo[12].
In un’evenienza di tal genere, il risarcimento del danno spettante al privato - il cui diritto, configurando la condotta di protrazione illegittima nel possesso un illecito permanente, non è soggetto a termine di prescrizione quinquennale – non sarà però relativo alla perdita della proprietà .
Secondo la giurisprudenza da ultimo citata, infatti, l’espropriazione posta in essere contra ius comporta il permanere del diritto dominicale in capo al propritario espropriato e, di conseguenza, il risarcimento del danno riguarderà non la perdita della proprietà, bensì l’occupazione illegittima.
Il suddetto danno andrà quantificato sulla base di quanto disposto a titolo risarcitorio dal comma 3 dell’art. 42-bis, e da calcolarsi a partire dal momento in cui l’occupazione dell’area privata è divenuta illegittima e fino al momento della restituzione.
La restituzione del bene illegittimamente occupato, unitamente al risarcimento del relativo danno, sembra quindi essere l’epilogo della mancata adozione del provvedimento di acquisizione sanante o, in alternativa, della mancata acquisizione del bene tramite contratto, ivi compresa la cessione volontaria di cui all’art. 45 del d.P.R. n. 327/2001.
Le due ultime soluzioni, però, a differenza della prima, richiedono un accordo con il proprietario e comportano costi di rogito notarile.
Si tratta, in ogni caso, di atti rimessi alla scelta discrezionale dell’amministrazione: non è quindi ammissibile una domanda giudiziale da parte del privato volta ad ottenere una condanna che obblighi l’amministrazione stessa ad emanare il provvedimento di cui all’42-bis[13].
Ne può l’amministrazione, in tal caso, opporre alla richiesta di restituzione l’avvenuta realizzazione dell’opera pubblica o, comunque, l’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi.
Occorre al riguardo ricordare, con la giurisprudenza, che oggi la realizzazione dell’opera pubblica non rappresenta più, come invece si riteneva in passato quando operava l’istituto dell’occupazione acquisitiva o accessione invertita, un impedimento alla restituzione di quanto è stato occupato illegittimamente, e ciò vale sia nel caso di occupazione ab origine sine titulo, sia nel caso di un’occupazione iniziata in forza di un provvedimento legittimo poi scaduto[14].
A scongiurare gli eccessi, come è stato osservato, l’amministrazione potrebbe forse, in un caso del genere, farsi scudo dietro il comma secondo dell’art. 2933 c.c., a detta del quale «non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale»[15].
Quanto alle singole responsabilità, come è stato osservato, «si ritiene che la responsabilità erariale sottesa al comma 7 dell’art. 42-bis non gravi tanto su coloro che hanno partecipato all’adozione del provvedimento acquisitivo, quanto piuttosto su coloro che hanno determinato la formazione dell’illecito, che naturalmente possono essere le stesse persone, ma non è detto che sia così»[16].
Gli esempi di condotte illecite, come già è stato anticipato, non difettano, alle quali occorre però aggiungere la mancata sanatoria della irregolarità tramite adozione del provvedimento di acquisizione.
In quest’ultimo caso, come di recente affermato dal giudice amministrativo, assume rilevanza anche la condotta successivamente tenuta dai responsabili ai fini dell’eventuale riconoscimento della risarcibilità dei nuovi danni cagionati dall’ulteriore protrarsi dell’illegittima occupazione[17].
L’elemento soggettivo della colpa grave necessario al fine dell’affermazione della responsabilità erariale, non è invece riscontrabile nel comportamento di chi, diligentemente, abbia adottato quanto prima il provvedimento acquisitivo, sanando in tal modo l’illecito perpetrato.
Infatti, come è stato evidenziato, «l’adozione di un provvedimento di acquisizione dovrebbe essere di per sé una garanzia sufficiente dell’assenza di colpa grave: a ben vedere, anzi, si tratta della miglior garanzia possibile, perché non si vede come si possa essere più diligenti di colui che, preso atto dell’esistenza di un’occupazione illegittima, si adopera per riportarla nell’alveo della legalità, anche a costo di far scattare a carico dell’ente di appartenenza uno scomodo obbligo risarcitorio, che comunque, prima poi, l’autorità occupante dovrà necessariamente sopportare»[18].