Cave: indennità d'esproprio

Premessa ed obiettivi

Lo schema dicotomico basato sull’alternatività tra aree edificabili e non edificabili, già introdotto dal comma 3 dell’art. 5 bis della legge 359/92 e poi assorbito integralmente dall’articolo 37 del DPR 327/01, era stato interpretato in modo dichiaratamente conservativo negli anni ‘90, quando la Cassazione (2856/96, 3717/98, 4921/98, 2929/98) aveva escluso dalla categoria dei suoli edificabili quelli destinati a verde o ad attrezzature, associando il principio di edificabilità quasi esclusivamente a quella residenziale abitativa.

Tra la fine del secolo uscente e il nuovo, l’orientamento della giurisprudenza è cambiato, a seguito anche della Sentenza della Corte Costituzionale 179/99, indirizzandosi verso l’attribuzione sostanziale del connotato di edificabilità a tutte quelle zone urbane in cui le trasformazioni previste dallo strumento pianificatorio possono essere realizzate anche dal privato. Con i conseguenti effetti in termini di apprezzamento dell’indennità, per i terreni edificabili basata sulla correlazione con il valore di mercato.

Per le aree edificate, invece, l’indennità di esproprio è stata storicamente sempre uguale a tale valore. Coincidenza riconosciuta pur anche per le indennità di esproprio da elargire nel caso di ablazione di cave, con la specifica giustificazione logico-estimativa in base alla quale l’immobile vale per quel che rende.

Il sillogismo disciplinare tuttavia cela non pochi punti critici nell’applicazione a casi concreti di stima.

In primo luogo vi è il problema della definizione dell’intervallo temporale entro cui sviluppare l’accumulazione dei redditi prevedibili, periodo che è ordinariamente condizionato da almeno due fattori: l’esaurimento naturale del filone minerario e la durata dell’autorizzazione a coltivare la cava. La combinazione di questi due elementi produce una casistica articolata, che in extrema ratio può condurre addirittura alla contraddittoria attribuzione del titolo di cava per terreni sovrastanti giacimenti potenziali, ma non sfruttati né autorizzati.

Inoltre, ad oggi, la giurisprudenza nega la possibilità di ricomprendere nell’indennità componenti legate al valore del soprassuolo e dell’area di sedime. Profilo questo che contrasta in termini teoretici con l’assunto originario dell’art. 39 L.2359/1865, il quale si richiama esplicitamente e senza limitazioni al valore venale del bene, cui la stessa Corte di Cassazione (sentenza 12354/99) si riferisce direttamente nella definizione della logica ermeneutica del caso; e che, per di più, crea idiosincrasia con situazioni reali nelle quali il flusso di redditi generabile dal bene registra addendi differenziali connessi al valore del soprassuolo e al valore residuo dell’area in dipendenza di scelte pianificatorie incidenti sul capital gain.

Alla luce delle questioni delineate è condotta la disamina delle principali pronunce della Corte di Cassazione dagli anni ‘60 ad oggi, al fine di comparare le soluzioni giuridiche adottate con i criteri estimativi ivi richiamati.

Lo sviluppo di un caso studio, relativo alla stima dell’indennità di esproprio per una cava destinata ad ospitare una discarica pubblica, conclude il lavoro.


L’intervallo temporale di riferimento per la stima dell’indennità

L’indennità di esproprio di una cava in attività, è detto nella sentenza Cass. 12354/99, deve «essere determinata, in conformità a quanto disposto dall’art. 39 della legge 2359/1865, in funzione del valore venale del bene correlato alle sue caratteristiche essenziali e alla sua destinazione economica».

In particolare, spiega la sentenza, «la cava viene tenuta in considerazione quale strumento di produzione del reddito correlato alla estrazione del materiale per tutto il tempo (e solo per il tempo) della sua prevista utilizzabilità, e tale reddito costituisce il razionale riferimento da tener presente ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione dovuta per l’ablazione di tale fonte reddituale».

E’ chiaro pertanto che l’indennità di esproprio va commisurata alla somma dei redditi ritraibili nel periodo di possibile ulteriore utilizzabilità della cava rispetto alla data di effettiva occupazione.

Nel problema estimativo, evidentemente, assume rilievo decisivo la definizione della durata che la cava avrebbe in assenza dell’evento espropriativo. In proposito, nella sentenza della Cass. 1975/00 si legge che «Se il valore della cava ai fini dell’indennizzo è correlato – secondo la giurisprudenza di questa Corte – ai redditi prodotti e producibili per tutto il tempo (e solo per il tempo) della sua utilizzabilità, ne discende che la prognosi di sviluppo temporale in discorso deve correlarsi tanto alla durata giuridica (l’autorizzazione) e naturale (l’esaurimento) della cava quanto alla permanenza di una sua redditività, essendo escluso che assuma rilevanza, ai fini che occupano, il periodo nel quale la cava possa essere coltivata in regime di costi eccedenti i ricavi».

Non spiega quindi, la sentenza, se il periodo di ulteriore utilizzabilità della cava debba essere la durata giuridica o la durata naturale nel caso in cui i due termini non coincidano. Certo, se la durata naturale si conclude prima della giuridica, è sulla prima che necessariamente va definita la stima. L’aspetto che invece la sentenza sottolinea è quello della permanenza della redditività nel periodo di riferimento della stima, il che è logico e corretto anche dal punto di vista estimativo, derivando il valore della cava dall’accumulazione dei redditi.

Non fornisce un contributo risolutivo, per i casi di durata naturale maggiore della durata giuridica, nemmeno la già citata sentenza 12354/99. La quale però non interviene specificamente sul punto ma sul criterio di stima di una cava in attività priva di autorizzazione richiesta dalla legislazione regionale.

Tale sentenza infatti afferma che la sussistenza del valore patrimoniale del bene e la rilevanza della privazione di tale valore ai fini indennitari «non vengono meno per il solo fatto che l’esercizio della specifica attività, mediante la quale quel valore patrimoniale si converte in reddito, sia condizionato ad un’autorizzazione amministrativa e che di tale amministrazione il proprietario sia – per ragioni di mero fatto – munito all’attualità, cioè nel momento in cui l’ablazione produce il suo effetto giuridico».

Perciò, continua la sentenza, «la mancanza dell’autorizzazione … non può essere in se stessa ritenuta situazione ostativa all’applicazione del criterio secondo il quale la cava viene tenuta in considerazione quale strumento di produzione del reddito».

L’argomentazione, invero, potrebbe portare ad ammettere che in casi di autorizzazione scaduta, o di più breve durata rispetto all’esaurimento naturale della cava, il valore di questa dovrebbe comprendere anche i redditi successivi alla scadenza dell’autorizzazione. E’ chiaro che si tratta di un problema che deve essere risolto dalla giurisprudenza.

In termini generali, il problema della preesistenza, al momento della stima dell’indennità, del provvedimento istituzionale (autorizzazione o concessione) atto a consentire legalmente la coltivazione di una cava, al fine di qualificare in tal senso la natura del suolo, ha avuto una sostanziale evoluzione giurisprudenziale nel tempo.

In origine la Cass. 9598/92 [1] ha rigettato addirittura l’assunto in base al quale si contestava al terreno espropriato la destinazione ad attività estrattiva «avendo esso in concreto una destinazione agricola e risultando coltivato con contratti mezzadrili ancora in atto». Infatti, la sentenza 9598/92 non si pone assolutamente il problema della esistenza dell’autorizzazione in quanto analizza il caso di un terreno coltivato soprastante ad un giacimento mai sfruttato.

La Sez. I Civile risolve in proposito che «anche la coltivazione agricola in atto del fondo espropriato non vale ad escludere la qualificazione edificatoria o commerciale del fondo medesimo ove tale attitudine risulti effettivamente in base ad elementi certi ed obiettivi, poiché ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, deve aversi riguardo alla consistenza economica del bene oggetto del provvedimento ablatorio in relazione alla effettiva utilizzazione che esso potrebbe ricevere in concreto per le oggettive caratteristiche proprie e della zona in cui è compreso, indipendentemente dalle forme, dal tipo e dall’intensità dell’attuale godimento (cfr. Cass. 2317/90, 2405/89)».

Tale posizione, secondo cui il criterio del valore di mercato per la definizione dell’indennità vale anche per un terreno che abbia in essere un giacimento pur in assenza di attività e di permesso all’estrazione, è confermata poi dalla Cass. 10277/92.

Per la quale «l’attività estrattiva o meglio l’esercizio di cava è stata sempre considerata rilevante dalla giurisprudenza di questa Corte nei limiti in cui incide sul valore di mercato del bene stesso, sicché se un terreno è suscettibile di sfruttamento come cava (o addirittura su di esso vi è già una cava in esercizio), l’indennità deve pur sempre essere commisurata al prezzo di mercato del bene, cioè al valore venale che il proprietario avrebbe potuto conseguire, essendo noto che il mercato, di fronte all’attività estrattiva quale supporto indispensabile di quella edilizia, attribuisce ai suoli adibiti a cave un valore certamente maggiore del semplice suolo agricolo anche se inferiore a quello propriamente edificatorio (Cass. 18.12.1989 n. 6550; 16.2.1978 n. 728; 7.8.1962 n. 2431)».

Viceversa, la giurisprudenza più recente ha assunto posizioni differenti [2]. Ad esempio, nella Sentenza 268/04 la Suprema Corte non riconosce il titolo di cava nemmeno ad un terreno che pur avendo potenzialità estrattive ed essendo limitrofo ad una cava di altro proprietario, al momento dell’esproprio risultava privo di attività estrattiva e privo di autorizzazione. In questo caso, quindi, la mancanza dell’autorizzazione alla coltivazione non è ritenuta “ragione di mero fatto”. La valutazione in base al reddito viene esclusa dalla Corte, principalmente perchè sul terreno da espropriare non vi era una cava in attività.

Avesse deciso diversamente, avrebbe favorito l’interpretazione di poter considerare ogni suolo con potenzialità minerarie indennizzabile in base al reddito della possibile attività estrattiva, in contrasto – oltre che con i disposti normativi sulla qualificazione dei suoli a fini espropriativi – anche con i meccanismi della domanda e dell’offerta, per cui solo una piccola parte dei giacimenti si tramuta in siti di attività estrattiva, e con la serie di norme e di vincoli che devono essere applicati e preliminarmente verificati per ottenere una autorizzazione alla coltivazione.

Inoltre nella Sentenza 16983/06, la stessa Corte di Cassazione non riconosce il rango di cava ad un piazzale di lavoro interno all’area già autorizzata, per cui esclude l’applicazione del criterio di valutazione in base al reddito e lo valuta come area inedificabile.

Infine, riscontri analoghi sussistono nella sentenza 272/09. Nella quale chiaramente si dice che «Questa corte ha già avuto altra volta occasione di chiarire che, ai fini della liquidazione dell’indennità di espropriazione di una cava secondo il criterio del valore venale ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 39, piuttosto che secondo i criteri stabiliti dalla legge n. 861 del 1971, per i suoli agricoli (e sopravvissuti alle vicende che hanno interessato - sul piano del sindacato di legittimità costituzionale, e poi su quello legislativo - il D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, introdotto dalla L. di conversione n. 359 del 1992), è necessario che il bene espropriato costituisca effettivamente una cava, e non un mero giacimento non coltivato (Cass. 13 gennaio 2004 n. 268).

Conseguentemente, è immune da censure il giudizio della corte d’appello, che nella concreta fattispecie l’area occupata - in funzione di un’espropriazione, che poi non aveva avuto luogo - non fosse concretamente adibita a cava, per non essere stata rinnovata la relativa autorizzazione, già scaduta prima del decreto di occupazione, e l’occupazione dovesse pertanto essere indennizzata con il criterio normativo dettato per i suoli agricoli».

Dall’insieme di dispositivi citati si differenzia solamente la sentenza 27800/05, nella quale è rigettato il ricorso del proprietario di un terreno al di sotto del quale sussisteva un giacimento non sfruttato. A costui, in secondo grado, era stata attribuita una indennità pari al solo valore agricolo dell’immobile. La Cassazione motiva la propria decisione affermando che non vi era stata prova sostanziale dell’esistenza del giacimento, ubicato nel sottosuolo del fondo rustico, prima dell’evento ablativo.

Tuttavia, nel commentare le ragioni della Corte di Appello, afferma che «la base di ogni indennizzo [nel caso di espropriazioni di cave] è data dal valore venale del bene, [per cui] a determinarne il “prezzo” sul mercato concorreranno tutte le qualità del bene, e quindi anche le potenzialità estrattive, pur se non ancora sfruttate». In tal modo pare, quindi, riammettere la possibilità di indennizzare un giacimento anche quando questo non sia oggetto di sfruttamento e di autorizzazione, ma semplicemente perché il mercato ne apprezza le potenzialità estrattive.

Si può allora concludere che la giurisprudenza recente, tranne l’eccezione segnalata, sembra allinearsi alla logica statuita definitivamente dalla Cassazione (Sezioni Unite 172/01) per i suoli edificabili, ai quali la Corte attribuisce tale natura in virtù esclusivamente del criterio legale, delegando l’edificabilità di fatto ad elemento di supporto per l’analisi estimativa del valore.

L’analogia, perpetrata in termini rigorosi, potrebbe tuttavia condurre alla stima del valore del suolo, dotato di potenzialità estrattive e assoggettato ad ufficiale autorizzazione alla coltivazione, in funzione del flusso di redditi materialmente producibili, indipendentemente dalla durata dell’autorizzazione, come è indipendente dalla possibilità di varianti urbanistiche – più o meno plausibili – l’effetto dell’edificabilità legale sul valore di mercato dei suoli urbani.


Le componenti di valore esterne al reddito da sfruttamento minerario

Per giurisprudenza (Cass. 2061/91, 10277/92, 1975/00) «le zone interessate dalla attività estrattiva non possano subire la doppia censurata valutazione l’una alla stregua del cennato criterio (reddituale) e l’altra per il valore agricolo del soprassuolo o per il valore venale di un fabbricato», ma anche «l’area di sedime del bene cava non può rientrare nella valutazione dell’immobile-cava, così (come) l’area di sedime di una costruzione è valutata insieme alla costruzione e non come superficie da poter eventualmente destinare ad usi agricoli».

In altri termini, la Cassazione pare negare nella stima dell’indennità di esproprio la possibilità di sommare il valore reddituale del giacimento al valore del soprassuolo e dell’area di sedime.

Orbene, i prodromi dell’analisi estimativo-giuridica che conduce a formulare tale criterio di stima sono da ricercarsi nella Sentenza 326/1980, alla quale poi le successive pronunce si ispirano in merito alla specifica questione; in particolare la disamina svolta nella Sentenza 2061/91.

Di interesse al proposito, in quanto riepilogative del quadro giurisprudenziale complessivo, sono le considerazioni che la Corte di Appello di Venezia esprime nella Sentenza n. 1108 del 19/04/06, con riguardo ad un terreno edificabile (ricompreso in un Peep) su cui sussisteva attività mineraria in corso.

Per questo terreno la parte ricorrente richiede una indennità di esproprio conglobante la duplice valutazione, come area edificabile e come cava. Riassumendo la posizione della Cassazione sul problema, la Corte di Venezia afferma che non può «la cava essere ridotta ad area sulla quale necessariamente applicare la dicotomia (suoli edificabili e non) normativa: essa, infatti, è utilizzabile non per quel che si può su di essa costruire (area edificabile) o dal suo soprassuolo trarre (area agricola), né per le molteplici opportunità comunque offerte dal soprassuolo (e per legge da ritenere non rilevanti).

Essa è fruibile direttamente in termini di appropriazione materiale e non reversibile né rinnovabile, ed in un contesto di utilizzazione e di consumo la cui peculiarità non può farla contrapporre a tutte le aree (o altre aree). Ed è per tale ragione che l’individuazione dell’indennizzo per l’esproprio della cava si sottrae alla strettoia della dicotomia normativa e va indirizzata, alla stregua della consolidata indicazione giurisprudenziale della Cassazione, alla determinazione di un indennizzo idoneo ad apprestare un serio ristoro per l’ablazione dello specifico bene in discorso».

La Corte qualifica in sostanza il caso come straordinario e adotta una soluzione altrettanto straordinaria, aliena dal quadro positivo di riferimento.

La Corte afferma ancora che «Insomma, se la cava è presa in considerazione dall’ordinamento come un bene autonomo oggetto di private contrattazioni, tant’è che quando è sottratto coattivamente al privato non è possibile ignorarne la perdita economica subita, ne consegue che anche la determinazione dell’indennità deve essere effettuata in funzione della valutazione globale dell’immobile che i privati ne avrebbero fatto in una libera contrattazione di compravendita.

E quindi, se è l’immobile cava, nella sua globalità, ad essere oggetto della libera contrattazione, e non la cava a cui occorra aggiungere il soprassuolo, ne consegue che il procedimento determinativo dell’indennità di esproprio non consente la valutazione del suolo oltre che come cava anche come terreno agrico...

Autore

De Mare, Gianluigi

Ingegnere, professore associato di Estimo e responsabile del settore disciplinare nella Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Salerno. Membro del Comitato Direttivo della Siev e direttore scientifico del sito e-stimo.it

L’articolo sopra riportato è composto da contenuti tratti da questo prodotto (in formato PDF) acquistabile e scaricabile con pochi click. Si invita a scaricarsi il sampler gratuito per constatare l'organizzazione dei contenuti.

pdf 214 pagine in formato A4

15,00 €