Le procedure conciliative e arbitrato

L’art. 410, co.1 c.p.c. come modificato dal c.d. collegato lavoro stabilisce che chi intende agire in giudizio per controversie relative ai rapporti previsti dall'art. 409 può promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, tentativo di conciliazione.

Il tentativo di conciliazione è dunque un passaggio ora solo eventuale che precede la proposizione dell’azione giudiziale e va esperito secondo forme stabilite (rigidamente disciplinato in ogni sua fase) nelle sedi fissate dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Resta obbligatorio il tentativo di conciliazione nell’ipotesi più sopra illustrata del ricorso avverso l’atto di certificazione.

La richiesta, sottoscritta dall'istante, deve essere consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento e deve contenere: le generalità dell’istante e del convenuto, l’indicazione del luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l'azienda o sua dipendenza alla quale il lavoratore è o era addetto al momento della fine del rapporto; l’elezione di domicilio; l'esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

La controparte a sua volta ha facoltà di accettare o meno la procedura di conciliazione. Nel primo caso deposita presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Entro i dieci giorni successivi al deposito, la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.

Nel caso in cui la procedura abbia esito positivo e l’accordo venga raggiunto viene redatto processo verbale di conciliazione, sottoscritto dalle parti e dai membri della commissione. Tale verbale può essere reso esecutivo con decreto del giudice su istanza di parte(art. 411, co. 1 c.p.c.).

Nella diversa ipotesi in cui il tentativo non andasse a buon fine la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. E se questa non viene accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio(art. 411, co.2 c.p.c. ).
Veniamo ora alle Commissioni di conciliazione. Esse sono istituite presso la Direzione provinciale del lavoro e sono composte:
- dal direttore dell'ufficio stesso o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo, in qualità di presidente,
- da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro,
- da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale.

Possono delegare lo svolgimento del tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore della Direzione provinciale del lavoro o da un suo delegato, che rispecchino la composizione prevista dal terzo comma. In ogni caso per la validità della riunione è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e almeno un rappresentante dei lavoratori.
Ma la procedura di conciliazione, così come l’arbitrato, può essere in alternativa svolta in sede sindacale secondo quanto previsto [Omissis - versione integrale presente nel testo].
In questo caso non si applicano le norme procedurali di cui all’art. 410 c.p.c. ma l’accordo raggiunto in tal sede è ugualmente idoneo a costituire titolo esecutivo una volta depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale ed accertatane l'autenticità.

Dunque il sindacato in questa sede viene ad avere un duplice ruolo: quello di assistenza diretta ed immediata al singolo lavoratore, e quello di tutela mediata nella sua veste di componente della commissione di conciliazione.
Sempre possibile rimane chiaramente la conciliazione giudiziale che avviene nel corso del processo ad iniziativa del giudice, che è tenuto a tentarla sin dall’inizio del giudizio formulando anche una proposta transattiva. Il relativo verbale, sottoscritto dal giudice, ha anch’esso efficacia di titolo esecutivo.

Diversamente dalla conciliazione l’arbitrato è istituto di risoluzione delle controversie in cui le parti di un rapporto giuridico devolvono ad un soggetto terzo il potere di decidere come comporre la controversia tra loro insorta in relazione a quel medesimo rapporto.

La scelta deve essere comune, declinazione della libera volontà di entrambe le parti.
L’accordo delle parti potrà essere contenuto nel compromesso con cui le parti scelgono di devolvere al collegio arbitrale una controversia già insorta, o in una clausola compromissoria con cui le parti di un contratto scelgono questa via per le controversie eventuali e future che dovessero insorgere tra loro.
Si distinguono arbitrato rituale, idoneo a conseguire effetti analoghi alla giurisdizione, ed irrituale, richiesto sotto forma di mero accertamento di natura convenzionale e sono regolati dagli artt. 806 e ss. c.p.c. e dall’art. 5 l. n. 533/1973 come di recente aggiornati.
Se fino a non molto tempo fa non sarebbe stata ipotizzabile la soluzione in quella sede di una controversia di quelle di cui all’art. 409 c.p.c., attualmente l’art. 806, co. 2c.p.c.rende ammissibile quando previsto da ulteriori disposizioni di legge e dai contratti collettivi.
Restano non arbitrabili le controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili.

Attualmente le ipotesi previste dagli artt. 412, 412 ter e 412 quater c.p.c. vengono considerate fattispecie di arbitrato irrituale.
L’art. 412 c.p.c. infatti, che espressamente prevede l’ipotesi di devoluzione della soluzione arbitrale della controversia alla commissione di conciliazione istituita presso la DTL, sancisce che il lodo così emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti del contratto ai sensi dell'articolo 1372 c.c. ed è sottratto alle cause d’invalidità di cui all'articolo 2113 c.c.. È impugnabile ai sensi dell'articolo 808ter c.p.c.dinanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro entro 30 giorni dalla notificazione del lodo.
In alternativa l’arbitrato potrà essere svolto «presso le sedi e con le modalità previste daicontratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacalimaggiormente rappresentative».

Infine l’ipotesi di cui all’art. 412 quater c.p.c.prevede una terza ipotesi di arbitrato irrituale rigidamente disciplinato: le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. possono essere proposte innanzi a collegio di conciliazione e arbitrato irrituale composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridichee gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione.

Tornando all’ipotesi di conciliazione in sede sindacale si è a lungo discusso circa l’impugnabilità di tale atto. Il comma 4 dell’art. 2113 c.c., così come modificato dalla l. n. 183/2010,sottrae al regime generale di impugnabilità delle rinunce e transazioni del lavoratore le ipotesi di conciliazione sottoscritta avanti il giudice, avanti la Direzione territoriale del lavoro, avanti ilsindacato o, ancora, avanti i collegi di conciliazione ed arbitrato irrituali. Tutte ipotesi in cui la procedura si svolge dunque avanti ad un soggetto terzo rispetto alle parti il cui intervento dovrebbe essere finalizzato ad evitare che il lavoratore, tradizionalmente considerato soggetto debole del rapporto, ponga in essere atti abdicativi o dispositivi dei propri diritti in condizione di coazione morale o economica, o ancora, senza conoscere esattamente la portata dei propri diritti e le conseguenze della loro dismissione.

Come si è visto nulla dice la legge in merito alle sedi conciliative sindacali, alla determinazione delle modalità di funzionamento ed all’attività delle stesse che sono demandate alla contrattazione collettiva ed ampio spazio è stato quindi lasciato alle elaborazione dottrinali e giurisprudenziali che si sono espresse in merito ai requisiti delle dette procedure.
Tra le problematiche più spinose, ancor oggi aperte, vi è quella relativa a quale tipo e grado di assistenza il sindacato deve fornire al lavoratore, per garantire la stabilità e l’inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni dallo stesso poste in essere.

Gli orientamenti sul punto sono due: un primo più risalente nel tempo, secondo il quale la mera presenza del sindacato alla conciliazione sarebbe di per sè sufficiente a sottrarre il lavoratore dallo stato di soggezione; un secondo invece secondo cui è necessario un intervento attivo dell’esponente sindacale che non dovrebbe limitarsi a verificare la genuinità della volontà del lavoratore, bensì dovrebbe fornire «un apporto fattivo alla corretta comprensione dei termini giuridici della contesa e quindi dell’esatta determinazione dell’entità della rinuncia a fronte dei benefici concreti ottenibili». Questo secondo e maggioritario orientamento esige dunque l’effettività della assistenza sindacale, volta a permettere al lavoratore di comprendere a quali diritti rinunzia e in che misura.

Ed in particolare la Suprema Corte nella sentenza n. 24024/2013 afferma nuovamente in maniera chiara e precisa che in materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, «le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali - della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale – sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evinca [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Resta comunque a carico del lavoratore l’onere di provare che l’assistenza non è stata effettiva qualora il rappresentante sindacale sia stato presente alla conciliazione.