L'assistenza al singolo lavoratore nei trattamenti discriminatori

L’art. 3 Cost. sancisce uno dei principi cardine del nostro ordinamento, il principio di eguaglianza, enunciato nella sua duplice veste formale e sostanziale. Accanto ad esso si pongono le disposizioni dell’art. 14 CEDU edell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vietano in sostanza qualunque forma di discriminazione: i comportamenti discriminatori tenuti ad ogni livello costituiscono violazione di un diritto fondamentaleproprio di ciascun individuo e rappresentato dalla dignità umana.

Il principio di parità di trattamento e i divieti di discriminazione entrano dunque prepotentemente nel nostro sistema giuridico per poi trovare estrinsecazione specifica in ambiti differenti.

In particolare il luogo di lavoro è storicamente teatro di trattamenti differenziati che possono risultare più o meno giustificati. Certamente non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse al sesso, alla razza, all'origine etnica, alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Ma spesso individuare la linea di confine rispetto alla discriminazione non è agevole. Sono molteplici i casi in cui non vi sono ragioni di tal genere a fondare il differente trattamento e la risposta dell’ordinamento e delle parti sociali si individua nell’apposizione di alcuni limiti ai poteri del datore di lavoro.

Gli artt. 15 e 16 dello Statuto dei Lavoratori,così come risultanti dopo plurimi interventi del legislatore, espressamente prescrivono la nullità di qualsiasi patto od atto diretto a discriminare un lavoratore in ragione della sua adesione o mancata adesione ad un sindacato, delle sue idee politiche, della confessione religiosa, di razza, lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale o convinzioni personali facendo da ciò dipendere la sua occupazione o il suo licenziamento, la sua qualifica o le sue mansioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari, o altri eventuali pregiudizi che dovesse per ciò sopportare, anche con riguardo ai trattamenti economici.

A queste disposizioni nel tempo se ne affiancano altre, si susseguono interventi normativi che ampliano il novero dei fattori di discriminazione tutelati e regolano in maniera più specifica alcune ipotesi.

In particolare il Codice sulle pari opportunità ha ad oggetto «le misure volte ad eliminare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo».

L’art. 25 in particolare individua le nozioni di discriminazione diretta ed indiretta per cui: «costituisce discriminazione diretta qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effettopregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori inragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevolerispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga»; al contrario «si ha discriminazione indiretta quando [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Al fine di dare attuazione alla direttiva 2006/54/CE poi il legislatore ha emanato il d.lgs. 5/2010 che modifica, attraverso una semplice struttura composta da 6 articoli, alcune disposizioni del Codice citato, nonché della normativa a sostegno della maternità e paternità e dei relativi regolamenti attuativi (d.P.R. n. 101 e 115 del 14 maggio 2007).
Bisogna precisare inoltre che sempre ai sensi del d.lgs. 198/2006 sono considerate alla stregua di discriminazioni le molestie, vale a dire quei comportamenti indesiderati, posti in essere per i motivi già elencati con lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.
Con l’emanazione del cd. Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998), viene, fra l’altro, sancito espressamente il principio di uguaglianza e parità di trattamento per i lavoratori stranieri.

Il lavoratore fatto oggetto di discriminazione che intenda opporsi a ciò può anche in questo caso appoggiarsi alle strutture sindacali per ricevere adeguata assistenza.

Lo Statuto dei lavoratori espressamente prevede infatti la possibilità di adire l’autorità giudiziaria da parte «del lavoratore nei cui confronti è stata attuata la discriminazione o delle associazioni sindacali allequali questi hanno dato mandato». Questa, accertati i fatti, potrà condannare il datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pariall'importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.

Il codice delle pari opportunità prevede invece per il caso specifico di inosservanza delle relative disposizioni la possibilità di rivolgersi alla diversa struttura del Consigliere di Parità per esperire eventuali procedure di conciliazione ex art. 410 c.p.c. nonché per trovare assistenza nell’esperimento delle azioni giudiziali davanti al Giudice del Lavoro, ai sensi degli art. 36, 38 e 41 bis d.lgs. n. 198/2006.

L’art. 38 citato nella specie prevede la possibilità per il lavoratore di instaurare un procedimento in via d’urgenza anche delegando a rappresentarlo le organizzazioni sindacali o il consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente, avanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato. Questi, «nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti», ferma restando la possibilità di opposizione al decreto e la conseguente instaurazione di un giudizio nelle forme di cui agli artt. 413 e ss. c.p.c..

Un ulteriore rimedio è poi fornito dall’art. 37 che prevede la possibilità di esperire un’azione collettiva qualora i consiglieri di parità competenti per territorio«rilevino l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo» e non sia possibile attuare un piano di rimozione delle discriminazioni idoneo. Qualora invece il piano predisposto dal datore di lavoro su invito dei consiglieri rispondesse alle esigenze del caso concreto questi sarebbero tenuti a promuovere il tentativo di conciliazione: il relativo verbale, in copia autenticata, acquisterebbe forza di titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice del lavoro.

D’altra parte invece il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato provvede all’eventuale risarcimento del danno anche non patrimoniale ed ordina all'autore della discriminazione di definire il piano di rimozione delle discriminazioni accertate di cui sopra. Resta comunque ferma la possibilità di proporre anche in questo caso ricorso in via d'urgenza.

Il c.d. piano di rimozione è un atto complesso che dev’essere in tutti i casi definito sentendo nel caso di discriminazione posta in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Infine l’art. 28 della l. n. 150/2011 nel tentativo di dare uniformità alla disciplina in materia di discriminazione sul lavoro dal punto di vista processuale prevede la possibilità di ricorrere adun diverso rito “speciale”. Il riferimento è al rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. edanche in questo caso,accertato il trattamento discriminatorio, il giudice condanna il convenuto al risarcimento patrimoniali e non,ordina la cessazione della condotta o dell'atto pregiudizievole ed eventualmente l’adozione del piano di rimozione adeguato.Può inoltre dare alla vicenda risonanza e pubblicità, disponendo ove lo ritenga opportunola pubblicazione del provvedimentosu un quotidiano di tiratura nazionale.
Fino a tempi recenti la percezione dei sindacati è stata quella di un diminuendo dei casi in cui la discriminazione è lampante, mentre quello che non veniva meno, frutto del retaggio storico e culturale da cui proveniamo e di modelli che ancor oggi ci vengono proposti,erano i casi di «accanimento» contro le lavoratrici al rientro dalla maternità. Sebbene vi siano, infatti, una legislazione predisposta ad hoc e Commissioni regionali che offrono sostegno questo rimane e rimarrà purtroppo uno dei problemi più vivi.

Ma le più recenti riforme del mercato del lavoro hanno in realtà cambiato le carte in tavola. Prima la l. n. 92/2012 e poi il d.lgs. n. 23/2015 pongono l’accento sul licenziamento nullo in quanto discriminatorio riservando ad esso, e ad altri casi, assai limitati, la tutela reintegratoria.

La discriminazione in quest’ambito viene in realtà in rilievo in relazione alla motivazione del licenziamento e non è semplice dimostrarla nell’ambito del giudizio d’impugnazione, gravando l’onere della prova interamente sul lavoratore che l’adduce. Ma rimanendo l’unica, o quasi, strada percorribile ai fini della reintegra [Omissis - versione integrale presente nel testo].

La casistica in materia aumenterà insomma non tanto per l’incremento effettivo delle situazioni discriminatorie quanto per il mutato contesto normativo in materia di licenziamento. Come, probabilmente, fino a questo cambiamento di rotta, in effetti, non è che icasi di discriminazione fossero pochi, ma la possibilità di ottenere una tutela analoga facendo valere vizi differenti, e dunque con sforzi sul piano dell’onere della prova inferiori, faceva propendere per altre strade.