Il valore delle aree ad attrezzature ed infrastrutture

Il quadro normativo

Il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità [2], in vigore dal 30 giugno 2003, attraverso l’organico riordino della disciplina espropriativa e l’abrogazione di tutte le leggi e i regolamenti varati in materia dal 1865, chiarisce le fasi che compongono le procedure di acquisizione delle aree destinate ad opere di pubblica utilità. In particolare il T.U. dispone in modo sistematico i criteri di calcolo dell’indennità di esproprio per le diverse tipologie di beni espropriabili, che classifica in tre categorie: aree edificabili, aree non edificabili e aree legittimamente edificate.

Il T.U. conferma quindi, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, il distinguo categorico espresso dall’art. 5 bis della legge n. 359/1992 tra aree edificabili e aree che ai sensi del 3° comma dell’articolo 37 “non sono classificabili come edificabili”. In quest’ultima categoria sono comprese le aree agricole e le aree non edificabili. In pratica, benché nel confronto con le aree agricole, il legislatore riconosca la natura diversa delle aree non edificabili, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio equipara queste ultime alle aree agricole [3] e dispone per il calcolo dell’indennità di esproprio l’applicazione dei criteri di cui al titolo II della legge 22 ottobre 1971 n. 865.

Testualmente, «se un suolo non è edificabile, tenuto conto delle sue possibilità legali ed effettive [4] di edificazione, il suolo stesso va considerato agricolo e l’indennità di espropriazione va commisurata al valore agricolo medio della coltura effettivamente praticata sul fondo, senza valutare la possibile o l’effettiva utilizzazione diversa da quella agricola. Qualora – poi – l’area non è effettivamente coltivata, l’indennità è commisurata al valore agricolo medio del tipo di coltura prevalente nella zona» [5].

All’interno della categoria “aree edificabili”, il T.U. distingue poi ai soli fini della determinazione dell’indennità - introducendo così una novità rispetto alla normativa previdente -, quelle destinate «alla realizzazione di opere private di pubblica utilità, che non rientrino nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica, convenzionata, agevolata o comunque denominata, nonché nell’ambito dei piani di insediamenti produttivi di iniziativa pubblica» per le quali prevede che l’indennità sia «determinata nella misura corrispondente al valore venale del bene» (art. 36). Per le aree edificabili che non rientrano in questa fattispecie, il T.U. ha raccolto in veste organica e sistematica le preesistenti regole legislative e giurisprudenziali.

Recentemente però queste regole sono state cambiate a seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle stesse da parte della Corte Costituzionale (sentenza n. 348 del 24/10/2007) e del conseguente intervento legislativo (art. 2, commi 89 e 90 L. 244 del 24/12/2007 – finanziaria 2008) che ha sostituito i commi 1 e 2 dell’art. 37 del T.U. dichiarati illegittimi. Per le aree edificabili che non rientrano nella fattispecie di cui all’art. 36 il nuovo criterio indennitario prevede il pieno valore, fatta eccezione per i casi in cui l’espropriazione sia finalizzata «ad attuare interventi di riforma economico-sociale», per i quali l’indennità, commisurata al valore venale, va ridotta del 25 per cento [6].

Questione essenziale è dunque quella riguardante l’individuazione di un parametro certo per la discriminazione tra aree edificabili e non. Aspetto questo che a sua volta richiama un altro problema, quello della distinzione tra vincoli conformativi, che essendo connaturati al regime legale della proprietà, assumono rilevanza ai fini della determinazione dell’indennità, e vincoli espropriativi, che viceversa non possono avere alcuna incidenza nella misura dell’indennizzo.

Prima del riordino normativo del TU e nella vigenza dell’art. 5 bis, la Suprema Corte modificando nel tempo l’interpretazione sul rapporto tra urbanistica ed espropriazione ha affrontato il problema con pronunce molto spesso non univoche. In una perdurante inerzia legislativa, i diversi filoni giurisprudenziali, hanno così prodotto ingiustificate disparità di trattamento tra espropriati.

Punto cruciale è l’applicazione, alle aree urbane ritenute non edificabili, dei criteri indennitari previsti dalla normativa per le aree agricole. Su questo indirizzo si sono allineate numerose sentenze della Cassazione Civile (tra le altre Sez. 1 n. 259/98, n. 2929/98, n. 4921/98, n. 6522/98, n.465/99, n.2272/99, n.1684/2000), che hanno giudicato, agli effetti della determinazione dell’indennità di esproprio, non legalmente edificabili e pertanto da equiparare a terreni agricoli, indistintamente, tutti i suoli destinati ad attrezzature di interesse generale, quali il verde pubblico o attrezzato per il gioco, l’impiantistica sportiva, i parcheggi, i campeggi, ecc. allorché per essi fosse stato riconosciuto il vincolo conformativo [7].

Ciò in virtù del principio sancito più volte dalla stessa Corte che ha negato l’esistenza di un tertium genus (Cfr. Cass. Sez. I, n. 1684/00, 465-7200/99, 2929-4921-6522-8634/98, 11568/97) oltre quello delle aree edificabili e delle aree agricole «alle quali ultime devono pertanto ritenersi parificate, sul piano della determinazione indennitaria, tutti i suoli che pur suscettibili di un’utilizzazione diversa da quella strettamente agricola, non risultino stricto sensu edificatori».

È stata, d’altra parte, questa rigida interpretazione del concetto di edificabilità che ha determinato le maggiori sperequazioni tra gli espropriati. La giurisprudenza ha infatti spesso trattato, ai fini indennitari, in modo diverso le aree destinate ad infrastrutture pubbliche (parcheggi, verde pubblico, strade, ecc.) considerate non edificabili, da quelle invece destinate ad attrezzature pubbliche le quali, poiché in esse la normativa consente la costruzione di volumi e superfici - benché destinati alla funzione pubblica (edilizia scolastica, universitaria, attrezzature collettive, ecc.) -, sono state assoggettate a diverso regime (esempi sono le sentenze della Cass. civ., sez. I, n. 4315 del 28-04-1998 e n. 2148 del 25-02-2000 [8]).

Alla sperequazione generatasi ha cercato di porre un “maldestro” rimedio la stessa giurisprudenza con il tentativo di smentita della rigida bipartizione tra i due i generi - aree edificabili o non edificabili - proposto nella sentenza n.9683/2000 dalla Cassazione Civile Sez. I. I giudici della Corte, delineando un indirizzo interpretativo della norma di tipo estimativo, sulla questione del criterio da adottare per la stima dell’indennità definitiva di esproprio di un suolo che, oltre ad uno sfruttamento agricolo, si prestava ad una sia pur limitata utilizzazione a parcheggio, nonché a campi da tennis, affermavano che per quanto riconosciuta la non edificabilità legale delle aree, in sede di determinazione dell’indennità definitiva [9], al proprietario doveva essere consentito di dimostrare che il valore agricolo del terreno fosse mutato «in conseguenza di una diversa destinazione del bene ugualmente compatibile con la sua ormai accertata inedificabilità, e che, di conseguenza, ad esso, in quanto suscettibile di sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, dovesse riconoscersi un’effettiva valutazione di mercato capace di rispecchiare tali possibilità di utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificatoria».

Benché questa pronuncia non abbia poi avuto altri riscontri in giurisprudenza mentre ha trovato una totale negazione nel T.U. [10], è certamente rappresentativa di una condizione di incertezza normativa che ha prodotto - come già ricordato - scelte delle Amministrazioni esproprianti e giudizi nelle procedure di opposizione a stima (in special modo tra quelli non definitivi delle Corti d’Appello), non equi nei confronti di proprietari di aree urbane espropriate e sottoposte ad un analogo vincolo di destinazione (di tipo conformativo) ad opere pubbliche o di interesse pubblico.

Una svolta fondamentale al “disordine” interpretativo è arrivata con le pronunce n.179/1999 della Corte Costituzionale e n.172/2001 delle Sezioni Unite della Cassazione Civile, confermate poi più volte dalla Sez. I della Cass. Civile. Con tali sentenze la giurisprudenza fornisce un nuovo indirizzo interpretativo – che risulta recepito dal nuovo sistema delineato dal TU - fondato su un principio che non prospetta il superamento della dicotomia aree edificabili - aree non edificabili, ma indica chiaramente gli elementi necessari a distinguere i due generi.

Innanzitutto rende equivalenti, ai fini dell’individuazione del criterio di stima dell’indennità di esproprio, il vincolo ad infrastrutture e quello ad attrezzature pubbliche o di interesse generale. Afferma poi che questo tipo di classificazione non esclude l’edificabilità dell’area, che va riconosciuta ogni qual volta il vincolo non preclude all’iniziativa privata la realizzazione delle opere previste (infrastrutture o attrezzature) [11]. In effetti, come ha successivamente precisato la Sez. I della Corte di Cassazione (tra le altre, le sent. 5106/04, 19615/04, 23973/04, 11322/05, 20252/06, 24585/06, 13917/2007) è negata la natura edificabile di un’area vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico - che impedisce pertanto ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo riconducibili alla nozione tecnica di edificazione o che, anche se previste, siano concepite al solo fine di assicurare la fruizione pubblica degli spazi -, con conseguente necessità di commisurare l’indennità di esproprio al valore agricolo.

Il problema del vincolo a carattere esclusivamente pubblicistico si intreccia poi con quello relativo alla natura del vincolo medesimo, espropriativo o conformativo [12].

Tenuto conto che (art. 32 del TU) l’indennità di espropriazione va determinata valutando l’incidenza sul bene dei soli vincoli di natura conformativa, senza invece considerare gli effetti del vincolo espropriativo, qualche perplessità potrebbe scaturire dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 9 del TU, laddove sono attribuiti effetti espropriativi ad ogni previsione di piano generale che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità. In linea, però, con l’attuale orientamento della giurisprudenza, il TU (c. 4 dell’art. 37) considera, ai soli fini della determinazione delle indennità di esproprio (e non anche quindi con riferimento a temi quale la durata, la reiterazione e l’indennizzo conseguente [13]) vincoli di inedificabilità assoluta (non espropriativi quindi) quelli per i quali è precluso il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata.

A questa categoria appartengono, ad esempio, le aree che ricadono in zone di PRG destinate a standard urbanistici (D.M. n.1444/1968) e/o il cui scopo è esclusivamente pubblicistico (aree destinate alla realizzazione di attrezzature di servizio pubbliche o gestibili esclusivamente da enti pubblici).

Sono invece escluse dal novero delle compressioni dominicali, ma hanno invece carattere conformativo [14], le destinazioni pubbliche realizzabili, in regime di economia di mercato, ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata [15]. A questa categoria appartengono tutti i suoli che ricadono in zone destinate dalla programmazione urbanistica ad opere di interesse generale, le quali sebbene non rientrino in quelle di stretta cura della Pubblica Amministrazione, comprendono impianti e attrezzature idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzati e gestiti da soggetti privati (è il caso di attrezzature sportive, di parcheggi multipiano, ecc.) [16]. In questi casi il criterio di determinazione dell’indennità, indicato dall’art. 36 del T.U. [17], è il valore venale del bene.


Obiettivo dello studio

In questo lavoro viene proposta una soluzione alle questioni concernenti la stima di suoli urbani destinati dai piani urbanistici ad opere di pubblica utilità (ad esempio in zone F), realizzabili anche da privati, sottoposti perciò a vincoli “conformativi” che conferiscono ai suoli medesimi vocazione edificatoria, sia pure specifica, ai fini indennitari. Si tratta di aree per le quali usualmente si manifestano incoerenze estimative e conseguenti sperequazioni economiche per effetto delle lacune normative e delle incertezze giurisprudenziali esaminate in precedenza.

Il valore da determinare è il più probabile valore di mercato, quantunque in realtà un mercato per tali aree non esista giacché l’apposizione del vincolo inevitabilmente finisce per annullarne la domanda, e l’eventualità che le aree in questione siano oggetto di scambio è configurabile quasi esclusivamente con il trasferimento di esse collegato alla procedura espropriativa.

L’assenza di riferimenti di mercato, indispensabili comunque per operare la stima diretta di una qualsivoglia area – e pertanto anche delle aree destinate ad opere di urbanizzazione secondaria - impone la ricerca di elementi sui quali fondare un procedimento indiretto di stima.


Le basi teoriche e le ipotesi essenziali del procedimento

Il procedimento sviluppato in questo lavoro costituisce un’alternativa ad altri procedimenti di stima indiretta, quale ad esempio il valore di trasformazione [18], qualora –come per la stima diretta - non siano noti o rilevabili sul mercato i dati essenziali.

Il riferimento principale del procedimento di stima qui delineato è quello dell’analogia tra un’area edificata ed un’area urbanizzata. La prima è fisicamente distinguibile nell’area di sedime di un fabbricato e, eventualmente, in una parte residua accessoria, definitivamente “aggraffata” alla parte costruita. L’area urbanizzata anch’essa è distinta in una parte edificata e nell’altra a servizio di questa e funzionale ad essa.

In un lotto edificato, la parte accessoria, generalmente sfruttata come cortile, parcheggio, percorsi, etc., è priva di una propria autonomia e di una rendita catastale. Per essa è esclusa una diversa possibile destinazione [19]. Le due parti – area di sedime e area accessoria - sono in un rapporto essenziale ed imprescindibile che le rende giuridicamente ed economicamente indistinguibili [20] .

La differenziazione fisica all’interno di un lotto edificabile tra l’area di sedime del fabbricato e la parte residua è dovuta al rispetto delle prescrizioni urbanistiche, in particolare all’applicazione dell’indice di fabbricabilità fondiario (If). Questo rapporto – (metri cubi edificabili/superficie del lotto) contribuisce ad instaurare quel legame sostanziale ed economico tra le due parti.

Cambiando la scala di riferimento, passando quindi dal lotto edificabile alla zona omogenea di mercato [21], un’analoga interpretazione può essere data all’indice di fabbricabilità territoriale (It): volumi edificabili/superficie della zona omogenea. L’impiego di questo indice garantisce, con riguardo ad ambiti territoriali, quella dotazione di aree per servizi e infrastrutture, necessaria alla qualificazione della città e all’esistenza stessa delle aree cosiddette edificabili.

Così come le aree residue di un lotto edificato rappresentano la parte di un tutto reso inscindibile dal rapporto economico-giuridico di strumentalità e complementarietà funzionale, le aree ad attrezzature e infrastrutture non costituiscono un semplice accessorio a servizio ed ornamento delle aree destinate all’edilizia residenziale, ma insieme a queste compongono un corpo articolato in modo equilibrato ed inscindibile fra spazi urbani della collettività e spazi urbani privati.

Appare logico, di conseguenza, considerare le aree ad infrastrutture e ad attrezzature ricomprese in una zona omogenea urbana, come aree destinate all’edilizia residenziale, commerciale o produttiva, ovvero come parti di esse. Questa interpretazione è in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che nega, con diverse motivazioni, la distinzione tra specifiche destinazioni, ad attrezzature o ad infrastrutture, ai fini del calcolo dell’indennità.

Infatti, benché i suoli destinati all’urbanizzazione siano tecnicamente distinguibili in aree ad infrastrutture – ovvero a verde, a impianti, a parcheggi, ecc. – e in aree ad attrezzature – perciò per l’edificazione di scuole, impianti sportivi, ospedali, ecc. –, nell’insieme i suoli stessi costituiscono fattori indispensabili per garantire la funzione dell’edificato – residenziale, commerciale, ecc. – e gli standard sociali e qualitativi degli ambiti residenziali [22].

Una volta accettata l’idea che le aree ad attrezzature e infrastrutture sono parti essenziali del contesto urbano edificabile, il valore da definire per esse non può avere coordinate spaziali puntuali, ma derivare dall’intera zona omogenea di mercato, che al fine va distinta tra due addenti complementari: la componente infrastrutturale, data dal complesso delle aree ad attrezzature e ad infrastrutture pubbliche, e la componente insediativa privata, costituita dal complesso delle aree edificabili o edificate private. Insieme, le due componenti formano la superficie di una “zona omogenea”.

In effetti, il valore della componente insediativa privata è funzione della presenza nella zona della componente infrastrutturale. Rispetto ad uno standard minimo della componente infrastrutturale, la componente insediativa privata può acquisire o perdere aliquote di valore in relazione alla qualità ed alla densità delle infrastrutture e delle attrezzature che corredano il contesto urbano.

Le due componenti sono essenzialmente complementari, per cui le aree destinate ad infrastrutture e attrezzature “partecipano” al valore delle aree edificabili private. Con ciò tuttavia non deve intendersi che il valore della componente infrastrutturale si presenti interamente “trasferito” (rimanendo nullo) sulle aree edificabili private. Il problema, piuttosto, è quello di “accertare in concreto, con più penetrante ed attendibile indagine estimativa, il quantum di quella part...

Autore

Manganelli, Benedetto

Professore Associato di Estimo presso la facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata

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