Premessa
Com’è noto, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 348 del 24 ottobre 2007 (pubblicata sulla G.U.R.I., 1^ Serie speciale – Corte Costituzionale, n. 42 del 31.10.2007), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme contenute nell’art. 5 bis, commi 1 e 2, del D.L.. n. 333/92 convertito con modificazioni in legge n. 359/92, nonché nell’art. 37, commi 1 e 2, del D.P.R. n. 327/2001 e s.m.i..
In particolare, la predetta pronuncia della Consulta viene ad incidere sul criterio di calcolo della indennità di esproprio per le aree edificabili fino ad oggi attestatosi, come riconosce la stessa Corte, tra il 50 e 30 per cento del valore di mercato del bene, prescindendo peraltro dalla successiva imposizione fiscale (corrispondente al 20%).
Tale criterio di calcolo, difatti, è stato dichiarato incostituzionale in quanto in contrasto con il novellato art. 117, 1° comma, Cost. che, per quanto di interesse in questa sede, deve leggersi in combinato disposto con le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (per come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo) in base alle quali, nella materia de qua, ai soggetti incisi dalla procedura espropriativa, spetta un congruo ristoro del pregiudizio subito, non rinvenibile nell’applicazione dei criteri di legge, più sopra illustrati.
Effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma di legge o di un atto avente forza di legge
Allorquando la Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità di una norma di legge, sia essa legge dello Stato oppure legge regionale (ovvero di un atto avente forza di legge), la predetta norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia d’incostituzionalità nella Gazzetta Ufficiale [1].
La dottrina si è posto il problema se la sentenza della Corte, dichiarativa dell’incostituzionalità di una norma, possa essere applicata retroattivamente ed ha affermato che questa retroattività opera quantomeno in collegamento con la lite giudiziaria instaurata, in costanza della quale un giudice abbia sollevato eccezione d’incostituzionalità di una norma di legge, norma indispensabile per la pronuncia giudiziaria in corso [2]. Si afferma, infatti, che «ad evitare incongruenze inaccettabili, si deve ammettere che, almeno nel processo a quo, la legge dichiarata incostituzionale non possa più trovare applicazione” e che pertanto, “attraverso la disapplicazione, la dichiarazione di incostituzionalità si deve riflettere su fatti, situazioni e rapporti realizzatisi antecedentemente» [3].
La Corte costituzionale [4] ha anche, in più occasioni, affermato che il principio che si suole esprimere con il brocardo “tempus regit actum”, ricavabile dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al cod. civ. e dagli artt. 65 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602 e 16 del D.P.R. 8 agosto 1955, n. 666, significa che la validità degli atti è e rimane regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione e perciò, lungi dall’escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti anteriormente compiuti.
Ed ha specificato che, se non fosse intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale di norme disciplinanti la formazione di determinati atti, proprio alla stregua di tali norme dovrebbe in prosieguo operarsi, se e quando tuttora possibile, la valutazione degli atti posti in essere nel tempo in cui quelle norme erano in vigore: ciò che, invece, è vietato dopo la pubblicazione della sentenza della Corte, che delle norme stesse ha sostanzialmente accertato erga omnes la incostituzionalità.
Ma contemporaneamente è stato chiarito che occorreva stabilire i limiti della portata generale della sentenza d’incostituzionalità della norma, considerato che «la legge è entrata in vigore e si è imposta nell’ordinamento con la forza che le è propria, e che sulla sua base si sono venuti svolgendo i rapporti della vita sociale» [5].
In definitiva, sembra che in questa materia si sia proceduto per gradi: dopo un primo periodo in cui si tendeva a valutare la pronuncia d’incostituzionalità alla stessa stregua della successione delle norme nel tempo, per cui si riteneva che la retroattività valesse esclusivamente per il processo che aveva dato causa all’eccezione d’incostituzionalità; successivamente si fa strada l’opinione che la retroattività valga in linea generale, per tutte le ipotesi, sul presupposto che l’incostituzionalità della legge debba essere ritenuta tale fin dal momento in cui la legge è stata promulgata.
In questo modo si afferma solitamente [6] che «le leggi repubblicane dichiarate incostituzionali si considerano “annullate” e la sentenza di accoglimento della Corte costituzionale colpisce tali leggi sin dalla loro entrata in vigore»; mentre secondo questa dottrina «altrettanto pacifico è che a tale regola sfuggono i cosiddetti rapporti esauriti, vale a dire tutte quelle situazioni giuridiche che si sono definitivamente consolidate, vuoi per l’intervento di una sentenza passata in giudicato vuoi per lo spirare di termini di decadenza o di prescrizione o per altri motivi previsti nelle leggi dello Stato che valgano ad impedire la giustiziabilità del rapporto interessato dalla norma dichiarata incostituzionale».
Altra dottrina ha, infatti, chiarito che la decisione d’incostituzionalità esplica effetti retroattivi rispetto a situazioni e rapporti pendenti, cioè suscettibili di fornire materia per un giudizio [7]; mentre hanno il connotato di rapporti esauriti i seguenti: passaggio in giudicato della sentenza; prescrizione nel diritto privato; decadenza nel diritto pubblico; preclusione nei rapporti di diritto processuale [8].
In definitiva, si può affermare che, sul punto della retroattività della pronuncia della Corte costituzionale che dichiari l’illegittimità costituzionale di una norma, la dottrina accolga le seguenti conclusioni:
- nessun dubbio che la retroattività operi per la lite giudiziaria che ha determinato l’eccezione di incostituzionalità: il giudice pertanto riterrà la norma mai operativa per il caso di specie, decidendo la lite senza tenerne conto;
- la retroattività, più in generale, si riferisce anche alle situazioni giuridiche precedenti, salvi i rapporti esauriti [9], i quali continueranno ad essere disciplinati dalla norma dichiarata incostituzionale.
Le procedure espropriative in corso
Appare evidente da quanto precede che la definitività dei rapporti che preclude alle sentenze della Corte Costituzionale di operare può essere traguardata anche dal lato dei procedimenti amministrativi (e non solo dei processi in sede giudiziaria) pur nella ovvia considerazione che non sussiste un unico tipo di procedimento analogamente a ciò che avviene nei processi giurisdizionali in cui i vari passaggi (le fasi) sono rigorosamente scanditi in via codicistica.
In altri termini e così anche per quello di espropriazione per pubblica utilità, in ogni procedimento amministrativo non è sempre agevole individuare le parti, le fasi che possano attestare una definitività (totale o parziale) non suscettibile di riconsiderazione.
Nello specifico del tema in esame, si osserva che la nuova disciplina dell’espropriazione, inaugurata dal D.P.R. n. 327/2001 e s.m.i., a far data dal 30 giugno 2003, individua (art. 8) in modo preciso - a differenza del passato - le fasi della procedura sembrando attribuire, tra le altre, valore autonomo alla determinazione dell’indennità provvisoria quasi formalizzando un principio già presente in talune pronunce della Cassazione (Sez. I, 20 aprile 1994, n. 3770; ma anche indirettamente, Sez. I, 10 febbraio 2005 n. 2859) secondo cui tutto ciò che attiene alla determinazione dell’indennità provvisoria costituisce un sub-procedimento che si chiude con l’accettazione dell’indennità provvisoria “che resta così definitivamente fissata nella misura offerta ed accettata”.
a) Il caso dell’accettazione dell’indennità provvisoria di esproprio
Per quanto detto sopra, sembra doversi escludere che la sentenza n. 348/07 della Corte Costituzionale possa produrre un qualsivoglia effetto in relazione a quelle procedure espropriative in ordine alle quali l’espropriando abbia accettato l’indennità provvisoria in una data anteriore od almeno coincidente con quella (31 ottobre 2007) di pubblicazione della predetta sentenza sulla Gazzetta Ufficiale..
Ed invero, in aggiunta alla giurisprudenza sopra richiamata, la predetta conclusione sembra trovare una decisiva conferma nella disciplina contenuta nel T.U. degli Espropri; il riferimento è, all’evidenza, alla disposizione contenuta nell’art. 20, comma 5, a tenore della quale l’accettazione dell’indennità provvisoria è irrevocabile; ovvero, ancora, alla previsione di cui al comma 6 del medesimo articolo ove si faculta l’Amministrazione ad una immissione in possesso anticipata nel bene espropriando, sulla base dell’intervenuta accettazione dell’indennità provvisoria da parte del soggetto passivo della procedura (una previsione, questa ultima, che attribuisce all’accettazione dell’indennità provvisoria quasi i connotati del decreto che autorizza l’occupazione d’urgenza).
Pur tuttavia, occorre chiedersi, in chiave ovviamente problematica, se l’espropriando, che abbia accettato l’indennità provvisoria, calcolata sulla base dei criteri di legge, successivamente cadutati dalla pronuncia della Consulta, possa rimettere in discussione l’intervenuto accordo sul quantum dell’indennità, invocando il noto istituto della presupposizione (cfr., sul predetto istituto, tra le più recenti, Cass. Civ., sez. III, 24.3.2006, n. 6631); in altre parole, occorre porsi il problema del se l’accordo sull’indennità, al pari di qualsivoglia negozio giuridico, possa essere caducato (dichiarato nullo per mancanza di causa o risolto, secondo le formulazioni utilizzate dalla giurisprudenza civilistica) in quanto concluso sulla base di un presupposto oggettivo, comune ad entrambe le parti (espropriante ed espropriando) ma rimasto inespresso, costituito dall’esistenza di criteri legali di determinazione dell’indennità di esproprio per le aree edificabili, successivamente venuti meno per effetto della dichiarazione di incostituzionalità degli stessi.
Al proposito, la, invero scarna, giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, rinvenuta sul tema, sembra pervenire a conclusioni negative in ordine alla predetta problematica.
Per vero, la Cassazione, nelle occasioni in cui è stata chiamata a esprimersi, non si è pronunciata ex professo sulla predetta problematica atteso che le controversie, sottoposte al suo esame, non concernevano procedure espropriative bensì ipotesi in cui l’Amministrazione aveva optato, ai fini dell’acquisizione dell’area di sedime dell’opera, per il ricorso allo strumento privatistico della compravendita (cfr. Cass. Civ., sez. I, 11.3.2006, n. 5390 e Cass. Civ., sez. II, 4.7.1991, n. 7368).
Maggiormente significativa sembra, invece, una risalente sentenza del Tribunale di Trieste che - chiamato a pronunciarsi sui riflessi della decisione della Corte Costituzionale 19 luglio 1983, n. 223 su di una cessione volontaria, stipulata ai sensi dell’art. 12 della legge n. 865/71, nella quale erano state richiamate, ai fini della determinazione del corrispettivo, le norme della legge 29 luglio 1980, n. 385, dichiarate costituzionalmente illegittime con la predetta sentenza della Consulta – ha affermato che «Non può produrre la nullità di un contratto di cessione volontaria di beni soggetti alla procedura di espropriazione per pubblica utilità la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme sulla presupposizione delle quali il contratto fu concluso, sopravvenuta quando il rapporto si era già esaurito». (cfr. Tribunale di Trieste, sentenza 24.7.1985, Pres. Fermo, Est. Mezzina, Cronos s.r.l. c/ Comune di Trieste, pubblicata su Giustizia Civile, 1986, Parte Prima, pag. 242 e ss., con nota di O. Danese).
I giudici triestini, dopo avere richiamato i principi generali, fissati dalla giurisprudenza in ordine all’efficacia retroattiva delle pronunce della Consulta, dichiarative dell’illegittimità costituzionale di determinate norme, hanno rilevato che «la possibilità da parte della società attrice di invocare la sopravvenuta incostituzionalità della legge 385 del 1980 per effetto della già citata sentenza n. 283 del 1983, quale ragione incidente sulla operatività del contratto di cessione stipulato con la p.a., secondo il principio della cosiddetta presupposizione….. trova di per sé ostacolo nelle anzidette considerazioni circa i limiti di applicazione delle pronunce della Corte Costituzionale.
Altrimenti, l’accertamento, nella specie, della rilevanza dell’invocata presupposizione porterebbe a riconoscere il diritto del privato di liberarsi dagli effetti di un atto negoziale del tutto esaurito, richiamando l’istituto della presupposizione, in ogni caso di sopravvenuto mutamento della situazione presupposta, con gravi conseguenze per la certezza del diritto e per la stabilità dei rapporti giuridici già conclusi» (cfr., nello stesso senso, Cass. Civ., 18 dicembre 1984, n. 6626, espressamente richiamata nella sentenza di merito, più sopra citata, nella quale si legge che «l’atto negoziale con il quale i ricorrenti hanno accettato l’indennità di espropriazione offerta conserva la sua validità, anche se è venuta meno la norma giuridica vigente nel momento in cui essi si erano determinati a compierlo») [10].
Sarà compito della giurisprudenza (che, con ogni probabilità per non dire certezza, sarà nuovamente chiamata a pronunciarsi sul punto) confermare ovvero smentire le conclusioni di cui ai prefati risalenti precedenti giurisprudenziali.
b) Il caso di mancata accettazione dell’indennità provvisoria di esproprio
Argomentando implicitamente ed a contrario da quanto affermato con riferimento all’ipotesi sub a), si ricava che, se non vi è stata accettazione dell’indennità provvisoria, tale fase non potrebbe dirsi chiusa (con esaurimento del relativo rapporto giuridico) e l’indennità dovrebbe ancora ritenersi “provvisoria” (rectius: suscettibile di rideterminazione).
Al riguardo, deve però rilevarsi che si parla da più parti di “definitività in via amministrativa” allorché, a seguito del rifiuto dell’indennità provvisoria, la determinazione della medesima venga affidata a organi terzi (tali dovendosi considerare, oggi, non solo la già nota Commissione Provinciale Espropri bensì anche i tecnici, componenti la relativa terna, ai quali il nuovo art. 21 del D.P.R, n. 327/01 affida, in alternativa alla Commissione predetta, la valutazione in parola), i quali provvedono ad elaborare una relazione sulla misura dell’indennità non accettata da comunicare successivamente agli interessati nei modi e termini di legge.
Nel prosieguo dell’iter procedurale, dopo tale comunicazione, la nuova normativa sembrerebbe, a prima vista, atteggiarsi in modo diverso rispetto alla precedente (legge 865/71) la quale, tranne le ipotesi definite “anomale” dalla giurisprudenza, aveva previsto, in via ordinaria, nei casi di rifiuto, prima l’emanazione del decreto d’esproprio (art. 13) e poi la definizione della indennità in via amministrativa (art. 15), come peraltro esplicitato dalla successione cronologica degli articoli sopra indicati (cfr., in tale senso, Cass. Civ., Sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2238 e ulteriori riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti).
Nel nuovo sistema, la situazione sembra essersi rovesciata poiché la disposizione che regola i casi di determinazione dell’indennità definitiva in via amministrativa (art. 21, ma anche art. 27 del D.P.R. n. 327/01) precede quelle disposizioni in cui si disciplinano l’emanazione e l’esecuzione del decreto d’esproprio (arti 23 e 24).
Viene così spontaneo all’operatore domandarsi se sia mutato l’indirizzo legislativo con l’attribuzione alla soluzione amministrativa dell’indennità di un carattere in qualche modo esaustivo ad ogni effetto di tale fase, quantomeno una volta decorsi i trenta giorni dall’avviso con il quale gli interessati hanno notizia dell’intervenuta relazione di stima da parte dell’organo a ciò deputato (C.P.E. o “collegio peritale”).
Invero, una lettura più attenta delle norme sopraindicate, in combinazione con quelle contenute nell’art. 54 (disciplina dell’opposizione alla stima) ed alla luce delle considerazioni svolte dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato in sede di parere reso al governo sul nuovo T.U. espropri (parere 29 marzo 2001 n. 4), porta ad escludere che vi siano ragioni per ritenere mutato il sistema delineato in precedenza (e quindi valido ancora oggi).
Si ricava, infatti, dall’articolazione dell’iter procedurale:
- che nei trenta giorni dall’avviso di deposito della relazione di stima amministrativa dell’indennità, gli interessati possono prenderne visione e estrarne copia;
- che nei trenta giorni successivi, gli stessi debbono manifestare espressamente l’accettazione della somma stabilita degli organismi di cui sopra (ed in tal caso soltanto, si dovrebbe considerare chiusa la vicenda indennitaria); oppure addivenire al rifiuto della somma in parola la quale, per l’eccedenza rispetto all’indennità provvisoria rifiutata, andrà depositata presso la Cassa DD.PP. (oggi, presso la competente sezione di Tesoreria Provinciale dello Stato).
Ma è proprio dalla lettura dell’art. 54 T.U. che si può inferire che, in tale ultima ipotesi, non può considerarsi chiusa o “definitiva”, nel senso che qui viene in rilievo, la vicenda dell’indennità, esposta - in quanto, appunto, non definitiva - alle possibili azioni giudiziarie davanti alla Corte d’Appello (di cui viene confermata la competenza in unico ...