Autore
Favaretto, Vittorino
Funzione sociale della proprietà e indennizzo ragguagliato al valore venale
La modifica del DPR 327/2001, introdotta dalla legge finanziaria 2008 (Legge n. 244 del 24 dicembre 2007- art. 2, comma 89 e 90), a seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 24 ottobre 2007 n. 348, ripristina l’effettivo valore venale quale indennizzo per l’esproprio di aree edificabili (art. 37) .
E’ stato sottolineato che la sentenza della Corte Costituzionale 348/2007 lasciava margine per stabilire un abbattimento di tale valore perché “livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse, potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere il freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata”.
La funzione sociale della proprietà, sancita dal dettato costituzionale (art. 42, comma 2) dovrebbe, in buona sostanza, incidere sull’indennizzo nel caso di esproprio attuato per soddisfare interessi collettivi, anche se non nell’esagerata (50%) misura già contestata dalla CEDU.
E’ stato anche detto che il legislatore è stato molto timido nell’imboccare questa strada (cioè l’abbattimento del valore venale per assicurare la funzione sociale della proprietà) perché ha limitato lo scostamento (riduzione del 25%) solo al caso in cui l’espropriazione sia finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale.
Soffermiamoci sul concetto di funzione sociale attribuita alla proprietà privata, cercando di caratterizzarla con qualche esempio al fine di capire in quali casi di esproprio si potrebbe applicare la riduzione del valore venale. Sicuramente questo concetto significa che l’uso legittimo della proprietà privata non può essere funzionale a provocare effetti negativi alla società, quali per esempio l’accentramento in uno o pochissimi soggetti (fisici o giuridici) di determinate categorie di beni arrivando al monopolio o comunque creando delle turbative nel sistema sociale; neppure il concetto di privato e quindi intoccabilità della proprietà può essere tale da impedire la possibilità di realizzare interventi indispensabili alla collettività e alla fine, anche se con effetto mediato, utili al privato stesso.
La Costituzione indica già alcune modalità per assicurare la funzione sociale come sopra identificata. Nello stesso articolo 42 viene individuato un lacerante intervento sul principio della tutela della potestà che il proprietario deve mantenere sul suo bene: viene previsto l’esproprio, salvo indennizzo, nel caso quel bene serva a soddisfare interessi generali.
E ancora l’art. 43 statuisce che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
E infine l’art. 44 al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali prevede che la legge possa imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata.
Questi sono chiari esempi del perseguimento della funzione sociale attraverso la limitazione o addirittura la negazione del principio fondante la proprietà di un bene, che è quello di poterne disporre liberamente. Lo Stato che propone e garantisce tale fondamentale principio si riserva di limitarlo quando sono in discussione interesse generale o utilità sociale.
Ma in caso di esproprio per finalità di interesse generale non è l’esproprio stesso che garantisce la funzione sociale della proprietà? Quel proprietario, al contrario di tutti gli altri proprietari liberi di stare o meno sul mercato con il proprio bene, è costretto a venderlo, anche se non ne aveva alcuna intenzione, per salvaguardare interessi generali. Perché aggiungerci anche la privazione di parte del valore monetario di quel bene?
La riforma dell’art.37, a parere dello scrivente, è perciò perfettamente in linea con il dettato costituzionale, anche senza la riduzione del 25% del valore venale prevista quando l’espropriazione sia finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale. Si può dire che il legislatore con quella diminuzione abbia ulteriormente salvaguardato una funzione sociale della proprietà ma solo perché è correlata all’obiettivo di riforma economico-sociale e non a generici interessi generali.
Ecco perché la casistica per la quale sarà possibile applicare lo “sconto” è molto speciale e va soppesata con attenzione, anche da parte di chi potrebbe precisarne la portata (legislatore nazionale o regionale, giurisprudenza). Gli articoli 43 e 44 della Costituzione, prima citati per esplicitare importanti aspetti della funzione sociale della proprietà, rappresentano significativamente anche un momento di riforma economico-sociale. Se dobbiamo trovare altri esempi è su queste caratteristiche che si deve ragionare.
E se ci aggiungiamo che siamo nell’ambito di aree edificabili si capisce bene che non ci si può riferire né alla riforma agraria (anche se si tratta di esempio di scuola di riforma economico-sociale) né alla nazionalizzazione della rete di distribuzione dell’energia elettrica (altro caso classico). Peep e Pip poi non sono esempi di riforma economico-sociale semplicemente perché continua a permanere la libertà per il privato di intervenire nell’edificazione di aree residenziali e produttive e del conseguente libero mercato di alloggi e capannoni.
Precisato questo, non possono non essere condivise le preoccupazioni della Corte Costituzionale sui livelli troppo elevati di spesa per espropriare aree edificabili funzionali alla realizzazione di opere di interesse generale, interventi che di conseguenza sarebbero ridotti con il risultato di non far fronte alla tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione.
Ma se il problema è di limitare la spesa, questo risultato potrebbe già essere parzialmente ottenuto operando su due fronti: l’osservanza delle norma che impone di non pagare di più del valore ICI in precedenza dichiarato dall’espropriando e un attento esame delle modalità con cui viene determinato il valore venale del bene che si deve espropriare.
Se viene indicato un valore di mercato nei confronti del pubblico quando serve per pagare le tasse perché dovrebbe essere usato un valore di mercato diverso quando il bene deve essere venduto al pubblico? L’intervento normativo prima richiamato afferma proprio il principio della univocità del valore.
Forse sarebbe il caso di approfondire e di estendere, con adeguamento legislativo, questo principio a tutti i beni oggetto d’esproprio. Bisognerebbe applicare sempre, con i necessari adeguamenti, il principio del comma 7 dell’art. 37 del t.u.. Si pensi ai valori giudizialmente riconosciuti per aree a “vocazione edificatoria” che ai fini contributivi, continuano ad essere considerate agricole perché così afferma la certificazione urbanistica.
Stabilito che, per effetto di legge (la funzione sociale da assicurare), l’espropriato diventa un “normale” venditore, nella definizione del prezzo dovrebbero seguirsi le correnti regole di mercato che, per esempio, portano a concludere che l’acquirente non paga al venditore incrementi del valore del bene che l’acquirente stesso ha contribuito a realizzare, oltre a detrarre i vantaggi immediati e speciali che l’opera pubblica assicurerà all’espropriato (art. 33, comma 2, del t.u.).
Il locatario che acquista l’alloggio non riconosce al proprietario locatore il valore dell’impianto di condizionamento che egli stesso ha fatto installare esclusivamente a proprie spese. L’area edificabile già urbanizzata ha un valore superiore ad un area edificabile di espansione su cui dovranno essere investite delle somme per urbanizzarla, e l’entità d’investimento e variabile in funzione delle opere da realizzare a carico del lottizzante.
Il mercato attribuisce poi maggior valore, a parità di altre condizioni, all’area edificabile prossima alla strada con fermata del trasporto pubblico, piuttosto che alla scuola o altri servizi pubblici. Il privato venditore tiene per se quel valore aggiunto derivante dalla presenza di servizi e infrastrutture, che non ha realizzato lui, perché il compratore non ha titolo o forza per pretendere di non pagargli anche se non è un investimento che il venditore ha sostenuto.
Ma nel caso di compratore-ente espropriante non è forse l’ente pubblico cioè la collettività che ha già pagato quelle infrastrutture che producono il plus valore? Perché dovrebbe pagarlo nuovamente? Se è condiviso il fatto che il compratore non paga (il prezzo di mercato è ridotto di quell’ammontare) l’equivalente dell’urbanizzazione che poi dovrà realizzare, perché il “pubblico” deve pagare al venditore l’urbanizzazione che il pubblico ha già realizzato?
Non si tratta di indennizzare meno il bene espropriato per la funzione sociale della proprietà ma semplicemente di applicare le normali regole di mercato per determinare il valore di scambio.
Fondamentale diventa perciò quantificare tale valore aggiunto che non deriva dalla posizione geografica (area più o meno centrale) ma esclusivamente dalla vicina presenza di servizi pubblici, considerati irrinunciabili, e per la cui realizzazione non ha investito il venditore, se non pro-quota quale generico contribuente.
E forse bisognerebbe soffermarsi anche su alcuni automatismi, negativi per le casse pubbliche ma previsti dal t.u., che possono indurre un disallineamento rispetto al valore di mercato per la necessità di riconoscere una indennità aggiuntiva a titolo di coltivazione del fondo agricolo.
Ci si riferisce al caso delle aree edificabili per le quali è previsto che, oltre al valore venale, al proprietario coltivatore diretto o al fittavolo venga corrisposta una indennità pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato (art. 39, comma 9, del t.u.); anche per le aree agricole, a favore del fittavolo è prevista dall’art. 42 una indennità aggiuntiva sempre pari al valore del vam, indipendentemente dell’evoluzione nella definizione del quantum dovuto al proprietario (accettazione con il vam o determinazione del valore agricolo di mercato ). Infine la formulazione del comma 4 dell’art. 40 che, se non esclusivamente legata alla procedura bonaria come si ritiene debba essere, riserva comunque (cioè anche nel caso di determinazione del valore agricolo di mercato) al coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale l’aggiunta del vam.
In tutti i casi (aree edificabili e non edificabili) il prezzo che l’Ente espropriante si troverà a pagare sarà superiore al valore di mercato perché vi deve essere aggiunto il vam. A meno che il perito nella formulazione della stima, come succederebbe per una normale compravendita in cui l’acquirente vuole il bene senza gravame di oneri a qualsiasi titolo, non espliciti che il valore di mercato comprende anche la quota per la liquidazione del fittavolo o delle aspettative della figura del proprietario coltivatore diretto o piccolo imprenditore, quota che se liquidata separatamente a sensi del t.u., è almeno pari a ciò che l’ente espropriante liquida a tale titolo.
Fino ad ora, probabilmente condizionati dal meccanismo del dimezzamento del valore venale, invece sembra prevalere la tendenza a glissare su tale tematica ritenendola elemento estraneo al compito dell’estimatore (questioni giuridico-interpretative) invece che di sostanza della stima (elemento che concorre a formare il prezzo).
Interventi di riforma economico sociale. Un aiuto dalle prime sentenze?
Gli operatori del settore erano in attesa di qualche indicazione (regolamentare o giurisprudenziale) che permettesse di individuare con sufficiente certezza quali sarebbero potuti essere gli interventi di riforma economico-.sociale richiamati dal comma 89, lett.a) dell’art. 2 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (finanziaria 2008). Solo in presenza di questa tipologia di interventi è consentito di applicare la riduzione del 25% al valore venale dell’area edificabile per determinare l’indennità di esproprio.
Dopo tante ipotesi, ragionamenti e approfondite analisi sul significato e quindi sulla possibilità di concreta applicazione di questa nuova eccezione, rispetto al completo riconoscimento del valore venale quale indennità di esproprio, sono arrivate le prime sentenze della Corte d’Appello che applicano la novazione all’art. 37 del DPR 327/2001, introdotta dalla legge finanziaria 2008.
Si tratta di una sentenza della Corte d’Appello di Napoli, sezione I civile del 17 marzo 2008 ed una seconda, del giorno successivo, della Corte di Potenza.
Chi si aspettava delle circostanziate elaborazioni giuridiche sarà sicuramente rimasto deluso perché la stringata sinteticità delle motivazioni addotte per le conclusioni non sono, a parere dello scrivente, di grande aiuto per gli operatori.
Passi per la sentenza di Potenza che, pur con veloci passaggi, individua la problematica ed applica il dettato normativo per esclusione, ma quella di Napoli è, a dir poco, ardimentosa.
I giudici di Potenza, sottolineando che la nuova norma indica “non meglio identificati interventi di riforma economico - sociale”, e dando atto come sia da “escludere che essi corrispondano a tutti gli interventi di pubblica utilità (altrimenti non sarebbe rispettato il canone enunciato dalla Corte europea)” concludono che le opere di urbanizzazione (era la fattispecie oggetto del contendere) non possono comunque rientrare nella categoria degli interventi di riforma economico-sociale.
E’ noto che le opere di urbanizzazione rappresentano quasi la totalità delle “opere pubbliche” per le quali è consentito l’esproprio degli immobili necessari alla loro realizzazione e da qui la facile conclusione ad escludendum, conclusione del tutto condivisibile perché evita di ritornare alla immotivata riduzione applicata a tutti gli espropri.
Pare perciò opportuno soffermarsi sulla sentenza della Corte d’Appello di Napoli che invece applica la riduzione. Si riporta per praticità la parte della sentenza che motiva la decisione per capire le possibilità di applicazione della stessa ad altri casi: « ..Pertanto, tenuto conto del valore dei terreni ablati come sopra determinato ed applicata la riduzione del 25% in considerazione della natura del procedimento espropriativo, volto alla trasformazione delle aree da suoli agricoli a suoli tipicamente destinati ad insediamenti produttivi ed industriali, l’indennità definitiva di esproprio…».
La natura del procedimento espropriativo, afferma la sentenza, è tale da richiedere l’applicazione della riduzione; ma qual è la natura di questo procedimento?
La sentenza non illustra qual è la natura del procedimento ma spiega che è volto a facilitare la trasformazione di aree destinate all’agricoltura (siccome il confronto è sulla destinazione d’uso delle aree si preferisce non usare l’espressione aree agricole che, nella procedura espropriativa, assume tante altre connotazioni) a suoli tipicamente destinati ad insediamenti produttivi ed industriali.
In effetti il procedimento espropriativo di cui trattasi è relativo alla realizzazione di un “Centro polivalente di servizio per piccole e medie aziende commerciali e artigianali in località San Lorenzo” del Comune di Atripalda (AV). La realizzazione di questo intervento avrebbe dovuto incentivare l’insediamento di attività economiche in quella località all’immediata periferia della città di Avellino, con la quale non vi è soluzione di continuità. Non un esproprio in attuazione di un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.) ex art. 27 della legge 865/1971 o analoghe normative regionali, ma per un singolo intervento “promozionale”.
Il contesto fattuale consente perciò di capire meglio il significato logico che la sentenza voleva conseguire con l’espressione utilizzata. Del resto, essendo ovvio che con la realizzazione di una opera pubblica si cambia la destinazione d’uso dell’immobile su cui si interviene, i riferimenti alla trasformazione da area agricola ad industriale non possono riferirsi all’oggetto del contendere (peraltro per servizi) ma ad altro.
Non è la natura del procedimento espropriativo di cui stanno determinando l’indennizzo che porta i giudici a ritenere applicabile la riduzione riconoscendolo come intervento di riforma economico-sociale ma la finalità che si propone di ottenere la realizzazione dell’opera pubblica in questione. La sentenza attribuisce alla trasformazione delle aree da suoli agricoli a suoli tipicamente destinati ad insediamenti produttivi ed industriali la qualificazione di intervento di riforma economico-sociale.
Essendo storico il defatigante e lungo braccio di ferro sostenuto dai nostri legislatori con la Corte Costituzionale per mantenere la possibilità di non pagare integralmente il valore venale quale indennità d’esproprio di aree edificabili, concludere che è sufficiente che l’opera pubblica possa in futuro (che non dipende in alcun modo dalla P.A.) servire alla trasformazione delle aree vicine per beneficiare della riduzione dell’indennizzo sembra veramente eccessivo.
Tra l’altro l’intervento di cui trattasi potrebbe essere anche ascritto alla tipologia “urbanizzazioni” per le quali la sentenza di Potenza esclude la qualificazione di interventi di riforma economico-sociale.
E’ vero che la legislazione sugli espropri ha sempre riconosciuto la possibilità di detrarre dalla indennità di esproprio l’eventuale vantaggio immediato e speciale per la parte non esp...