Nascita e sviluppo del CPTED

CRIME PREVENTION THROUGH ENVIRONMENTAL DESIGN: NASCITA E SVILUPPO

Dopo circa un decennio durante il quale le idee di Jane Jacobs ed Elizabeth Wood sembravano essere passate pressoché inosservate, un criminologo della Florida State University di nome Clarence Ray Jeffery pubblicò, nel 1971, un libro intitolato Crime Prevention Through Environmental Design . Con questa formula, comunemente riassunta nell’acronimo CPTED, venne quindi battezzata la nuova scienza di natura interdisciplinare il cui oggetto, anticipato in estrema sintesi, consiste nello studio del modo in cui l’ambiente favorisce determinate tipologie di criminalità e delle modalità per intervenire sull’ambiente stesso per prevenirle. 

Benché sia il termine scelto da Jeffery a contraddistinguere ora questa scienza, sono tre i differenti approcci che vanno riuniti all’interno di tale categoria. Il primo è quello esposto nel suo libro, il secondo è costituito dalla Defensible Space Theory dell’architetto Oscar Newman, ed il terzo è quello elaborato dal dipartimento di ricerca criminologica del governo britannico sotto la guida di un altro criminologo, Ronald Clarke, ed è conosciuto come “prevenzione situazionale” .


Clarence Ray Jeffery


Jeffery accusò i sociologi dell’epoca di aver sopravvalutato le cause sociali del crimine, come le mancanze all’interno del contesto familiare e le influenze subculturali, e di aver tralasciato, invece, importanti fattori ambientali e biologici. Secondo Jeffery la prevenzione doveva essere incentrata sulla componente biologica del crimine (ad esempio occupandosi dell’esposizione al piombo, che secondo lui causava danni cerebrali nei bambini, spingendoli verso la delinquenza) e sulla riduzione delle opportunità ambientali per il crimine . Il cambiamento doveva dunque avvenire su due livelli: il primo era l’organismo umano, il secondo era l’ambiente fisico esterno, ed infine era indispensabile una interazione tra questi.
A essere precisi, c’è da aggiungere che in realtà, nell’edizione del 1971 di Crime Prevention Through Environmental Design, il criminologo si riferì in maniera alquanto limitata alla biologia e all’organismo umano, mentre fu nella pubblicazione successiva, quella del 1977, che si concentrò in modo più approfondito sulla genetica, sul funzionamento del cervello, passando dalla biologia moderna alla psico-biologia. Il nucleo tuttavia rimase invariato: l’unica via per prevenire la delinquenza era apportare modifiche all’ambiente fisico e coinvolgere i cittadini in attività di controllo e vigilanza .

Il lavoro di Jeffery si basava sui precetti che stanno alla base della psicologia sperimentale contenuti nella teoria moderna dell’apprendimento (in particolare è evidente l’influenza dello studio di Skinner , direttore del dipartimento di Psicologia negli anni in cui Jeffery frequentò la Indiana University ). Il concetto di CPTED emerse in seguito alle sue esperienze nella cornice di un progetto di riabilitazione a Washington D.C., il cui obiettivo era esaminare l’ambiente scolastico dei più giovani. L’approccio di Jeffery al CPTED enfatizzava il ruolo dell’ambiente fisico nella formazione di esperienze piacevoli e sgradevoli per l’aggressore, che avessero la capacità di influire sulle sue attitudini comportamentali. Il modello originario di CPTED era quindi basato sulla dualità stimolo-reazione (conosciuta come stimulus-response model o S-R model), secondo la quale l’organismo apprendeva dalle punizioni e dai “rinforzi” trasmessi dall’ambiente . Di conseguenza, sopprimendo il tornaconto derivante dalla condotta criminale, questa avrebbe cessato di presentarsi.

L’uscita del libro, già nel 1971 incontrò il disaccordo e l’ostilità di molti colleghi criminologi, che si indignarono in particolare per l’impostazione “biologica” data all’argomento, ma non solo: il suo contenuto attentava alle radici del sistema di giustizia criminale vigente e alle sue strategie tipiche, poiché metteva in secondo piano (se non in ultimo!) gli aspetti retributivi e di deterrenza della punizione, principi storici del diritto penale. Quando nell’edizione del 1977 approfondì ulteriormente l’aspetto biologico, non incontrò di certo nuove aperture. Tuttavia continuò ad elaborare il modello di CPTED e ne espose una versione particolarmente articolata nel 1990, con la pubblicazione del libro intitolato “Criminologia: un approccio interdisciplinare” : affermò che la risposta (ossia l’adattamento comportamentale) dell’organismo di un individuo all’ambiente fisico è essenzialmente un prodotto del cervello; e viceversa il cervello è un prodotto della genetica e dell’ambiente. L’ambiente non influenza mai il comportamento in modo diretto, ma solo attraverso il cervello. Qualsiasi modello di prevenzione della criminalità deve includere sia il cervello umano, sia l’ambiente fisico. Perciò gli elementi fondamentali di cui deve tenere conto il Crime Prevention Through Environmental Design sono il luogo in cui avviene un determinato evento criminoso, e la persona che ne è autore.  (......................omissis)


Oscar Newman


Come annunciato poco sopra, all’interno del discorso pronunciato da Clarence Ray Jeffery nel 1999, il suo approccio al Crime Prevention Through Environmental Design non era l’unico: quasi contemporaneamente, a nemmeno un anno di distanza, l’architetto Oscar Newman pubblicò la sua famosa critica alla tecnica utilizzata nel pianificare la costruzione delle case popolari negli Stati Uniti, e fu dal titolo del libro che la sua visione del CPTED prese il nome di “teoria dello spazio difendibile” (Defensible Space Theory) .

Prima di diventare cittadino statunitense nello stesso anno della pubblicazione, ossia nel 1972, Newman era cresciuto a Montreal, Canada, dove si laureò in Architettura all’età di ventiquattro anni. In seguito si specializzò in Europa, in particolare in Olanda, per poi trasferirsi definitivamente a New York; lì aprì un proprio studio di architettura e fondò un’impresa no-profit di ricerca di cui da allora è presidente: The Institute for Community Design Analysis .

Nei suoi anni di studi maturò serie critiche nei confronti dei progetti di residenze popolari, attribuendo la colpa dell’alto tasso di criminalità presente in quelle aree al loro aspetto e alla loro forma. Puntava il dito soprattutto contro le proporzioni enormi e disumane degli edifici, contro le loro linee dure che trasmettevano l’idea che a nessuno importasse nulla di quel luogo, e contro la loro posizione: si trovavano spesso in aree con elevati livelli di delinquenza. Le grandi costruzioni rendevano difficile ai residenti conoscersi ed identificarsi fra loro, e a maggior ragione era impossibile distinguere chi fosse un intruso e chi no. Questi fattori non potevano che attirare ulteriore delinquenza, poiché nessuno aveva timore, in un tale ambiente, di essere individuato ed arrestato. Newman si concentrò quindi sull’elaborazione di un modello che incoraggiasse i residenti ad adottare un comportamento più “territoriale”, rendendoli capaci di sorvegliare le aree pubbliche intorno alle loro abitazioni . Affermò, infatti, che l’obiettivo del Defensible Space era «assecondare quel senso latente di territorialità e comunità tra gli abitanti, per fare sì che tali caratteristiche si traducano in assunzione di responsabilità da parte degli abitanti stessi al fine di preservare un ambiente di vita sicuro e stabile» .

Così come Jeffery , anche altri criminologi e sociologi si pronunciarono senza mezzi termini contrari alla tesi dell’architetto, accusandolo di fare eccessivo affidamento sul “determinismo ambientale”, oltre ad aver giustapposto in modo semplicistico il comportamento territoriale degli animali al comportamento umano . Nonostante ciò, forse perché la tesi di Newman era così in sintonia con le idee di Jane Jacobs, alle quali diede una schematizzazione più concreta, o forse perché la sua visione appariva più lineare, più facilmente realizzabile e con risultati più a breve termine rispetto al CPTED di Jeffery, nel giro di due anni dalla pubblicazione del suo libro gli fu possibile dare inizio a due progetti dimostrativi e, l’anno seguente, la Law Enforcement Assistance Administration stanziò fondi di vari milioni di dollari affinché si studiasse l’andamento della criminalità di una particolare via commerciale, di un’area residenziale e di una scuola. Terminati tali progetti, si decise di eseguire la pianificazione di alcune zone residenziali popolari secondo le coordinate proposte da Newman .

Secondo l’architetto, tutti i programmi all’interno del Defensible Space avevano, e tuttora hanno, uno scopo comune, ossia restaurare l’aspetto esteriore delle comunità residenziali in modo tale che i loro abitanti possano recuperare il controllo delle loro case. E per “case” s’intende non solo il singolo edificio che ospita l’unità abitativa, bensì le strade, i vicoli, i cortili, gli ingressi, i corridoi e tutto ciò che lo circonda e collega con altri edifici. Tutti i programmi volevano, e vogliono, aiutare le persone a preservare le aree nelle quali svolgono la loro vita quotidiana e si esprimono socialmente.

Il concetto di Defensible Space fa infatti riferimento alla “auto-assistenza” (self-help) piuttosto che contare sull’intervento delle istituzioni. In questo modo non viene indebolito dalla improvvisa mancanza di risorse pubbliche come invece succede spesso in altri settori . Dunque dipende dal coinvolgimento dei residenti quanto si riesca a ridurre il tasso di criminalità e a rimuovere la presenza di delinquenti dalla zona. Questo modello aiuta anche ad integrare persone di differente estrazione sociale, razza e religione, affinché possano lavorare gomito a gomito per ottenere un mutuo beneficio. Soprattutto per i meno abbienti, il Defensible Space può costituire un’occasione unica per essere introdotti in un ambiente con buon livello di benessere sociale e per comprendere come le loro stesse azioni abbiano la capacità di cambiare le cose e portarli a contatto con realtà migliori.

Nel suo libro intitolato Creating Defensible Space Oscar Newman parlò di come fosse maturato in lui il concetto di “spazio difendibile”, quando a metà degli anni Cinquanta dovette assistere alla rovina del complesso di case popolari di Pruitt-Igoe, nella città di Saint Louis, un insieme di alti palazzi che ospitava 2740 unità abitative. Tale progetto era da poco stato ultimato ed era stato disegnato da un noto architetto dell’epoca che aveva seguito pedissequamente le direttive di Le Corbusier e del Congresso Internazionale degli Architetti Moderni. Benché la densità non fosse eccessivamente elevata (circa 150 unità per ettaro), gli abitanti erano distribuiti in palazzine a torre alte undici piani, poiché l’idea era di mantenere il pianterreno ed il primo piano liberi per le attività comuni. Tra un edificio e l’altro doveva scorrere “un fiume di alberi” ed al terzo piano di ciascuno doveva esserci uno spazio per i corridoi comunitari con una lavanderia, una sala di ricreazione ed un ripostiglio per i rifiuti, con scivolo per i sacchi della spazzatura.

Molti degli appartamenti vennero occupati da famiglie di un solo genitore e con l’assistenza dei servizi sociali. Le aree comuni presto divennero poco sicure, poiché non venivano associate alle unità abitative e i residenti non vi si potevano identificare. Ciò che doveva essere un “fiume di alberi” si trasformò presto in un deposito di vetri e spazzatura. Le cassette della posta al piano terra furono oggetto di vandalismo, così come la zona della lavanderia e le aree sociali, mentre i corridoi, gli ingressi, le scale e gli ascensori si rivelarono un luogo pericoloso per cui passare. Le pareti si ricoprirono di graffiti e sporcizia lasciata da residenti e non solo, e le donne dovettero iniziare a riunirsi in gruppi per portare i bambini a scuola e fare la spesa .

Il progetto di Pruitt-Igoe non giunse mai a vedere occupato più del 60% degli appartamenti, fu demolito circa un ventennio dopo la sua costruzione e purtroppo non fu un caso isolato: si trattò piuttosto di un caso esemplare che cominciò a ripetersi in altri luoghi del paese . Ciò che stimolò particolarmente l’attenzione di Newman fu la presenza, dall’altro lato della strada rispetto a Pruitt-Igoe, di un altro complesso di case: Carr Square Village. Quest’ultimo era abitato dallo stesso tipo di popolazione del primo, tuttavia era sempre rimasto completamente occupato e tranquillo durante la nascita, la vita e la morte del progetto vicino. Fu osservando questo fenomeno che l’architetto si domandò: «A parità di variabili sociali nei due complessi, quali erano le differenze fisiche che hanno permesso a uno di sopravvivere mentre l’altro è andato distrutto?» .
Oscar Newman, camminando per Pruitt-Igoe nel periodo con i più alti picchi di vandalismo e criminalità, si domandò chi mai stesse vivendo in quel complesso. Escludendo le aree pubbliche interne, c’erano alcune parti che avevano mantenuto un aspetto pulito e sicuro: dove infatti solo due famiglie condividevano un pianerottolo, questo era ordinato e ben tenuto, così come lo era l’interno degli appartamenti, che magari erano semplici e modesti, ma sempre con grande dignità.

Gli parve chiaro che gli abitanti si prendevano cura esclusivamente degli spazi che fossero considerati di loro pertinenza, mentre era evidente che non provavano alcun sentimento d’identità o controllo per gli altri spazi che condividevano con altre venti o cento famiglie. Erano troppi per poter sviluppare un accordo comune sul comportamento da tenere nelle aree sociali ed era impossibile addirittura identificare chi vivesse lì e chi no.

Era risaputo che esistessero anche complessi delle stesse dimensioni, occupati dal ceto medio, in cui invece non si presentavano tali problematiche. Newman ne identificò la causa nel fatto che in questi quartieri si ottenessero fondi dagli abitanti, destinati all’assunzione di custodi, portieri ed amministratori con l’incarico di controllare e mantenere in buono stato le aree pubbliche. Ovviamente nei complessi popolari tali fondi mancavano completamente, ed era già tanto se potevano fare affidamento su cinque o sei persone addette alla manutenzione. L’intuizione alla base del Defensible Space nacque dunque da una fatidica domanda che Newman porse a se stesso: è possibile progettare delle case popolari prive di qualsiasi area pubblica interna ed in cui qualsiasi ambiente sia affidato a singole famiglie? (..................omissis)


Ronald Clarke


Ronald Clarke è il criminologo che dal 1968 al 1984 si trovò a capo della Home Office Research and Planning Unit, il dipartimento di ricerca criminologica del governo britannico . Fu in quel periodo, in particolare a metà degli anni Settanta, che maturò lì il terzo approccio al disegno ambientale come metodo per prevenire la criminalità. Fu battezzato Situational Crime Prevention e, come Clarke stesso affermò, a differenza del CPTED e del Defensible Space, tale approccio non si concentrava in modo principale sulla progettazione architettonica o sull’ambiente costruito, e nemmeno si focalizzava esclusivamente su delitti come furti e rapine. Piuttosto, si trattava di un approccio più generico orientato alla riduzione delle opportunità per qualsiasi tipo di atto criminale, che avvenisse in qualsiasi tipo di contesto, inclusi il dirottamento di aerei, frodi, telefonate oscene, violenza in locali pubblici o domestica, così come i comuni reati predatori . Si può quindi dire che questa visione incorporava l’intervento sull’ambiente fisico all’interno di una gamma molto più ampia di provvedimenti volti a prevenire non solo la criminalità, ma anche tutta un’altra serie di manifestazioni di devianza, senza fare riferimento ad alcun luogo specifico.

Clarke scrisse che non si poteva comprendere il concetto di prevenzione situazionale senza partire da una delle colonne portanti della Psicologia, che così riassunse: «Il comportamento è un prodotto dell’interazione tra una persona ed un contesto» . Tradotto in termini criminologici, significa che un crimine, che è una forma di comportamento, ha luogo quando qualcuno, criminalmente motivato, incontra o crea un’opportunità criminale: sono dunque necessarie sia la motivazione che l’occasione perché ciò avvenga. Il compito della prevenzione situazionale ha ad oggetto il secondo aspetto illustrato, ossia mira a ridurre le opportunità criminali. Tale affermazione, soprattutto in quell’epoca, fu accolta da un forte scetticismo. Fino ad allora i criminologi avevano visto la principale causa della criminalità nell’eredità genetica del singolo reo, nella sua psicologia, nel suo nucleo familiare e nelle sue condizioni socio-economiche, e avevano sempre ritenuto che le opportunità giocassero un ruolo decisamente secondario nella scelta di delinquere, influenzandone solo il “dove” e il “quando” ma non il “se”. Tali convinzioni, tuttavia, non tenevano sufficientemente conto, secondo Clarke, della basilare regola poco sopra enunciata .

La teoria che ebbe maggior peso nello sviluppo del concetto di Situational Crime Prevention era la cosiddetta prospettiva della scelta razionale (Rational Choice Perspective), che utilizza il paradigma fondamentale della scienza economica (soprattutto con riferimento a Becker) e lo applica all’azione criminale. In tale paradigma si sostituiscono le formule matematiche con il processo decisionale del criminale: si parte dal presupposto che costui è un essere razionale, che sceglie spontaneamente di commettere una determinata azione dopo averne valutato attentamente rischi e benefici . Ovviamente in questo caso l’azione è una condotta delittuosa, i benefici sono costituiti da denaro, status, sesso, eccitazione o qualsiasi altro risultato che la persona stia ricercando, mentre i rischi possono essere un arresto, una punizione, una perdita, o addirittura la morte.
Fra tutti gli studi che suggerirono a Clarke l’idea che fosse da ricercare nell’ambiente, e nelle sue variabili, l’origine delle opportunità che si presentano agli occhi del potenziale reo, se ne sono scelti due poiché particolarmente paradigmatici.

Il primo, peraltro, non era neppure uno studio su un fenomeno criminoso, bensì sul suicidio che, «come la maggior parte dei delitti più seri è visto come un atto profondamente motivato, commesso solo da persone davvero infelici o disturbate» ; eppure, per quanto condizionato dalla psicologia e dall’emotività, anch’esso presenta un sorprendente legame con le opportunità ambientali. Venne preso in considerazione il tasso di suicidi in Inghilterra e Galles tra gli anni Sessanta e Settanta. Ad esempio, nel 1958, almeno il 50% delle 5.300 persone che si erano uccise in quel territorio lo aveva fatto con il gas domestico utilizzato per cucinare e riscaldare. Esso conteneva alti livelli di monossido di carbonio, un gas estremamente velenoso, e bastava infilare la testa nel forno o appoggiarla sui fornelli, dopo aver chiuso ogni spiraglio intorno a porte e finestre, per morire in pochi minuti. Durante gli anni Sessanta s’iniziò tuttavia a ricavare il gas domestico dall’olio invece che dal carbone, fattore che lo rese decisamente meno velenoso, e il tasso di suicidi per gas cominciò a scendere.
Nel 1968 esso fu lentamente rimpiazzato...(omissis)



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