L’esecuzione del provvedimento di acquisizione sanante: il pagamento o deposito dell’indennizzo

Conformemente alla motivata liquidazione, nel dispositivo del provvedimento di acquisizione coattiva sanante si deve disporre il pagamento dell’indennizzo, che dovrà avvenire entro trenta giorni. 



L’art. 43 conteneva, alla lett. b) del comma 2, una previsione parzialmente sovrapponibile a quella attuale: anche il provvedimento acquisitivo emanabile all’epoca, infatti, doveva quantificare la somma dovuta e disporne il pagamento entro il medesimo termine di trenta giorni. L’art. 42-bis riprende in parte la norma previgente, ad esempio per quanto riguarda il suddetto termine entro cui deve intervenire il pagamento, che pure era considerato assai breve. Rispetto all’art. 43, tuttavia, la riforma del 2011 introduce anche alcune novità tutt’altro che trascurabili.

Anzitutto, non può sfuggire che il comma 4 dell’art. 42-bis prescrive il pagamento delle sole somme «di cui al comma 1», il quale contempla formalmente il solo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, ma non il ristoro del pregiudizio sofferto a causa dell’occupazione illegittima, previsto invece dal comma 3. Si potrebbe dunque ipotizzare che quest’ultimo rimanga a latere fino alla richiesta del privato, da svolgere se del caso addirittura in sede processuale. In senso contrario, tuttavia, si è già rilevato che il riferimento al comma 1 deve essere inteso come comprensivo del comma 3, che nel comma 1 viene implicitamente richiamato. Di conseguenza, il pagamento previsto dalla seconda e dalla terza parte del comma 4 deve riguardare tutto l’indennizzo, ivi inclusa la sua controversa componente di cui al comma 3, così come ritenuto in effetti dalla giurisprudenza amministrativa.

In secondo luogo, il provvedimento ex art. 43 comportava di per sé il passaggio del diritto di proprietà, come si ricavava dalla successiva lett. e) del medesimo comma 2. Il provvedimento ex art. 42-bis, invece, comporta il passaggio del diritto di proprietà «sotto condizione sospensiva del pagamento», secondo una regola che in dottrina è stata ritenuta discutibile, ma che in realtà è conforme al principio di giustizia sostanziale «prima paghi e poi diventi proprietario», che è tipica del decreto di esproprio. Il pagamento del dovuto, dunque, acquista oggi un rilievo totalmente sconosciuto alla prima acquisizione coattiva sanante, costituendo la condicio iuris dell’acquisizione alla mano pubblica: fino al pagamento, in altre parole, il provvedimento è valido, ma inefficace, e il bene rimane di proprietà privata, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza amministrativa più recente.

Diversamente dal vecchio art. 43, infine, nella nuova acquisizione coattiva sanante è oggi espressamente previsto, in alternativa al pagamento dell’indennizzo, che esso sia depositato nei modi e nelle forme di legge. Anche questa novità avvicina l’indennizzo ex art. 42-bis all’indennità di esproprio. In particolare, l’amministrazione è oggi onerata «del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14». Fra i vari casi di deposito dell’indennità (che è previsto, ad esempio, in caso di sussistenza di diritti di terzi), viene dunque richiamata la sola ipotesi di deposito dell’indennità provvisoria che non è stata accettata dal proprietario entro trenta giorni dalla notifica: in tal caso, com’è noto, l’art. 20 consente all’autorità espropriante di versare l’indennità presso la Cassa depositi e prestiti (ora Ministero dell’Economia e delle Finanze - Ragionerie Territoriali dello Stato) e quindi, dopo il versamento, emettere ed eseguire il decreto di esproprio.

Traslata nell’art. 42-bis, ad ogni modo, la previsione desta perplessità, perché qui non c’è nessuna indennità da accettare. Con ogni probabilità, il legislatore del 2011 intendeva prendere in esame l’ipotesi in cui il proprietario, non volendo scendere a patti con l’amministrazione, non accetti di ricevere il pagamento, ad esempio perché ritiene incongrua la somma quantificata e per questo si rifiuta di trasmettere le proprie coordinate bancarie, in attesa di adire l’autorità giudiziaria. In questo caso l’amministrazione ha tutto l’interesse a procedere speditamente, perché si è detto che fino al pagamento non diventa proprietaria ed anzi le somme continuano ad aumentare. Il proprietario, invece, potrebbe essere tentato di fare ostruzionismo e rifiutarsi di accettare un pagamento che, suo malgrado, è ormai dovuto per legge.

Ora, questa ipotesi, a rigore, configurerebbe un caso di mora credendi, regolata dal codice civile. Per accelerare la produzione dell’effetto reale, però, il legislatore viene in aiuto all’amministrazione e le concede di depositare la somma presso la Ragioneria competente per territorio, esattamente come fa con l’indennità provvisoria di esproprio non accettata nel termine di legge. Nel vigore dell’art. 43, del resto, la dottrina più lungimirante, in ipotesi di «rifiuto della somma quantificata», riteneva già applicabile in via analogica il comma 14 dell’art. 20 d.P.R. 327/2001.

Da quanto precede risulta che il termine di trenta giorni fissato dalla seconda parte del comma 4 delinea una scadenza che grava più sul privato che sull’amministrazione. Stante la possibilità del deposito, in altre parole, oggi è onere del privato adoperarsi affinché il pagamento possa avvenire nel termine di legge. Viceversa l’autorità procedente, pur a fronte di un termine non perentorio (dal momento che i termini che gravano sulla p.a. sono perentori solo se così dispone la legge), per regola di buona amministrazione non potrà rimanere inerte di fronte al suo inutile decorso: qualora il privato non “accetti” nei trenta giorni di legge, pertanto, l’autorità procedente si dovrà comunque attivare per adempiere, segnatamente ricorrendo al deposito presso la Ragioneria Territoriale dello Stato.

Va detto peraltro che una parte della giurisprudenza sembra lasciare intendere che il deposito consenta l’adozione del provvedimento acquisitivo e dunque ne costituisca un presupposto, con importazione a questo punto totale della tradizionale sequenza “offerta-deposito-provvedimento” già nota per l’espropriazione legittima. Questa impostazione, alla luce della lettera della legge, non sembra però condivisibile: dal tenore dell’art. 42-bis d.P.R. 327/2001 è infatti chiarissimo che il deposito dell’indennizzo, com’è tipico delle condizioni sospensive, segue l’emissione del provvedimento, condizionandone la sola efficacia. Lo schema scelto dal legislatore, dunque, non è la sequenza “offerta-deposito-provvedimento” (riservata alla sola procedura di espropriazione legittima), bensì la sequenza alternativa “provvedimento-offerta-deposito”, già noto alla procedura accelerata di cui all’art. 22 del testo unico.

Non è fuori luogo sottolineare, infine, che l’effetto acquisitivo è condizionato al deposito, non allo svincolo delle somme depositate. Pertanto la giurisprudenza amministrativa, oltre a convalidare il diniego di svincolo in caso di contestazioni processuali del provvedimento acquisitivo, ha ritenuto che le vicende riguardanti lo svincolo non incidano né sulla validità né sull’efficacia della procedura acquisitiva, salve però le normali tutele concesse al privato a fronte di uno svincolo denegato in tutto o in parte.


La ritenuta in fase esecutiva: il trattamento fiscale dell’indennizzo


Come evidenziato in sede introduttiva, uno degli occasionali interventi legislativi in materia di occupazioni illegittime è stato storicamente dettato dall’interesse dell’Erario per le somme di denaro percepite dal privato a fronte della regolarizzazione dell’illecito dell’amministrazione: sin dall’ultima manovra economica della Prima Repubblica, quindi, sul piano fiscale il risarcimento da occupazione acquisitiva è stato espressamente parificato all’indennità di esproprio, così da assoggettare anche quella somma di denaro, a dispetto della sua natura risarcitoria, alla ritenuta d’acconto tipica delle espropriazioni legittime.

Questa impostazione è stata sostanzialmente confermata dall’art. 35 del testo unico, il quale, contestualmente alla prima acquisizione coattiva sanante, la cui contropartita aveva sicuramente natura risarcitoria, ha assoggettato il «risarcimento del danno per acquisizione coattiva» allo stesso trattamento fiscale dell’indennità di esproprio e del corrispettivo da cessione volontaria: tutte queste somme di denaro costituiscono dunque redditi diversi, con applicazione dell’ordinaria ritenuta d’acconto del 20% (salva la facoltà di optare in seguito per la tassazione ordinaria) purché l’opera sia inclusa in ZTO A, B, C o D, e purché non si tratti di soggetto che esercita impresa commerciale. E non è fuori luogo evidenziare che la Corte EDU ha ritenuto legittima tale ritenuta, anche in ipotesi di occupazione illegittima, salva solo l’eventualità in cui l’illegittimità abbia comportato l’applicazione di un regime fiscale più sfavorevole.

Sennonché, non può sfuggire ad un’attenta lettura dell’art. 35 del testo unico che esso, nell’ambito di un’elencazione ritenuta tassativa, parifica all’indennità di esproprio (oltre al corrispettivo di cessione volontaria, all’indennità di occupazione ed ai relativi interessi), il solo «risarcimento del danno per acquisizione coattiva». L’uso dell’espressione “risarcimento” è ovviamente dovuto alla contestualità fra l’art. 35 d.P.R. 327/2001 ed il vecchio art. 43, il quale definiva l’introito del privato in termini appunto di risarcimento del danno : avendo a mente quella forma di acquisizione coattiva sanante, il legislatore del testo unico ha ovviamente utilizzato la stessa terminologia. Come più volte evidenziato, tuttavia, il “risarcimento” è scomparso con l’art. 43: l’art. 42-bis contempla una contropartita monetaria che ha natura indennitaria e la Suprema Corte ha chiaramente precisato che tale natura riguarda tutte le componenti dell’indennizzo, ivi incluse quelle teoricamente riconducibili all’alveo del risarcimento del danno. A rigore, pertanto, la ritenuta del 20% si dovrebbe applicare oggi, oltre che negli altri casi di legge, soltanto a fronte di un «risarcimento del danno per acquisizione coattiva» che però, se esiste, di sicuro non si può ravvisare nella contropartita monetaria dell’art. 42-bis.

Ora, è evidente che questa incongruenza dipende dal fatto che il d.l. 34/2011, nell’introdurre “con urgenza” l’art. 42-bis nel testo unico, non ha eseguito la benché minima operazione di coordinamento fra la nuova norma e quelle previgenti. Così ragionando si può ritenere che l’indennizzo sia soggetto ancora oggi a ritenuta, esattamente come vi era soggetto, in passato, il corrispondente risarcimento del danno. Tuttavia, posto che la Costituzione subordina l’imposizione di prestazioni patrimoniali ad una previsione di legge, non è affatto escluso che l’applicazione ad un indennizzo di una ritenuta prevista per i risarcimenti (e non per gli indennizzi) generi un contenzioso che, a ben vedere, si sarebbe potuto evitare con una semplice operazione di coordinamento in sede di introduzione legislativa della nuova acquisizione coattiva sanante.

In ogni caso, non è fuori luogo evidenziare che l’art. 35, diversamente dall’art. 42-bis, non ha irretroattività illimitata, ma risente della limitazione temporale comune a tutte le altre norme del testo unico. Qualora l’indennizzo sia corrisposto per un progetto dichiarato di pubblica utilità prima del 30.06.2003, pertanto, la ritenuta sembra comunque dovuta, ma a rigore non in forza dell’art. 35 d.P.R. 327/2001, bensì dell’art. 11 della l. 413/1991. E fra le due norme intercorrono alcune differenze: mentre la norma vigente si accontenta del fatto che sul terreno «sia stata realizzata» l’opera, ad esempio, la disciplina abrogata richiedeva che i terreni acquisiti fossero a ciò «destinati», che è cosa ben diversa.


Il pagamento o deposito degli enti dissestati


Risulta recentemente emerso un contrasto di giurisprudenza in ordine al pagamento o deposito dell’indennizzo da parte di una particolare categoria di enti locali, ossia gli enti finanziariamente dissestati.

Per stato di dissesto finanziario si intende la infelice condizione in cui versa l’ente locale che non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili, ovvero che non riesce a far fronte a crediti liquidi ed esigibili neppure con provvedimenti di riequilibrio o di riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio. In tal caso, il Consiglio comunale dichiara il dissesto finanziario, dopodiché il Presidente della Repubblica nomina un organo straordinario di liquidazione, che provvede al ripiano dell’indebitamento pregresso. E nel frattempo le pretese economiche antecedenti al dissesto rimangono insuscettibili di esecuzione forzata, così come sono sospese laddove, anche per prevenire il dissesto finanziario, l’ente locale abbia fatto ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.

Ora, fra queste pretese “congelate” rientrano naturalmente gli indennizzi dovuti in forza di provvedimenti già emanati: sarà infatti l’organo straordinario di liquidazione, come per legge, a gestire il relativo adempimento.
La giurisprudenza, tuttavia, ha avuto modo di ribadire più volte che, fermo restando ciò che precede, il dissesto finanziario non impedisce all’ente locale di emanare nuovi atti di acquisizione coattiva sanante, con riguardo ai quali, però, si registrano posizioni discordanti.

Un primo orientamento, infatti, valorizza senza remore l’elemento squisitamente formale costituito dal momento storico dell’insorgenza dei debiti, ossia il fatto che essi, benché derivanti da procedure acquisitive pregresse, sono oggettivamente nuovi : così ragionando, tali debiti risultano sottratti alla competenza dell’organo straordinario di liquidazione e devono essere soddisfatti con le risorse di bilancio ordinario.

Un indirizzo di segno contrapposto, invece, valorizza sul piano sostanziale la circostanza che i debiti ex art. 42-bis, per quanto formalmente nuovi, sono correlati ad un fatto antecedente. I provvedimenti acquisitivi emanati in seguito al dissesto, quindi, incorrerebbero nella suddetta fase di quiescenza, che comporta anche l’estinzione dell’eventuale giudizio di ottemperanza, e saranno liquidati dall’organo straordinario di gestione.

Il contrasto fra questi due indirizzi è stato rilevato anche dalla Sezione IV del Consiglio di Stato, che ha rimesso la relativa problematica all’Adunanza Plenaria, senza mancare però di esprimere la propria preferenza per l’orientamento sostanzialistico. E benché tale orientamento non sia riuscito a convincere la dottrina di settore, esso è rapidamente prevalso in sede di Adunanza Plenaria, laddove si è deciso di valorizzare in particolare, in luogo del dato formale del momento in cui è insorto il debito, il momento in cui si è verificata l’occupazione illegittima che deve essere regolarizzata.


Il pagamento o deposito degli enti non responsabili


Un’altra ipotesi particolare di pagamento o deposito dell’indennizzo è quella nella quale l’autorità competente all’emanazione del provvedimento acquisitivo non coincida con quella che ha provocato l’occupazione illegittima da sanare.

Ciò può accadere per varie ragioni, ad esempio perché l’occupazione è avvenuta in forza di una delega: in tale ipotesi, infatti, il pagamento non dovrà essere disposto ed eseguito dall’autorità occupante, bensì da quella che acquisisce il bene.
Se questo è pacifico, però, i relativi riflessi nei rapporti interni fra le parti pubbliche risultano controversi. Secondo un primo indirizzo, infatti, l’autorità che acquisisce il bene pubblico dovrà sopportare in via definitiva i costi dell’acquisizione. Questa impostazione, tuttavia, finisce per neutralizzare la colpevolezza dell’ente delegato. Appare dunque maggiormente condivisibile l’opinione che, nel silenzio della legge, autorizza l’ente pagante ma non responsabile ad agire in rivalsa nei confronti dell’autorità responsabile.

È invece esclusa la rivalsa sugli assegnatari dei PEEP ed parimenti escluso che l’ente competente, ritenendosi non responsabile, non provveda al pagamento del dovuto indennizzo, con un contegno che la giurisprudenza, anzi, stigmatizza molto duramente : il provvedimento deve essere emanato e il pagamento (o deposito) deve essere effettuato, salva solo, almeno secondo l’indirizzo che appare più condivisibile, la suddetta possibilità di rivalsa nei confronti del soggetto occupante pretesamente responsabile.