Espropri ed uso pubblico: le opzioni possibili per la Pubblica Amministrazione

 L’espropriazione per pubblica utilità: cenni

Tradizionale modo di acquisizione di immobili e/o diritti relativi agli immobili, occorrenti per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, è l’espropriazione, nel nostro ordinamento conosciuta sin dal 1865 ed oggi totalmente disciplinata, a livello statale, dal D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327.

Essa, non già materia a sé stante, ma servente rispetto al governo del territorio, rientra nella competenza legislativa concorrente stato-regioni, secondo quanto stabilito dagli artt.117 Cost. e 5 del predetto testo normativo.

In realtà oggi sono ancora poche le regioni che hanno legiferato sugli espropri (l’ultima in ordine di tempo la Lombardia – L. 4 marzo 2009 n.3), senza nemmeno eccellere quanto ad originalità; pertanto la base normativa per disciplinare l’espropriazione per pubblica utilità resta in Testo Unico del 2001, in vigore dal 30 giugno 2003, le cui prescrizioni, comunque, ove non diversamente stabilito dalle regioni, hanno un valore generalizzato.

Esso individua il procedimento che deve portare ad un esproprio direttamente all’art.8, laddove dispone che per poter emettere un decreto, l’autorità agente (tanto quella pubblica, quanto un privato al quale siano stati attribuiti i relativi poteri in base ad una norma), deve verificare la conformità urbanistica dell’opera, l’esistenza di un vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e la determinazione, anche se in via provvisoria, dell’indennità.

L’art.8 citato elenca solo esemplificativamente i momenti determinanti di una procedura ablativa, ma non può certo essere considerato esaustivo, giacché, nella pratica, ci sono ulteriori passaggi determinanti a tal fine (basti pensare, tra gli altri, all’accesso ai fondi necessario per fotografare lo stato di consistenza degli immobili oppure alla formazione dei tipi di frazionamento, se necessari).

È opportuno, pertanto, quando si discute preliminarmente dei diversi anelli della catena che porta ad un esproprio, tenere conto che l’art.8 del Testo Unico, va necessariamente arricchito di ulteriori contenuti, solo alcuni dei quali tratti direttamente dalla legge, altri (come, ad esempio, i tipi di frazionamento) derivanti dalla diffusa prassi.

Anche se non pretendiamo di ripercorrere, nel presente lavoro, i diversi profili problematici che caratterizzano l’espropriazione per pubblica utilità, almeno nella linee fondamentali è necessario farne un cenno.

È così che non possiamo non parlare della problematica della delega di funzioni e di poteri in materia e della responsabilità conseguente che grava in capo al delegante ed al delegato.

Il tema è quanto mai attuale se è vero, come è vero, che è stato trattato ex professo dallo stesso Consiglio di Stato in un recente parere del 12 novembre 2009 n.6602; è bene ricordare, al riguardo, che la materiale gestione delle procedure di esproprio, può essere delegata, in tutto od in parte, ad un concessionario privato o al contraente generale, purchè siano specificamente individuati limiti e contenuti della delega, in modo da garantire, sempre e comunque, l’esistenza, in concreto, del potere di agire.

Tema quanto mai interessante, inoltre, sempre relativo alla delega di poteri e funzioni espropriative, è la responsabilità, nello specifico solidale, tra delegante e delegato.

Accanto ad esso anche quello, a livello più strettamente procedurale, della differenza tra vincoli conformativi ed espropriativi.

Il problema è tanto importante poichè interessa l’incipit della procedura, ovvero l’esatta individuazione di un vincolo preordinato all’esproprio senza il quale non si può agire.

E che si tratti di un profilo di preminente importanza è dimostrato dall’interessamento tanto della giurisprudenza ordinaria, quanto di quella amministrativa.

La prima, infatti, ritiene che intanto sussiste un vincolo espropriativo, in quanto si sia in presenza di una localizzazione lenticolare dell’intervento da parte del piano regolatore generale o di una sua variante; laddove, invece, lo strumento urbanistico dell’ente, definisce interventi sotto forma di zonizzazione del territorio e non di localizzazione, si è in presenza di un vincolo conformativo.

La giurisprudenza amministrativa, dall’altro lato, definisce vincoli espropriativi quelli diretti a svuotare in concreto il contenuto del diritto di proprietà del singolo che viene, pertanto, privato delle proprie facoltà dominicali; la stessa, ancora, definisce vincoli conformativi quelli che non svuotano di contenuto il diritto di proprietà del singolo, ma conservano le facoltà di utilizzo e sfruttamento del bene.

E che l’esatta individuazione dell’esistenza o meno, in concreto, di un vincolo espropriativo piuttosto che conformativo, non sia circostanza tanto semplice e, comunque, scontata, si ricava proprio da una serie di esempi pratici; basta pensare, al riguardo, a come si debbono qualificare le aree destinate a verde pubblico attrezzato, a parcheggio, a viabilità, per le quali non si può, aprioristicamente, ritenere esistente il vincolo espropriativo piuttosto che conformativo.

Per tali aree, ma lo stesso dicasi, in generale, per le zone F di PRG, occorre - in concreto - verificare se è attuato o meno lo svuotamento del diritto di proprietà del singolo e la localizzazione dell’intervento per ammettere l’esistenza effettiva di un vincolo preordinato all’esproprio; al contrario, si sarà in presenza di un vincolo conformativo.

Accanto alla problematica della corretta individuazione dei vincoli, attualissima e continuamente al vaglio della giurisprudenza, c’è quella della loro reiterazione.

È noto, infatti, che i vincoli espropriativi, a differenza di quelli conformativi, hanno una durata limitata nel tempo a cinque anni, decorsi i quali senza che venga dichiarata la pubblica utilità dell’opera, decadono rendendo l’area priva di destinazione urbanistica, perciò bianca rispetto alla quale la PA ha l’obbligo di ripianificare [1].

La PA, dinanzi ad un vincolo espropriativo scaduto, può autonomamente decidere di reiterarlo ma, al riguardo, deve attenersi ad alcune regole di “buona condotta”, senza le quali rischia di incorrere in atti e provvedimenti illegittimi.

In tal ultimo senso, a chiarire come si debbano comportare le PA dinanzi la necessità di reiterazione dei vincoli scaduti, fondamentale è l’approdo dell’adunanza plenaria del consiglio di stato nella decisione n.7 del 2007.

I giudici amministrativi hanno dettato le regole da seguire dalle amministrazioni pubbliche, nel momento in cui si trovano a dover reiterare vincoli preordinati all’esproprio, stabilendo quale grado motivazionale debba essere dalle stesse seguito, l’istruttoria da realizzare ed il contenuto del provvedimento di reitera.

Brevemente mette conto segnalare che l’adunanza plenaria ha stabilito che il grado di motivazione della delibera di reiterazione del vincolo dovrà essere tanto maggiore se essa intervenga per più di una volta, così come se riguardi una sola specifica area rispetto ad una vasta porzione del territorio per il quale il vincolo era scaduto.

Al contrario, se la reiterazione interviene per più di una volta (laddove possibile, posto che, ad esempio, in Emilia Romagna la legge regionale lo vieta), oppure se interessa la generalità di un territorio e non una parte specifica, allora sarà sufficiente una motivazione anche per relationem rispetto alle iniziali decisioni.

Altro aspetto di rilevante interesse curato dalla citata sentenza, riguarda la legittimità del provvedimento amministrativo che reitera i vincoli anche se esso non comprende né l’indicazione dell’indennità da reiterazione offerta al proprietario né la copertura finanziaria dell’intervento; quest’ultimi due aspetti, infatti, è stato chiarito, attengono a profili patrimoniali che nulla hanno a che fare con la legittimità di un provvedimento che, comunque, è salvo anche in loro assenza.

La problematica della reiterazione dei vincoli, è bene farne cenno, ne crea anche un’altra, relativa all’obbligo o meno delle PA agenti di assicurare, in virtù dell’art.39 del D.p.r. n.327/01, un indennizzo al proprietario.

A tal fine, la citata disposizione prevede un ristoro al soggetto passivo della reitera fintantoché quest’ultimo dimostri di aver subito un effettivo danno.

In assenza di tale dimostrazione per l’intervenuta operatività del provvedimento di reiterazione, il proprietario non può vantare alcuna pretesa patrimoniale nei confronti della PA che, pertanto, è opportuno eviti di indicare nei propri provvedimenti, un quantum come somma di denaro, evitando inutili e pericolose aspettative in capo al soggetto leso.

Non c’è niente di più pericoloso, infatti, che suscitare un’aspettativa patrimoniale sui proprietari, tra l’altro sottraendo agli stessi l’onere della prova circa l’an del danno.

Se la PA, infatti, nel provvedimento di reiterazione dei vincoli indicasse una somma a titolo di indennità, non essendo obbligata a farlo ai fini della legittimità del provvedimento, di fatto verrebbe a “sgravare” il proprietario inciso dell’onere di provare l’esistenza effettiva del danno, oltre tutto ponendolo in una posizione di forza e legittimandolo a richieste anche maggiori sul quantum.

Meglio, allora, evitare tale eventualità!

Come anticipato, numerose sono le problematiche sottese ad un esproprio: dal tema della delega di funzioni e poteri a quello dei vincoli e della loro reiterazione, fino ad aspetti più propriamente tecnici, come la necessità della formazione dei tipi di frazionamento prima dell’adozione del decreto, alla corretta individuazione delle caratteristiche delle aree ai fini indennitari, all’esistenza delle condizioni per ricorrere alle procedure urgenti ed all’occupazione, fino alla possibilità di adottare o meno il provvedimento di acquisizione coattiva sanante ex art. 43.

Tutti aspetti che rendono tanto affascinante, quanto complicata, la materia.

Basti pensare alla individuazione delle caratteristiche di un’area ai fini del riconoscimento dell’indennità; qualificare un immobile agricolo piuttosto che edificabile cambia, e di molto, le cose.

Sulla corretta individuazione della natura di un terreno rileva, nello specifico, l’art.32 del Testo Unico, secondo cui non vanno considerati gli effetti del vincolo preordinato all’esproprio ai fini indennitari, ma debbono essere tenuti a mente i vincoli di qualsiasi altra natura, come ad esempio quelli conformativi che rendono inedificabile l’area.

Ecco, allora, per i motivi predetti, che diventa determinante riconoscere se, nel caso specifico, si è in presenza di un vincolo preordinato all’esproprio o meno, giacchè nel primo caso esso non dovrà essere valutato ai fini della stima delle aree preliminare al calcolo della giusta indennità.

Sul tema dell’indennità, soprattutto delle aree edificabili, inoltre, carne sul fuoco è stata messa anche dalla modifica legislativa ai parametri di sua determinazione prima fissati dall’art.5-bis della legge 359/92, poi dall’art.37 del D.p.r. n.327/01.

È bene ricordare, infatti, che il sistema recepito, in prima battuta, dal legislatore del testo unico, approdava ad un calcolo dell’indennità di esproprio per le aree edificabili eccessivamente basso, addirittura pari a circa un quarto del valore del bene (compresa la falcidia fiscale); il sistema di calcolo, tratto dal passato, produceva indennizzi eccessivamente irrisori, in spregio alle continue sentenze della giurisprudenza chiamata a pronunciarsi che ripetevano come essi dovessero essere seri, congrui, non irrisori e, comunque, il massimo di contributo e riparazione che, in vista del perseguimento degli scopi di interesse generale, la PA riuscisse a garantire all’espropriato.

In spregio alla moltitudine di decisioni in tal senso orientate, il meccanismo di calcolo dell’indennità per le aree edificabili, basato sulla medi tra valore venale del bene, reddito dominicale, con una falcidia del 40%, salvo il caso di cessione volontaria, come detto, portava ad indennizzi inferiori, e di molto, alla metà del valore dell’immobile.

Dinanzi ad un sistema siffatto, le censure della corte europea hanno portato il nostro sistema ad una riforma fondamentale, tratta dalla legge finanziaria del 2008, la quale è intervenuta a colmare il vuoto normativo creatosi all’indomani delle decisioni 347 e 348 del 2007 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dei criteri di calcolo dell’indennizzo indicati dall’art.5-bis della l.n.359/92 e 37 del D.p.r. n.327/01.

Il rimedio sancito dal legislatore in merito ai nuovi parametri i calcolo dell’indennità per le aree edificabili, però, non eccelle per chiarezza e comprensione, al contrario, gettando le PA nel baratro del “dubbio interpretativo”.

Tre sono, fondamentalmente, i problemi oggi in campo in relazione alla nuova formulazione dell’art. 37 del testo unico sugli espropri: in primo luogo l’ambito di applicazione della riduzione, ivi contenuta, dell’indennità, nei casi di interventi di riforma economico-sociale; l’operatività effettiva dell’aumento del 10%, quale effetto premiante, dell’indennità, nel caso di cessione volontaria; l’applicazione o meno ai giudizi pendenti della nuova normativa.

Veniamo al primo dei problemi: la norma, nella nuova formulazione, prevede che l’indennità per le aree edificabili debba fare riferimento al valore venale del bene, salvi i casi in cui ci si trovi in presenza di interventi di riforma economico-sociale; non dice però quali sono gli interventi di riforma economica e sociale che giustificano la riduzione, lasciando i “poveri” addetti ai lavori nell’ingrato compito di comprendere se, nello specifico, applicare o meno la riduzione.

In assenza di una specificazione legislativa, quali sono, allora, i casi in cui può ritenersi presente una riforma economico-sociale tale da giustificare l’abbattimento del 25% dell’indennità?

Di fatto, è bene dirlo subito, non si rintracciano interventi siffatti nella pratica, né può ritenersi che le aree destinate ad edilizia residenziale pubblica, piuttosto che ad insediamenti produttivi possano, come qualcuno inizialmente ha ritenuto, poter rientrare a pieno titolo nell’applicazione della norma.

Nel nostro ordinamento, ad oggi, interventi di riforma (anche se, a rigore, sarebbe stato più logico qualificarli di rilevanza) economico-sociale, non esistono, con buona pace per il riformatore della finanziaria del 2008 e delle PA che, nelle primissime applicazioni della riforma, “speravano”, visti i risparmi, di poter discrezionalmente ridurre del 25% l’indennizzo per aree edificabili.

Altro problema posto dalla nuova formulazione dell’art.37, è l’applicazione concreta dell’effetto premiante del 10%; difatti si prevede, per le aree edificabili, che in caso di cessione volontaria o di mancata cessione per fatto non imputabile all’espropriato o di offerta di indennità provvisoria che, attualizzata, è inferiore agli otto decimi della definitiva, spetta al soggetto passivo dell’esproprio un aumento del 10% sull’indennità.

Tutto bene se non fosse che riconoscere un 10% di maggiorazione rispetto ad indennizzi già parametrati al valore venale, significa offrire all’espropriato più di quanto il bene vale sul mercato, in spregio ai principi di contabilità pubblica.

V’è di più: riconoscere il 10% in più significherebbe pagare un indennizzo pari al 110% del valore del bene, giungendo al risultato aberrante che, in caso di espropri illegittimi, applicando l’art.43 del Testo Unico (che parametra il risarcimento del danno da illegittima espropriazione al valore venale), verrebbe garantito al soggetto passivo meno di quanto ad esso assicurato per effetto di espropri regolari e legittimi.

In altre parole, volendo applicare sempre e comunque la maggiorazione del 10% in caso di cessione si perverrebbe all’assurdo, tutto italiano, di pagare più per espropri legittimi rispetto a quelli illegittimi ed a quelli dei privati (entrambi questi ultimi pagati al valore venale pieno, secondo gli artt.43 e 36 del testo unico).

Ultimo problema in campo in relazione all’art.37, nuova formulazione, è la sua applicazione o meno ai giudizi pendenti, posto che la norma transitoria della legge finanziari del 2008 (art.2, comma 90), stabiliva che i nuovi criteri andassero applicati ai procedimenti (non ai processi) in corso alla data di sua entrata in vigore, per i quali non fosse stata accettata, concordata o divenuta irrevocabile, l’indennità di esproprio.

In merito a tale profilo si è detto che la norma transitoria non avesse menzionato i giudizi in corso alla entrata in vigore dei nuovi criteri indennitari, con la conseguenza che ad essi dovessero continuare ad applicarsi i precedenti parametri; in verità, il citato comma 90 dell’art.2 della finanziaria 2008 prevede che i nuovi criteri non possano trovare applicazione laddove sia divenuta definitiva ed irrevocabile l’indennità, aprendo, seppure implicitamente, all’applicazione ai giudizi in corso per i quali, di fatto, non è ancora intervenuta una sentenza passata in giudicato che possa sancire la definitività dell’indennizzo.

Potremmo stare a discutere ore e scrivere fiumi di inchiostro sulle problematiche attualmente in campo attorno all’istituto degli espropri; ci basta averne tracciate solo alcune nel presente lavoro, senza pretesa assoluta di esaustività.

Passiamo ora, di seguito, ad analizzare alcuni profili problematici ma, al tempo stesso, interessanti, relativi a strumenti utilizzabili dalle PA alternativamente all’esproprio per acquisire la titolarità formale della proprietà di un immobile o per conservarne l’uso pubblico, ferma la propri...

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