Natura dei reati paesaggistico-ambientali (art. 181 D.Lgs. 42/2004)

I reati paesaggistico-ambientali

L’art. 181 D.Lgs. 42/2004, insieme all’art. 734 c.p., costituisce la norma fondamentale del sistema normativo posto a protezione dei beni paesaggistici e ambientali.

Ai sensi del comma 1 dell’articolo succitato, "chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici è punito con le pene previste dall’art. 44, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380".

Il reato in esame, già previsto dall’art. 163 D.Lgs. 490/99, c.d. T.U. Beni culturali, tutela l’interesse a che la p.a., deputata al controllo, venga posta in condizioni di esercitare effettivamente ed efficacemente la funzione di salvaguardia del bene giuridico ambiente e paesaggio.

Attraverso la prescritta autorizzazione, infatti, si intende assicurare all’ente interessato l’immediata informazione e la preventiva valutazione dell’impatto sul paesaggio degli interventi intrinsecamente idonei a comportarne modificazioni.

Oggetto di tutela è, quindi, tanto l’ambiente, quanto l’interesse a che l’amministrazione competente possa esercitare efficacemente ed utilmente l’attività di controllo cui è preposta.

A tal fine, il legislatore ha introdotto un’anticipazione della soglia della salvaguardia ambientale, prescrivendo adempimenti formali destinati alla protezione del bene sostanziale.

La disciplina de qua si pone in armonia e in attuazione delle previsioni costituzionali di cui all’art. 9 Cost., ai sensi del quale la Repubblica "tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".

Prima di procedere all’analisi della disciplina di dettaglio del reato in questione, giova soffermarsi sulle relazioni tra questo e i reati edilizi, di cui al D.P.R. 380/2001.

Come chiarito dalla Corte Cost. con ordinanza n. 439 del 20 dicembre 2007, si tratta "di fattispecie criminose analoghe, ma non identiche, tanto è vero che possono essere in concorso tra di loro.

Il reato edilizio previsto dall’articolo 44 del D.P.R. 380/2001 ed il reato paesaggistico previsto dall’art. 181 del D.Lgs. 42/2004 hanno oggetti giuridici diversi. I reati paesistici ed ambientali tutelano [Omissis - versione integrale presente nel testo].

In particolare, la materialità del bene paesaggistico-ambientale conferisce un valore essenziale alla rimessione in pristino del paesaggio e dell’ambiente, alla quale, in definitiva, tende l’intero sistema sanzionatorio in questa materia.

Proprio in considerazione della straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali, il legislatore, nell’ambito delle sue scelte di politica legislativa, ha deciso di incentivarla in varie forme: sia riconoscendo attenuanti speciali a favore di chi volontariamente ripari le conseguenze dannose dei reati previsti a tutela delle acque (art. 140 del D.Lgs. 152/2006, recante norme in materia ambientale), sia subordinando alla riduzione in pristino il beneficio della sospensione condizionale della pena nei reati collegati alla gestione del ciclo dei rifiuti (artt. 139, 255, 257 e 260 del D.Lgs. 152/2006), sia, infine, riconoscendo, valore prevalente al ripristino del bene paesaggistico rispetto alla stessa pretesa punitiva dello Stato.

Invece, nell’ambito della repressione degli illeciti edilizi, la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, con demolizione delle opere abusivamente realizzate, rappresenta solo uno dei possibili esiti sanzionatori dell’illecito, essendo prevista, in alternativa ad essa, (art. 31, co. 5, D.P.R. 380/2001) la possibilità per il comune di mantenere, a determinate condizioni, l’opera coattivamente acquisita".

Il D.Lgs 42/2004 detta un’apposita disciplina finalizzata alla protezione dei beni oggetto di tutela, dedicandovi l’intera parte III.

Ai sensi dell’art. 131, così come modificato dall’art. 2 D.Lgs. 63/08, "per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni".

La definizione di beni paesaggistici è contenuta nell’art.134 del medesimo corpo normativo. Sono tali:
  • gli immobili e le aree di cui all’art. 136, individuati ai sensi degli artt.138 , 139 , 140 e 141;

  • le aree di cui all’art. 142;

  • gli ulteriori immobili ed aree specificatamente individuati ai termini dell’art. 136, e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli artt. 143 e 156.


Per quanto attiene agli immobili ed alle aree di cui all’art.136 del Codice, vengono in esame:
  • le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica, ivi compresi gli alberi monumentali;

  • le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della parte seconda del presente codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza;

  • i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici;

  • le bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.


In riferimento invece alle aree di cui all’art. 142 del Codice (come modificato dall’art. 2 del D.Lgs. 63/08), la detta norma prevede che siano comunque sottoposti alle disposizioni di questo titolo, per il loro interesse paesaggistico:
  • i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare;

  • i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati sui laghi;

  • i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 1775/33, e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna;

  • le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole;

  • i ghiacciai e i circhi glaciali;

  • i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi;

  • i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall’articolo 2, commi 2 e 6, del D.Lgs. 227/2001;

  • le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici;

  • le zone umide incluse nell’elenco previsto dal D.P.R. 448/1976;

  • i vulcani;

  • le zone di interesse archeologico.


Perno della pianificazione del territorio è il piano paesaggistico di cui all’art. 143 del Codice, la cui elaborazione si articola in fasi distinte, dettagliatamente descritte dalla norma.

In linea generale sussiste l’obbligo di conservazione degli aspetti e caratteri peculiari del paesaggio, costituenti rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale ed espressione di valori culturali.

Pertanto, Stato, regioni e gli altri enti pubblici territoriali, nonché tutti i soggetti che, nell’esercizio di pubbliche funzioni, intervengono sul territorio nazionale, hanno l’obbligo di informare la loro attività ai principi di uso consapevole del territorio, di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche, e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità [1].

Di conseguenza, lo Stato e le regioni hanno l’obbligo di assicurare che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono [2].

A tal fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici.

Le relative previsioni non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico; sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province; sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici; stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici, e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali [3].

I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione, ed hanno l’obbligo [Omissis - versione integrale presente nel testo].

In assenza di quest’ultima, nelle zone paesisticamente vincolate configura il reato in esame ogni modificazione dell’assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi opera, non soltanto edilizia, ma di qualsiasi genere.

"Con le disposizioni in parola si è inteso assicurare un’immediata informazione ed una preventiva valutazione da parte della p.a. dell’impatto sul paesaggio di ogni tipo di intervento intrinsecamente idoneo a comportare modificazioni ambientali e paesaggistiche" [4].

A differenza di quanto previsto per gli interventi edilizi, nel porre il divieto in questione, la norma non prevede alcuna distinzione tra la difformità totale o parziale, o tra la variazione essenziale o non essenziale: qualunque modificazione del territorio, realizzata in assenza del nulla osta o in difformità da questo, configura il reato, a condizione che si tratti di modificazione, anche minima, ma astrattamente idonea a ledere il bene oggetto di tutela [5].

Difatti, nonostante per consolidata giurisprudenza l’illecito in esame abbia funzione prodromica alla protezione del territorio, e non richieda per la sua consumazione il danneggiamento, si devono escludere dagli interventi penalmente rilevanti quelli minimi che si prospettano, anche in astratto, inidonei a compromettere o alterare il paesaggio [6].

È opportuno precisare, al riguardo, quanto specificato dalla Corte Costituzionale in relazione alla soglia minima di offensività della condotta, richiesta affinché si configurino i reati formali o di pericolo. L’accertamento della stessa, nel caso concreto, è rimesso al giudice penale. In sua assenza, si versa nella diversa ipotesi del reato impossibile, atteso che ove la condotta sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico viene meno, conseguentemente, la possibilità di sussumere la fattispecie concreta in quella astratta [7].

Non sono soggetti ad autorizzazione soltanto gli interventi di:
  • manutenzione, ordinaria e straordinaria; consolidamento statico o restauro conservativo, purché non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici;

  • esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, che non comportino alterazione dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie o altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio;

  • taglio colturale, forestazione, riforestazione, opere di bonifica, antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall’art. 142, co. 1, lett. g), purché previsti ed autorizzati in base alle norme vigenti in materia [8].


Quanto alla natura dell’illecito penale oggetto di studio, risulta oramai incontrovertibile il fatto che esso rappresenti un’ipotesi di reato di pericolo astratto o presunto.

La Suprema Corte, infatti, ha più volte ribadito che "il reato previsto dall’art. 181 del D.Lgs. 42/2004, qualificabile come di pericolo astratto, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l’ambiente, essendo sufficiente l’esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato. La previsione, contenuta nello stesso art. 181, co. 1 ter, della non punibilità in caso di intervenuto accertamento di compatibilità paesaggistica, è limitata al solo reato contravvenzionale di cui all’art. 181, co. 1, ed in determinate ipotesi, tra cui il caso di abusi minori, secondo la specifica previsione legislativa [9]".

Per la configurazione della fattispecie contravvenzionale, è sufficiente, dunque, che l’autore dell’illecito faccia un diverso uso del bene protetto dal vincolo rispetto alla sua destinazione, senza che siano necessarie l’avvenuta alterazione dello stato dei luoghi e la verificazione di un danno, essendo piuttosto sufficiente che l’attività sia stata posta in essere in assenza o in difformità della prescritta autorizzazione.

Da tutto quanto illustrato, discende la natura formale e non sostanziale del sistema sanzionatorio previsto dalla disciplina in esame. Ciò che rileva, infatti, non è il nocumento all’ambiente in sé, ma unicamente che le opere siano eseguite in violazione di legge.

Pertanto, non è punibile colui che determini di fatto un pregiudizio paesaggistico-ambientale nel caso in cui l’intervento sia accompagnato [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Autonoma fattispecie di reato è quella sanzionata dal comma 1 bis dell’articolo 181 D.Lgs. 42/2004, introdotto, insieme ai commi 1 ter, 1 quater e 1 quinquies, dalla L. 308/2004.

Esso sancisce che "la pena è della reclusione da uno a quattro anni qualora i lavori di cui al comma 1:
  • ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori;

  • ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’art. 142 ed abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi".


La fattispecie delittuosa in esame costituisce non già un’ipotesi di reato circostanziato rispetto a quello di base di cui al comma 1 del medesimo articolo, bensì un’autonoma figura, punita più severamente in ragione della maggiore offensività della condotta.

Si punisce, infatti, ogni genere di lavoro o opera eseguiti su immobili o aree protette già in precedenza con apposito provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, ovvero i lavori di consistente entità che ricadono su un immobile o su aree tutelate per legge ai sensi dell’art. 142 D.Lgs. 42/2004.

Anche per tale fattispecie vige il principio di offensività minima summenzionato.

Il comma 1 ter dell’art. 181 continua specificando che "ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’articolo 167, qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 1 quater, la disposizione di cui al comma 1 non si applica:
  • per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;

  • per l’impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;

  • per i lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380".


Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 1 ter presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni [11].

La rimessione in pristino da parte del trasgressore delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e prima che intervenga la condanna, estingue il reato [12].


L’ordine di rimessione in pristino

Per la tutela dell’imprescindibile bene giuridico ambiente, il D.Lgs, 42/2004, all’art. 181, co. 2, disciplina una misura particolarmente incisiva, e connotata da maggiore ampiezza rispetto alla semplice demolizione dell’opera abusiva: l’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

È ivi sancito, infatti, che "con la sentenza di condanna viene ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato. Copia della sentenza è trasmessa alla regione ed al comune nel cui territorio è stata commessa la violazione".

L’art. 167 del medesimo corpus normativo, invece, disciplina le procedure relative all’ordine di rimessione in pristino di natura amministrativa.

Il provvedimento in esame appare certamente una sanzione più appropriata rispetto alla mera demolizione, soprattutto con riferimento all’obiettivo che la stessa si prefigge, ossia la tutela e la conservazione del paesaggio. Esso appare più proficuamente assicurato attraverso la reintegrazione delle condizioni visuali e panoramiche preesistenti alla realizzazione dell’opera abusiva.

Inoltre, atteso che non è consentita nessuna sanatoria delle opere poste in essere in violazione o in difformità dall’autorizzazione o delle altre imposizioni di legge, con le eccezioni in relazione alle infrazioni più lievi, il legislatore ha inteso evitare che le trasgressioni delle norme paesistiche diventassero un motivo di guadagno per gli enti locali, incentivando le pratiche di sanatoria, con pesanti ricadute sull’integrità e la conservazione del paesaggio [13].

Di carattere preliminare, oltre che particolarmente dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, è il tema della natura dell’ordine in commento.

Mentre un minoritario orientamento giurisprudenziale [14] qualifica la sanzione come penale atipica, tesi evidentemente violativa dei principi di tassatività e legalità che caratterizzano l’ordinamento penale italiano; quello maggioritario è concorde nell’inquadrare la misura in questione tra le sanzioni giurisdizionali, in virtù dell’organo istituzionale da cui proviene, con natura di sanzioni amministrative, priva di carattere discrezionale. La sua irrogazione, infatti, consegue automaticamente sia alla sentenza di condanna, che alle ipotesi di applicazione di pena su istanza della parte interessata [15].

"Essa costituisce infatti una sanzione sostanzialmente amministrativa che il giudice deve applicare con la sentenza di condanna o con quella equiparata di patteggiamento. Si tratta, peraltro, di un potere che il giudice ordinario esercita in via integrativa e sostitutiva del rispetto alla competenza propria dell’ente regione o di quello territoriale delegato, sicché l’ordine stesso non va impartito ove sia intervenuta l’autorizzazione in sanatoria, la quale esclude l’applicabilità della riduzione in pristino, o, se applicata, la rende inoperante ed ineseguibile" [16].

L’ordine in questione deve intendersi [Omissis - versione integrale presente nel testo].

La revoca adottata in fase esecutiva, tuttavia, è legittima soltanto nel caso in cui sia assolutamente incompatibile con atti amministrativi adottati dalle competenti autorità amministrative [18].

Dalla sua natura amministrativa, consegue anche l’impossibilità della sanzione in esame di passare in giudicato, circostanza che conferma che la revoca, ove ne sussistano i presupposti, può essere adottata in ogni momento.

Quanto all’esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino, l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che la competenza spetti all’autorità giudiziaria, ovvero al pubblico ministero, escludendo, che ciò rientri nelle prerogative dell’autorità amministrativa, analogamente a quanto previsto in relazione all’ordine di demolizione. Tanto è confermato dal fatto che il legislatore non ha subordinato l’adozione della misura all’inerzia dell’amministrazione, a suffragio del potere autonomo e al contempo concorrente del giudice penale rispetto alla p.a. [19].

In tal modo è stato conferito "al giudice penale non più un potere meramente surrogatorio, ma primario ed esclusivo, svincolato da ogni altro concorrente. Esso è limitato al solo caso in cui venga pronunciata una sentenza di condanna. In questa ipotesi, pur senza escludere l’intervento ad adiuvandum dell’amministrazione, il legislatore ha conferito il compito al magistrato penale, che deve ordinare il ripristino dei luoghi. Consequenziale è evidentemente l’esecuzione penale del provvedimento con l’esclusione, questa volta, di ogni diversa forma di esecuzione medesima" [20].

È opportuno rilevare, da ultimo, che la rimessione in pristino delle aree o degli immobili sottoposti a vincoli paesaggistici determina l’estinzione del reato paesaggistico-ambientale, se posta in essere spontaneamente, e cioè prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrative e prima che intervenga la condanna.

Il nuovo istituto estintivo previsto in caso di demolizione delle opere abusive dall’art. 181, co. 1 quinquies, D.Lgs 42/2004, può configurarsi soltanto se l’autore del reato paesaggistico si attivi spontaneamente per la rimessione in pristino dell’area o dell’immobile soggetti a vincoli ambientali e, quindi, vi provveda prima che la pubblica amministrazione disponga la demolizione d’ufficio. L’effetto premiale può realizzarsi infatti solo in presenza di una condotta dell’agente che anticipi l’emissione del provvedimento amministrativo ripristinatorio [21].

In questo modo, viene elevata a rango di fattispecie estintiva la contro-condotta attuosa del reo che si attiva sua sponte, secondo l’esegesi odierna della Cassazione, per la demolizione delle opere abusive, o comunque per la remissione dello status quo ante.

Quello che per l’innanzi costituiva un comportamento post delictum, che tutt’al più avrebbe semplicemente evitato la misura ripristinatoria prevista quale conseguenza amministrativa della sentenza penale di condanna, oggi viene positivizzato come speciale causa di non punibilità del reato ambientale, ma non di quello urbanistico.

In deroga ai generali principi, dunque, e ad ogni istanza di tutela preventiva dell’ambiente, nell’ottica del legislatore del 2004 l’aver volontariamente eliminato le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito ambientale, da circostanza attenuante comune assume eccezionalmente dignità di causa di estinzione del reato, come se il bene ambiente, leso o semplicemente messo in pericolo, fosse sempre reintegrabile nello stato dei luoghi originario [22].