Evoluzione storica della normativa sul reato di «riciclaggio»

“Etimologia” e significato del reato di riciclaggio

La rubrica dell’art. 648-bis c.p. dimostra come la scienza del diritto non esiti, talvolta, a servirsi di vere e proprie “espressioni metaforiche” – attingendo ad un linguaggio pertinente ad altri e diversi campi dello scibile umano – per descrivere, con icastica sinteticità, fatti (rectius, comportamenti) meritevoli di assumere una precipua rilevanza giuridica.

Il termine riciclaggio [1], in effetti, appartiene al lessico della ingegneria gestionale e contraddistingue – letteralmente – un processo industriale, ossia l’insieme delle strategie e delle metodologie dirette al riutilizzo (vale a dire re-immissione nel ciclo produttivo) dei materiali di rifiuto, che quindi perdono la propria natura di “scarto” per il tramite di una loro con-fusione con le materie prime impiegate in una nuova (e talvolta anche diversa) catena di produzione. [2]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Nell’ottica interpretativa ed esegetica della magistratura, infatti, “riciclaggio” significa e sintetizza più un procedimento adottato per rimettere in circolazione denaro sporco, anziché un procedimento utilizzato per far perdere le tracce di un illecito guadagno; più una procedura di investimento, anziché un meccanismo – più o meno complesso – di conversione di determinati utili.

In buona sostanza, una condotta criminosa che – sotto il profilo eminentemente teleologico – si rivela più ad “assetto anteriore” che “posteriore”.


L’origine della fattispecie: il contesto internazionale; in particolare, la Convenzione di Vienna del 1988 e l’esperienza degli Stati Uniti

Quando e in quale ambito nasce l’esigenza di reprimere il fenomeno criminoso de quo, mediante il ricorso alla massima risposta sanzionatoria da parte di uno Stato?

Un doveroso – e senza alcuna pretesa di esaustività in questa sede – excursus evolutivo della vigente normativa penale italiana rivela come all’origine della disciplina vi sia una molteplicità di fonti di vario livello, nazionale e sovranazionale, nonché di rango comunitario (in specie, direttive, raccomandazioni e più in generale atti comunitari di cooperazione intergovernativa, facenti capo al c.d. “Terzo Pilastro” dell’Unione Europea), cui va ad aggiungersi una interdisciplinarietà degli interventi di regolamentazione che conferiscono alla materia una complessità difficilmente rinvenibile aliunde. [6]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]
[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Tali difetti, del resto, andavano a costituire un grosso limite interno all’accertamento della responsabilità.

Ma se lo spirito “criminalizzatore” dell’ONU – teso a favorire un approccio globale, nella lotta al fenomeno del riciclaggio, attraverso lo scambio di plurime e diverse esperienze territoriali – non raggiunse mai il proprio obiettivo, ossia lo sviluppo di uno schema di reato realmente definito e condiviso sul piano internazionale, neppure – a ben vedere – lo stesso può essere considerato un prodotto davvero originale e innovativo rispetto ai tradizionali strumenti di tutela e cooperazione. Infatti, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, l’esigenza di approntare un intervento massimamente punitivo ad hoc assunse già un indubbio rilievo e dignità di ipotesi delittuosa in seno al diritto americano, e sempre nell’ambito del traffico e del commercio della droga.


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]



Specifica caratteristica strutturale della ipotesi delittuosa, così come è stata disegnata nei lavori del Congresso, è sicuramente il ruolo centrale giocato dall’ostacolo alla identificazione della provenienza della res: [14] In effetti, a differenza delle legislazioni europee (tra le quali, come si è già detto, di fatto anche il codice italiano [15]), la grande intuizione degli americani è stata quella di enfatizzare – nel precetto della norma – l’effetto “retrospettivo” perseguito con la condotta criminosa, e non – a valle – la conseguenza “pubblica/sociale” che la stessa, una volta posta in essere, inevitabilmente comporta; in altri termini, il Legislatore statunitense – consapevole del fatto che il diritto penale deve manifestarsi non solo sul piano sanzionatorio, ma anche su quello preventivo, e che il medesimo diritto deve obbligatoriamente adattarsi ai continui mutamenti tecnologici ed economici – ha saputo cogliere l’autentica ratio che deve sorreggere l’intento criminalizzatore del fenomeno del riciclaggio, ossia la necessità di combattere la perpetrazione dell’illecito quale possibile contesto di origine di un altro illecito.


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


L’evoluzione della normativa italiana

Se gli Stati Uniti hanno avuto il merito di intuire (e poi perfezionare ed affinare tale intuizione) la peculiarità teleologica dello spirito criminalizzatore del riciclaggio, è anche vero – però – come l’Italia sia stata il primo Paese a varare una prima, compiuta previsione penale antiriciclaggio: anticipando i tempi, infatti, già alla fine degli anni ’70 il nostro Legislatore ebbe ad inserire nel codice Rocco l’art. 648-bis e quindi ad individuare, nel confronto tra “offesa-contenuto” del reato ed “arricchimento” quale sua conseguenza, un binomio degno di studio e approfondimento; un binomio rivelatore di un nuovo “fatto da perseguire”. [19]

Tuttavia, la formulazione della novella fattispecie incriminatrice subiva largamente un pregiudizio di origine, consistente in una ideazione dell’illecito “derivata” dallo schema tipico di altre e diverse figurae criminis. [20] In altri termini, la disciplina del delitto di riciclaggio – maturata in seno al D.L. 21 marzo 1978, n. 59 (convertito, con modifiche, dalla l. 18 maggio 1978, n. 191), avente ad oggetto «Norme penali e processuali per la prevenzione e repressione di gravi reati» [21] – appariva condizionata, nella sua primitiva fisionomia, dall’ambito applicativo di più antiche “fattispecie-madri” che, funzionanti come referente criminologico, a quel punto vedevano esteso ed integrato (per il tramite di una loro “forma speciale”) il proprio raggio di azione. [22]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Proprio il ridotto perimetro dei reati collocati “a monte” è alla base di un ripensamento legislativo – a distanza di pochi anni – della novella fattispecie codicistica del 1978. In effetti, per quanto la condotta di riciclaggio avesse già espresso nella originaria formulazione un inedito significato offensivo – dal momento che, da una tutela statica del patrimonio (quale quella approntata ai sensi dell’art. 648 c.p.) si era passati, in forza dell’art. 648-bis c.p., ad una prospettiva di protezione dinamica, se non altro data dalla riqualificazione del bene aggredito che da mera “proprietà” si era evoluto in “risparmio-investimento” [31] – il Legislatore era sempre più convinto di come la limitazione suindicata comportasse un forte rischio di paralisi applicativa della norma.

D’altro canto, la l. n. 191/1978 aveva posto sul medesimo piano – quello delle condizioni di operatività del delitto di riciclaggio – contesti delinquenziali tra loro sì disomogenei, ma allo stesso tempo non ampi a sufficienza da coprire l’intero raggio di azione della criminalità, in specie organizzata: l’esperienza, infatti, mostrava in modo fin troppo evidente la necessità di allargare l’ambito materiale della fattispecie anche ai processi “creativi” di illecita ricchezza, oltre che agli atti criminali “ablatori”, [32] e ciò al fine di facilitare la prova di quel “coefficiente di consapevolezza-colpevolezza” richiesto per l’applicazione dell’art. 648-bis c.p. [33]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


L’immensità dei profitti derivanti da quel bacino di approvvigionamento, però, imponeva a quelle stesse organizzazioni l’esigenza di reimpiegare i capitali del narcotraffico nel circuito economico legale, e ciò per impedire o comunque per ostacolare il più possibile la scoperta del reato (che equivaleva a dire, peraltro, scoperta non solo della causa prima, ma anche della maggiore forza propulsiva della delinquenza). [34]

Proprio quella esigenza quindi, sempre più in crescita, costituiva – a tutti gli effetti – un rilevante punto debole, una decisiva area di criticità della malavita; ed ecco perché – all’epoca – la consapevolezza della opportunità di adottare strumenti capaci di colpire il profilo economico dell’intero fenomeno organizzativo criminale spingeva la Comunità internazionale a predisporre provvedimenti di vario tipo e coinvolgenti il più ampio numero di Paesi.

Ora, il primo di tali provvedimenti fu sicuramente la Raccomandazione n. 80/10, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 27 giugno 1980 e intitolata «Misure contro il trasferimento e la custodia di fondi di origine criminale»: questo atto però – finalizzato precipuamente a far rivestire al sistema creditizio un ruolo preventivo nella lotta al riciclaggio, attraverso l’imposizione alle banche di misure identificative della propria clientela in relazione a determinate operazioni ritenute sensibili, nonché di un obbligo di registrazione delle banconote ogniqualvolta fossero state costituite riserve di contanti di rilevante entità – non aveva efficacia diretta e quindi non si palesava come strumento particolarmente incisivo. [35]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Orbene, sono proprio le ripercorse istanze di una forte internazionalizzazione ed europeizzazione del fenomeno, unitamente alle conseguenti scelte comuni adottate al riguardo da numerosi Paesi, ciò che – in Italia – determinò all’inizio dell’ultimo decennio del secolo appena trascorso il sorgere di condizioni favorevoli per una revisione della disciplina del riciclaggio, così come era stata introdotta nell’ordinamento penale nel 1978. Il nostro Legislatore infatti, incalzato – come sempre – da contingenti emergenze storiche e dalla necessità di rispondere alle medesime in modo fermo e deciso, approfittò del grave allarme sociale che, all’epoca, destava la crescente incidenza della mafia in settori ed in attività economiche essenziali dello Stato per varare la l. n. 55 del 19 marzo 1990 (c.d. “Gava-Vassalli”, allora rispettivamente Ministro dell’Interno e Ministro di Grazia e Giustizia), foriera di importanti elementi di riforma dell’art. 648-bis c.p.. [43]

La nuova versione [44] – introdotta dall’art. 23 della prefata normativa – rivelò fin dalle prime battute quale provvedimento di carattere internazionale, tra quelli poc’anzi enucleati, fosse stato il modello principale di riferimento: la Convenzione di Vienna del 1988.

In effetti, in ossequio a tale documento, prima di tutto al delitto fu conferito ufficialmente il nomen di «riciclaggio» e – nell’ottica di attribuirgli una certa qual forma di autonomia rispetto ai reati presupposto, nonché di creare un continuum di rilevanza penale teso a costruire una tutela molto estesa nel contrasto ad un fenomeno che appariva assai multiforme – sul piano strutturale fu abbandonato il modello della fattispecie di attentato e il momento consumativo fu ricondotto al completamento fattuale della condotta. [45]

L’intento, poi, di perseguire in materia la filosofia espansionistica propria della Carta austriaca spinse il Legislatore ad allargare l’oggetto materiale del delitto, ora ricomprendente il più ampio concetto di “utilità”, in modo tale che non potesse essere escluso dalla novella previsione incriminatrice alcun provento di reato.


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]



Da ultimo – oltre ad una meditata revisione del trattamento sanzionatorio (concretizzatasi nell’innalzamento del massimo edittale di pena detentiva), nonché alla aggiunta della aggravante riferita alla perpetrazione della condotta riciclatoria nell’ambito dell’esercizio di una attività professionale – fu esteso l’elenco dei reati base ai delitti concernenti la produzione e il traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope: un inserimento – lo stesso – che, giustificato da una sempre più crescente convinzione delle caratteristiche intrinseche della “narco-criminalità”, quali la sua natura propriamente transnazionale e la sua nota e indiscussa capacità di generare ingenti quantitativi di denaro, scaturiva con ogni evidenza dalla assimilazione del modello legislativo statunitense, di fatto ormai assurto a decisivo antecedente storico.

La legge “Gava-Vassalli” accelerò indiscutibilmente quella che – da qualche anno, in quasi tutte le democrazie liberali dell’Occidente – andava sviluppandosi come nuova e importante prospettiva d’azione del diritto penale dell’offesa: l’abbandono, cioè, della visione classica (tipica anche dell’intervento del 1978) della sanzione criminale, incentrata fino ad allora sul danno al patrimonio dei singoli individui, per una tutela che – proprio in considerazione dei profondi mutamenti sociali e delle relazioni intersoggettive – avrebbe dovuto abbracciare anche interessi economici più generali e concernenti lo scardinamento di quei bacini finanziari fortemente distorsivi e inquinanti il mercato legale. [47]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Ma ecco che, a distanza di pochi mesi, di nuovo lo scenario internazionale tornò ad essere la spinta propulsiva per una ennesima futura riforma dell’art. 648-bis c.p..

Infatti, in ossequio alle indicazioni impartite dal G.A.F.I. e in anticipo rispetto alla adozione della direttiva europea n. 91/308, [51] l’8 novembre 1990 il Consiglio d’Europa depositò a Strasburgo – sottoponendola alla firma dei Paesi membri – la Convenzione n. 141, il cui oggetto verteva «Sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato». [52] Tale rilevantissimo documento, nato dalla esigenza di porre un freno all’evolversi transnazionale del fenomeno delittuoso, muoveva i suoi passi nel solco tracciato dalla Convenzione di Vienna, ampliandone sensibilmente le prescrizioni; in particolare, il combinato disposto degli articoli 1 e 6 si poneva l’obiettivo di definire in modo più puntuale l’illecito in esame [53].


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Sulla falsariga dell’Accordo di Strasburgo, allora, il Parlamento italiano – come dire – di necessità fece virtù. Contestualmente, infatti, alla doverosa ratifica ed esecuzione di quel documento, la l. n. 328 del 9 agosto 1993 (art. 4) ridisegnò di nuovo la fattispecie prevista e punita dall’art. 648-bis c.p., donandole quelle caratteristiche strutturali tutt’ora vigenti. [57]

La novità più vistosa fu senza dubbio lo scardinamento della indicazione tassativa degli illeciti presupposto; un mutamento sostanziale – lo stesso – determinante una lettura dinamica della disposizione: in effetti, la clausola di selezione dei reati fonte, ora ricomprendente ogni ipotesi delittuosa non colposa, faceva guadagnare alla norma in estensione e flessibilità, dal momento che – a quel punto – la relativa area di punibilità sarebbe stata adattabile e compatibile agli incessanti cambiamenti della natura, dei mezzi e dei sistemi di attuazione del fine di riciclaggio, consentendo un solido continuum di tutela penale tra substrati di incriminazione di fatto contigui. [58]


[Omissis - Versione integrale presente nel testo]


Oggi quindi, nonostante la previsione incriminatrice rimanga ancora ben lungi dall’offrire uno strumento di contrasto efficace, oltre che bilanciato, a ragione possiamo comunque individuare nella riforma del 1993 il completamento del cammino di emancipazione del delitto descritto nell’art. 648-bis c.p.: quella legge, infatti, non solo contribuì ad un importante affinamento della disciplina de qua – fornendo al reato un crisma di sufficiente autonomia e specificità rispetto ad ipotesi limitrofe – ma testimoniò definitivamente, in forza della modifica apportata anche all’art. 648-ter c.p., [61] l’unitaria e innata dimensione contestuale nella quale doveva e deve essere studiato e debellato il riciclaggio, inteso come fenomeno criminoso “ad alta tecnologia”. [62]