Riciclaggio di denaro: il bene giuridico protetto e il soggetto attivo

Il bene giuridico protetto e l'oggetto materiale

La scelta legislativa di collocare fin dall’inizio la fattispecie di riciclaggio all’interno del Libro II, Titolo XIII, Capo II del codice Rocco – opzione, questa, che il Parlamento non ha mai abiurato, neanche in seguito al varo di strutturali interventi di politica criminale sulla originaria versione del 1978 (vere e proprie revisioni “tipologiche” che riflettevano la consapevolezza di determinati eventi giuridici, implicati dal precipuo comportamento incriminato) – da sempre ha spinto gli interpreti ad ascrivere l’offesa caratterizzante tale delitto in seno alla tutela del patrimonio.[1]

Del resto, l'asserito (in dottrina e giurisprudenza) collegamento “genetico” dell’illecito con la figura della ricettazione – dalla quale sarebbe stato forgiato per specificazione [2] – non ha certo favorito lo sviluppo, in ordine all’art. 648-bis c.p., di una dogmatica realmente autonoma rispetto a quella maturata in riferimento all’art. 648 c.p.; anzi, l’affermata categorizzazione di quest’ultimo delitto tra quelli c.d. di “perpetuazione e consolidamento di un danno patrimoniale” è stata, nel corso del tempo, forse l’unica costante acriticamente riproposta nelle pur molteplici e diverse ricostruzioni ermeneutiche (dovute al complessivo avvicendarsi di tre differenti modelli criminalizzatori) della fattispecie di riciclaggio: come a dire che la ostinata volontà di mantenere tra i due reati una evidente prossimità topografica – dettata, appunto, dalla circostanza per la quale entrambi costituiscono delitti di “azione” su beni provenienti da delitto – dimostra il palese intento del Legislatore di fare della incriminazione del riciclaggio, al di là di suoi pregnanti tratti degni di separata nota, l’occasione di una ulteriore e complementare forma di protezione di quegli stessi beni, già tutelati da determinate classi di reati presupposto, dal “rischio di successiva dispersione”. [3]


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Ma anche tali nuove oggettività giuridiche – seppure rappresentino il portato di un apprezzabile sforzo di autonomizzazione del reato di cui all’art. 648-bis c.p. che, grazie alle stesse, certamente delinea, rispetto alla figura della ricettazione, l’anima più moderna (la c.d. “seconda velocità”) [10] del diritto penale – per vero non sembrano affatto cogliere l'ubi consistam dell’attitudine protettiva del riciclaggio.

Entrambe, in effetti, al di là della loro più volte criticata consistenza evanescente, [11] palesano una fuorviante superfetazione dogmatica.

Sia l’economia pubblica (nella sua dimensione sociale), [12] sia l’ordine pubblico (che, in relazione al fenomeno riciclatorio, altro non è che l’economia pubblica nella sua dimensione istituzionale) [13] riflettono – ad avviso di chi scrive – una errata interpretazione del proprium dell’elemento oggettivo della fattispecie in parola: infatti, ciò che si concretizza – di per sé – con la condotta di sostituzione, trasferimento o con il compimento di altre simili operazioni non è affatto una distorsione dei vari mercati [14] (sotto il profilo degli equilibri della domanda e dell’offerta), un pregiudizio alla efficienza e stabilità degli interventi pubblici incidenti sui medesimi, ovvero una alterazione delle corrette dinamiche concorrenziali, bensì la dissimulazione di tracce che portano alla scoperta del compimento di un precedente reato; gli eventi di cui sopra, a ben vedere, piuttosto costituiscono gli effetti reali di un’altra e diversa tipologia di condotta (quella di “impiego” di illecite disponibilità), oggetto di specifica incriminazione nell’art. 648-ter c.p., ossia un delitto che – seppure idealmente collocabile come momento terminale di una progressione criminosa, ove il primo step è dato dal delitto presupposto e il passaggio intermedio, appunto, dal riciclaggio – per vero stigmatizza una dorsale offensiva differente e del tutto autonoma rispetto a quella del delitto di cui all’art. 648-bis c.p..


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È innegabile, d'altronde, come la condotta – tra tutti gli elementi strutturali di un illecito penale – rivesta una sicura centralità nella individuazione dell'interesse tutelato: alla ricostruzione di quest'ultimo, infatti, contribuisce ciascuna componente descrittiva della norma, ma è proprio sull'azione criminosa – e, in particolare, sulla “direzionalità” più o meno esplicita della stessa – che si edifica quella corrispondenza biunivoca tra “fatto” e “offesa” la cui sintesi, che si esprime in termini di “situazione lesiva”, necessariamente ruota intorno ad uno specifico perno. Che poi tale perno, sempre in virtù dell'intero contenuto precettivo, si integri con circostanze collaterali dalle quali dipende l'entità dell'allarme sociale, che a sua volta determina quello che viene definito il “danno criminale” prodotto dal fatto tipico, è un altro discorso. Il bene giuridico, quindi, emerge in modo pregnante laddove trova spazio, in seno alla descrizione del fatto tipico, una certa polarizzazione della direzione lesiva del sostrato fattuale.


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Dunque, non è chi non veda come il centro gravitazionale della correlazione tra fatto e offesa nella fattispecie di riciclaggio sia, precipuamente, il regolare e corretto espletamento del potere-dovere di investigare sulla commissione di illeciti penali, e quindi il bene dell'amministrazione della giustizia, intesa come possibilità della giustizia di spiegare i propri effetti reali conseguenti ad un reato (sequestri probatori, preventivi e conservativi; confische; sanzioni civili), anche a prescindere dalla punibilità dell'autore “persona fisica” dello stesso reato. L'economia pubblica e l'ordine pubblico, invece, rilevano – sullo sfondo – come entità identificative del danno criminale.

Del resto, la prima (rectius, l'unica autentica) necessità per il riciclatore è precisamente quella di evitare che i proventi illeciti (trasferiti, sostituiti, ecc.) vengano riconosciuti come tali: egli è senz'altro disposto a compiere anche operazioni non convenienti, se non in perdita, se queste – però – si rivelano le più appropriate per impedire che sia identificata la fonte delle disponibilità impiegate.

Se resulta impossibile, per ipotesi, nascondere l'origine del provento che si vuole “sostituire” o “trasferire”, resulta compromessa ab initio l'operazione di riciclaggio, e dunque chi ha l'intenzione di riciclare si ferma in partenza. Chi ricicla, lo si ribadisce, ha in mente un solo pensiero: far sparire le tracce di un precedente reato e solo in ottemperanza a questa preoccupazione direziona il proprio comportamento, indipendentemente (e cioè a prescindere) da obiettivi di profitto per sé o per altri, nonché dalla consapevolezza dei contesti sui quali andrà ad incidere la sua azione.

Da ultimo, non possiamo però esimerci dal formulare una critica allo schema concettuale della “plurioffensività” del delitto di riciclaggio, funzionale – pur in coscienza della assoluta centralità del bene dell'amministrazione della giustizia nel fondamento della incriminazione della fattispecie – a mantenere l'economia pubblica e l'ordine pubblico all'interno dello spettro di tutela disegnato dall'art. 648-bis c.p.: in effetti, al di là della circostanza per la quale un simile schema tende a mettere in crisi la funzione critico-selettiva dei fatti realmente offensivi – propria dell'oggetto giuridico – con il rischio, peraltro, che la giurisprudenza, nella applicazione concreta della norma incriminatrice, trovi sempre e comunque un bene offeso dalla condotta posta in essere, è a dire che l'offesa di quei macro-interessi, proprio per il fatto che gli stessi si pongono sullo sfondo dello scenario di tutela disegnato dal riciclaggio, per verità è inevitabilmente condizionata dalla fisionomia concreta che potrebbe assumere quel fenomeno nel suo storicizzarsi.


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Quanto all'oggetto materiale del reato, brevi considerazioni. Da un lato, la giurisprudenza – soprattutto di merito – ritiene che non qualsiasi bene possa costituire il “bersaglio” della condotta punibile ai sensi dell'art. 648-bis c.p., ma soltanto quello che evochi un paradigma di sostanziale liquidità o spendibilità comparabile ed omogeneo al bene-denaro: in altre parole, deve trattarsi di un quid che resulti idoneo a concretizzare la medesima utilità di impiego economico propria del contante. [17] Dall'altro – e in senso opposto – la giurisprudenza di legittimità ritiene invece che il termine “beni” debba essere ricompreso nel concetto generale desumibile dall'art. 810 c.c., ossia come qualsiasi “cosa” che possa formare oggetto di diritti. [18]

La preoccupazione della Suprema Corte, naturalmente, è ed è sempre stata il rischio di una compressione dell'area di applicabilità della fattispecie: invero, proprio accogliendo l'orientamento di merito, tutt'altro che peregrino ed anzi esegeticamente fondato, non è chi non veda come il concetto di “bene” previsto nell'art. 648-bis c.p. resulti addirittura più ampio di quello di “cosa” (richiamato nel delitto di ricettazione), ricomprendendo – oltre ai beni materiali (che sono, per l'appunto, “cose”) – anche i beni e i diritti immateriali [19] (oggetto, questo, poi ulteriormente esteso dalla locuzione espressiva “altre utilità”).


Il complesso regime del soggetto attivo

Il delitto di riciclaggio può essere commesso da qualsiasi persona, ma non rientra pienamente nella notissima, quanto diffusissima, categoria dei “reati comuni”. Infatti, il termine chiunque si scontra con un'altra locuzione espressiva, anch'essa testuale, da cui si evince l'esclusione della punibilità – ai sensi dell'art. 648-bis c.p. – di chi ricicla i proventi di attività delittuosa di cui egli stesso è l'autore, anche in qualità di concorrente: tale clausola c.d. “di riserva”, è appena il caso di precisarlo, è ancora oggi pienamente valida e ancora oggi dispiega i propri effetti nonostante la recentissima (4 dicembre 2014) trasformazione in legge della proposta di introduzione nel codice Rocco dell'art. 648-ter. 1. che, rubricato “Autoriciclaggio”, al di là della sua morfologia assai discutibile, segno più di un “pasticciaccio” di gaddiana memoria che di una ragionevole opera emendativa di una grave lacuna ordinamentale ormai esclusivamente italiana, nel suo essere fattispecie autonoma (rectius, “aggiuntiva”) nulla modifica – in effetti – della dinamica strutturale del reato in commento nel presente volume; [20] anzi, tale clausola non solo resiste (quantomeno sul piano della sua astratta previsione legislativa), ma continua ancora a far sì che il delitto di riciclaggio, disciplinato dall'art. 648-bis c.p., debba essere considerato – più correttamente – come un illecito penale comune ma “a soggettività ristretta”. [21]


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Dunque, per singolare che possa sembrare, è proprio in virtù della clausola iniziale di riserva che, implicitamente, l'incriminazione per riciclaggio – se idonea a colpire, nella fase primaria del c.d. “placement”, solo comportamenti sul lato della domanda – resulta di continuo rinnovabile, nella fase secondaria del c.d. “layering”, tanto in riferimento alla condotta di chi offre, quanto in riferimento alla condotta di chi richiede le disponibilità illecite. [23]

Semmai, la presenza di siffatta clausola impone una questione di fondamentale importanza: individuare il criterio per distinguere la responsabilità a titolo di riciclaggio da quella per il concorso nel delitto presupposto.

In proposito, va subito detto che tale criterio non può essere solo quello temporale: in effetti, è pur vero che l'eventuale esistenza di un accordo intercorrente tra l'autore dell'illecito fonte e il riciclatore – finalizzato a “ripulire” il provento – se precedente il compimento del reato base solleciterebbe nella mente dell'interprete l'immagine della ipotesi concorsuale, [24] mentre qualora resulti successivo (o addirittura neppure intervenga) spingerebbe ad immaginare, in capo al ricevente il provento, un fatto di autonoma rilevanza, [25] tuttavia è anche necessario accertare caso per caso l'efficacia causale dello stesso accordo, il quale – anche se preventivamente intercorso – può non aver influito, nemmeno nella formazione del concorso morale, sulla determinazione a commettere il delitto presupposto.


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Orbene, premesso come la fattispecie associativa – in quanto illecito virtuale, che proietta la propria carica offensiva nella realizzazione di un programma delinquenziale – si perfeziona ed è punita di per sé, a prescindere dalla attuazione dei propri scopi, [28] una associazione per delinquere “semplice” (art. 416 c.p.), nonostante resulti teoricamente inseribile nel novero dei reati base del riciclaggio (è infatti un delitto non colposo), [29] in sé non è tuttavia idonea a dare origine a fatti punibili ex art. 648-bis c.p., dal momento che nella sua fisionomia statica tipizzata dalla norma di riferimento non è capace di generare alcun lucro. [30]

Se però la mera appartenenza al sodalizio e alla sua attività resultano in qualche modo remunerati (nel senso che hanno un “profitto”), ovvero ci troviamo di fronte ad una associazione per delinquere “qualificata” (art. 416-bis c.p.), il cui modello legale contempla la possibilità che – anche prima e a prescindere dalla realizzazione del programma criminoso – i sodali, per effetto della forza esercitata dal vincolo associativo, ben possano entrare in possesso di disponibilità economiche, [31] ecco allora come resultino ipotizzabili condotte di riciclaggio per opera degli associati.

Tuttavia, proprio l'applicazione del criterio giurisprudenziale del previo accordo, temperato dal principio generale del concreto contributo eziologico nel perfezionamento del reato presupposto, conduce a ritenere il sodale “stipendiato” e il sodale “qualificato” – i quali occultano i profitti derivanti dalla associazione – riciclatori sul piano eminentemente materiale, ma non giuridico. In effetti, nel primo caso, non è chi non veda come lo stesso consenso del soggetto ad essere membro della associazione costituisca un apporto fattivo alla definizione del relativo piano organizzativo, e quindi alla realizzazione del lucro a lui direttamente derivante dalla creazione del vinculum sceleris scaturente dal piano; [32] nel secondo, invece, è il carattere mafioso (o camorrista, o 'ndranghetista) del sodalizio a rendere quest'ultimo di per sé idoneo a produrre guadagni, posto che la peculiare carica di illiceità insita nella forza intimidatrice del vincolo associativo, nella condizione di assoggettamento e nella condizione di omertà informa di sé, contaminandolo, anche l'esercizio di attività eonomiche formalmente lecite o, più in generale, non vietate dall'ordinamento. [33]

Rebus sic stantibus, l'associato che ricicla i predetti profitti per vero camuffa il provento di un delitto del cui perfezionamento è stato ed è parte attiva: dunque, operando la clausola di riserva, egli è punibile solo come associato (e oggi anche come autoriciclatore, ex art. 648-ter. 1. c.p.) e non anche per riciclaggio (ex art. 648-bis c.p.). In altri termini, nelle predette ipotesi, la condotta di associazione sussume (assorbe) tout-court quella di riciclaggio, ma non (oggi) quella di autoriciclaggio, con cui formalmente concorre.


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Solo nel primo caso la mera compartecipazione sociale del riciclatore può caricarsi di una valenza specifica di assistenza per l'attuazione dei delitti fine: l'opera di occultamento dei ricavi sociali, cioè, può ritenersi già oggetto di un accordo, anche solo implicito, nel fatto stesso della appartenenza alla associazione e sarebbe assai difficile sostenere come tale opera (o meglio, tale appartenenza implicante consenso a quell'opera) non rafforzi, quantomeno sotto il profilo psicologico, il proposito degli altri associati che si accingono a compiere gli illeciti destinati a produrre lucro; dunque, l'associato che ricicla proventi di delitti fine programmati in anticipo dal sodalizio, anche se non ha materialmente contribuito alla realizzazione del fatto fine lucroso, non può essere punito per riciclaggio (semmai, oggi, per autoriciclaggio), resultando detta punibilità interamente assorbita in quella della fattispecie associativa.

Per contro, nel secondo caso, il ruolo del sodale-riciclatore è del tutto estemporaneo, eventuale, o comunque imprevisto – se non altro perché è imprevista ed eventuale la stessa produzione di ricavi – e quindi emerge dalla compagine sociale solo allorquando se ne presenti la necessità: qui, in capo all'associato-riciclatore, difetta ogni previa consapevolezza circa il proprio apporto alla associazione nel momento in cui vi entra a far parte; dunque, l'associato che ricicla proventi derivanti da delitti fine non pianificati ab initio dal sodalizio (e alla realizzazione dei quali non ha materialmente contribuito), se da un lato – per il solo fatto di essere un sodale – non pone in essere una condotta oggi definibile e punibile come autoriciclaggio, dall'altro – però – resulta punibile a tutti gli effetti tanto per il delitto associativo, quanto per il delitto di riciclaggio, verificandosi – nella specie – una ipotesi di concorso formale di reati.

Da ultimo, l'analisi del regime del soggetto attivo dell'illecito previsto e punito dall'art. 648-bis c.p. impone considerazioni – seppur brevi – sulla circostanza aggravante speciale, ad effetto comune, disciplinata nel comma 2 della norma, nonché sui rapporti intercorrenti tra quest'ultima e l'eventuale figura dell'agente provocatore.

Riguardo alla prima questione, la pena è aumentata per chi abbia commesso il fatto criminoso nell'esercizio di una attività professionale: l'ipotesi circostanziale tende ad incidere sul pericoloso collegamento tra la criminalità ed esperti professionisti che – in forza del proprio lavoro – possono più agevolmente trovarsi nelle condizioni di realizzare i comportamenti incriminati, separando i profitti illeciti dai delitti a monte. Il punctum pruriens concerne l'evidente deficit di tassatività della specifica disposizione: in effetti, la locuzione espressiva “attività professionale” resulta troppo generica. Allo stato tuttavia – nonostante in dottrina vi sia chi utilizzi, come parametro di individuazione, l'elenco previsto dall'art. 26 della l. n. 55/1990, [35] o quello di cui all'art. 49 del D.lgs. n. 231/2007, [36] ovvero chi apra alle professioni genericamente attinenti alla circolazione di denaro, merci e servizi [37] – il concetto deve essere desunto in via interpretativa estensivamente, anche al di là dei tradizionali statuti pubblicisti, per ricomprendervi tutte le attività regolamentate pubblicisticamente in via diretta o indiretta; in ogni caso, vi è unanime accordo sul fatto che debba sempre e comunque sussistere, ai fini della applicabilità dell'aggravante, un nesso funzionale tra l'attività svolta e il fatto di riciclaggio. [38]


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Invero, qui la poca chiarezza dipende solo da una apparente convergenza, su un medesimo fatto, di profili di diversa natura; ma, appunto, si tratta solo di “apparenza”, nel senso che – in realtà – i due profili (l'illecito penale e l'illecito amministrativo) non convergono su un medesimo fatto, bensì soltanto su una medesima situazione (rectius, su un medesimo contesto): in effetti, mentre la condotta oggetto dell'illecito penale è l'operazione in sé di sostituzione, trasformazione et similia, la condotta oggetto dell'illecito amministrativo – invece – è la mancata segnalazione della operazione eseguita; dunque, con ogni evidenza, si tratta di responsabilità diverse, attinenti a fatti diversi, tra loro ragionevolmente concorrenti. [42]


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