Interventi edilizi e titoli abilitativi

Gli interventi edilizi ed urbanistici

Interventi di manutenzione straordinaria

Ai sensi dell’art. 3, co. 1 lett. b) T.U., con l’espressione interventi di manutenzione straordinaria si intendono "le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso".

Gli interventi in questione sono assoggettati a s.c.i.a.

Ove vengano realizzati in assenza di questa, è prevista l’applicazione della sola sanzione amministrativa di cui all’.art 37, co. 6 T.U., ai sensi del quale "la mancata denuncia di inizio dell’attività non comporta l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 44".

La condotta in violazione delle prescrizioni di legge è, quindi, priva di disvalore penale.

Gli interventi in esame sono finalizzati alla conservazione del bene ed incidono direttamente sulle parti strutturali dell’edificio, anche sostituendole o rinnovandole.

Ne discende che essi presuppongono un edificio già ultimato e funzionante, del quale si intende conservare o rinnovare la funzionalità. Deve, quindi, trattarsi di mero recupero del patrimonio edilizio esistente [1].

Come rilevato dalla recente giurisprudenza di legittimità [2], affinché possa qualificarsi come di manutenzione straordinaria, l’intervento incontra due limiti: uno di ordine funzionale, e uno di ordine strutturale. Essi consistono, rispettivamente, nella necessità che i lavori siano rivolti alla mera sostituzione o al rinnovo di parti dell’edificio; e nel divieto di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutarne la destinazione. In ogni caso, gli interventi devono essere effettuati nel rispetto degli elementi tipologici, strutturali e formali nella loro originaria edificazione.

È nel secondo limite che risiede il discrimine tra interventi di manutenzione straordinaria e di ristrutturazione edilizia. Questi ultimi, difatti, non sono vincolati al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente [3].

Per l’esatta delimitazione della portata della previsione di cui all’art. 3, co. 6, lett. c) T.U., soccorre l’art. 1005 c.c., che contiene un’elencazione, tutt’altro che tassativa, degli interventi di riparazione straordinaria. Secondo la previsione in parola, con essi si intendono quelli necessari "ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero e per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta".

Conformemente alle considerazioni suesposte, sono stati individuati in via giurisprudenziale una serie di interventi che rientrano certamente nella categoria in esame.

In particolare, si fa riferimento a quelli di:
  • sostituzione di infissi esterni e serramenti, persiane o serrande, con modifica del materiale o della tipologia d’infisso;

  • realizzazione ed integrazione di servizi igienico-sanitari, senza alterazione dei volumi e delle superfici;

  • realizzazione di chiusure o aperture interne che non comportino la modifica dello schema distributivo delle unità immobiliari dell’edificio;

  • rifacimento di scale e rampe;

  • sostituzione di solai in struttura lignea di un fatiscente edificio rustico con altro in cemento armato, sempre che non si alterino superficie e volumi dell’unità immobiliare;

  • sostituzione di tramezzi interni, senza alterazione della tipologia di unità immobiliare;

  • realizzazione di elementi di sostegno di singole parti strutturali;

  • interventi di risparmio energetico;

  • rifacimento di intonaci o coloriture esterne;

  • rifacimento di pavimenti o rivestimenti interni ed esterni;

  • consolidamento delle strutture di fondazione o di elevazione;

  • costruzione di vespai o scannafossi, anche con rialzamento del piano-pavimento;

  • demolizione di tramezzi e costruzione di scale, qualora interessino l’interno del fabbricato e non modifichino l’originaria volumetria dell’immobile, né la sua destinazione d’uso.


Al contrario, ne restano esclusi, a titolo esemplificativo, gli interventi di:
  • ricostruzione del tetto con una diversa pendenza e con un’altezza superiore a quella preesistente, come tale incidente sulla volumetria dell’immobile;

  • sopraelevazione di un edificio;

  • apertura di balconi o di finestre nel muro esterno di un edificio;

  • realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di una abitazione;

  • ricostruzione o ristrutturazione di una vecchia terrazza abusiva, anche non modificativa della sagome o del volume esistenti, ma comunque relativa ad un immobile illegittimamente costruito;

  • realizzazione di locali tipo mansarda, mediante sopraelevazione del tetto e suddivisione delle falde rialzate con muro;

  • trasformazione di un balcone in veranda, con copertura dei pannelli di vetro su intelaiatura metallica [4].


In ogni caso, gli interventi di manutenzione straordinaria, come quelli relativi a opere interne, di ristrutturazione edilizia, o di risanamento conservativo, sono assoggettati al permesso di costruire ogni qual volta mutino la destinazione d’uso tra categorie di interventi funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistici e, ove debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino cambiamento della destinazione d’uso. Diversamente, ove gli stessi debbano essere realizzati fuori dei centri storici e comportino mutamento della destinazione d’uso all’interno di una categoria omogenea, necessitano, invece, della semplice s.c.i.a [5].

Infine, la Suprema Corte ha recentemente ribadito l’esclusione [Omissis - versione integrale presente nel testo].


Interventi di restauro e risanamento conservativo

Ai sensi dell’art. 3, co. 1 lett. c) T.U., gli interventi di restauro e risanamento conservativo sono quelli "rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurare la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, consentano destinazioni d’uso con esso compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio".

L’intervento di restauro e risanamento conservativo è un quid pluris rispetto alla manutenzione straordinaria, perché non ha una mera finalità conservativa, ma è teso ad una vera e propria riqualificazione dell’immobile, attraverso l’eliminazione delle carenze strutturali e funzionali che si manifestano in ragione della perdita delle originarie caratteristiche di funzionalità e di sicurezza dell’edificio [7].

La finalità della norma succitata è duplice: da un lato, col restauro, si intende valorizzare le caratteristiche storiche, artistiche e ed architettoniche dell’edificio; dall’altro, con il risanamento, si tende al miglioramento delle esigenze d’uso del bene stesso.

Analogamente agli interventi di ristrutturazione straordinaria, anche quelli in esame devono necessariamente riguardare un edificio già ultimato e funzionante, del quale si intende conservare o rinnovare la funzionalità. Devono, quindi, avere ad oggetto un fabbricato preesistente, ma non del tutto demolito, versandosi in tale seconda ipotesi nella categoria della ristrutturazione edilizia [8].

Inoltre, a differenza della ristrutturazione, che può comportare interventi di inserimento di nuovi elementi ed impianti, la categoria degli interventi di restauro e risanamento si limita a consentire l’inserimento di elementi accessori e di impianti richiesti dalle esigenze d’uso.

Al riguardo, la Suprema Corte ha specificato che "la ristrutturazione edilizia (non vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio esistente) differisce dal restauro e risanamento conservativo (che non può modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d’uso “compatibili” con l’edificio conservato). La stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi ad altri tipi di interventi: l’elemento caratterizzante, però, è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate partitamente, ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo" [9].

Quanto al titolo abilitativo richiesto, gli interventi di restauro e risanamento conservativo sono subordinati a semplice s.c.i.a. e, quindi, restano assoggettati alla sola sanzione amministrativa di cui all’art 37, co. 6, T.U., essendo privi di disvalore penale [10].

A titolo esemplificativo, tra essi vi rientrano le attività di:
  • modifica tipologica delle singole unità immobiliari per una più funzionale distribuzione;

  • innovazione delle strutture verticali ed orizzontali;

  • ripristino dell’aspetto storico-architettonico di un edificio, anche tramite la demolizione di superfetazioni,

  • adeguamento delle altezze dei solai, nel rispetto delle volumetrie esistenti;

  • realizzazione di un secondo bagno;

  • modifica delle disposizioni di finestre e portoni;

  • creazione di una pluralità di appartamenti nel medesimo complesso edilizio;

  • rinnovazione parziale dei muri perimetrali di un edificio, con sostituzione delle pareti perimetrali in eternit con muri perimetrali di cemento;

  • rifacimento del tetto senza modificazione della superficie, della volumetria e della destinazione del manufatto originario;

  • costruzione di una fioriera con banco di lavoro, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo e della destinazione d’uso;

  • esiguo aumento della superficie utile necessario per la migliore sistemazione dei servizi igienici;

  • rinnovo di alcuni elementi costitutivi di un edificio e ampliamento dello stesso mediante unificazione con un’attigua unità immobiliare dello stesso proprietario;

  • realizzazione di un bagno pensile di 2,5 mq, una finestra ed una canna fumaria, durante il restauro di un fabbricato preesistente [11].


È stato chiarito, invece, che gli interventi di restauro e risanamento conservativo, al pari di quelli di ristrutturazione edilizia e di manutenzione straordinaria, richiedono il permesso di costruire ogni qual volta determinino un mutamento di destinazione d’uso tra categorie di interventi funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, ove debbano essere effettuati in centri storici, anche nel caso in cui determinino un mutamento di destinazione d’uso all’interno di una categoria omogenea [12].

Ne consegue che è da considerarsi estranea alla categoria in esame, ad esempio, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, comportando essa un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile, quando questa comporti un aumento, anche modesto, del volume dell’unità abitativa.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha specificato la nozione di volume tecnico, facendovi rientrare solo i volumi adibiti alla sistemazione di impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione e che non possono essere ubicati all’interno della parte abitativa.

Secondo il giudice di legittimità [13], occorre, al riguardo, tener conto di tre parametri. Il primo, di ordine funzionale, riguarda il rapporto di strumentalità tra il manufatto e la struttura cui si connette; il secondo, attiene all’impraticabilità di soluzioni progettuali diverse; il terzo, alla proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.

Pertanto, rientrano nella nozione di volumi tecnici [Omissis - versione integrale presente nel testo].


Demolizione, scavi e reinterri

L’intervento di demolizione non trova una propria definizione nelle norme attuali. Si può descrivere come opposto della costruzione, e consiste nell’abbattere gradualmente edifici o altre strutture.

La demolizione di opere riguarda lo "smontaggio di impianti industriali e la demolizione completa di edifici con attrezzature speciali ovvero con uso di esplosivi, il taglio di strutture in cemento armato e le demolizioni in genere, compresa la raccolta dei materiali di risulta, la loro separazione e l’eventuale riciclaggio nell’industria dei componenti" [15].

Questo intervento è annoverato tra le diverse tipologie di opere o dei lavori insieme alla costruzione, al recupero, alla ristrutturazione, al restauro, alla manutenzione, al completamento e alle attività ad essi assimilabili, e rientra anche tra quelli di ristrutturazione edilizia nel caso siano previsti interventi di demolizione e successiva ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quella esistente.

Sotto il vigore della previgente disciplina di cui alla L. 94/1982, il regime giuridico degli interventi edilizi aventi ad oggetto la sola demolizione, senza ricostruzione, ha subito una profonda modifica, così come la disciplina delle pertinenze, degli interventi di manutenzione straordinaria, degli scavi e dei reinterri.

L’art. 7, lett. c), della legge succitata, abrogato dall’art. 136 T.U., infatti, prevedeva l’autorizzazione gratuita per le opere di demolizione, i reinterri e gli scavi, che non riguardassero la coltivazione di cave e torbiere, purché conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti, e non sottoposte ai vincoli previsti dalla L. 1089/39 e dalla L. 1498/39.

Dalla disciplina vigente, invece, si evince che la mera demolizione, senza ricostruzione, può essere realizzata mediante semplice s.c.i.a, salvo che non sia specificamente vietata dagli strumenti urbanistici o dalla relativa normativa.

Già dopo l’entrata in vigore della L. 94/1982, l’orientamento giurisprudenziale prevalente è stato concorde nell’escludere che l’esecuzione di interventi di demolizione in assenza dell’autorizzazione medesima potesse configurare un’ipotesi di reato.

Di recente, la Suprema Corte si è espressa ancora in tal senso. Ha chiaramente ribadito, infatti, che "la semplice demolizione di un manufatto non integra il reato di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), in quanto per tale tipo di intervento è sufficiente la denuncia di inizio attività, la cui mancanza costituisce illecito amministrativo" [16].

Il carattere di reità è stato escluso anche per il caso in cui un soggetto munito di titolo abilitativo per procedere alla ristrutturazione di un fabbricato, "abbia demolito l’intero immobile con l’intento di una totale ricostruzione e l’illecito si sia esaurito nel solo fatto della demolizione senza ulteriore attività edilizia", sempre che la demolizione non sia avvenuta in contrasto con le prescrizioni urbanistiche vigenti e con i vincoli previsti in materia di beni culturali e ambientali [17].

Quanto, infine, al rapporto tra demolizione dell’opera abusiva ed estinzione del reato, il prevalente orientamento giurisprudenziale è costante nel senso di escludere che tale intervento comportasse addirittura l’estinzione del reato.

Il comportamento in questione potrà, al più, rilevare ai fini della determinazione della pena, della mancanza di un danno penalmente rilevante e della buona fede dell’imputato [18].

Analoghe considerazioni, sia sotto il profilo del titolo abilitativo richiesto, che delle conseguenze della sua violazione, possono essere svolte per i lavori di scavo che non riguardino cave o torbiere.

Anche per questi, infatti, è prevista la semplice s.c.i.a., con applicazione della mera sanzione amministrativa nell’ipotesi di sua mancanza.

Occorre, tuttavia, effettuare un distinguo: non tutti gli scavi sono indistintamente soggetti a s.c.i.a.. Difatti, quelli diretti ad evidenti finalità edilizia richiedono, piuttosto, il permesso di costruire. Ne consegue che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 44 T.U., tutte quelle attività di scavo non assentite da permesso di costruire, che siano dirette alla realizzazione di infrastrutture, di impianti, o di deposito di merci e di materiali, che comportino la trasformazione permanente del suolo inedificato, incidendo sul tessuto urbanistico del territorio [19].

Inoltre, restano in ogni caso ferme le sanzioni penali per le ipotesi di intervento di scavo che, a prescindere dalla s.c.i.a., siano comunque in contrasto con le prescrizioni di legge, di regolamenti edilizi, di strumenti urbanistici generali, e coi vincoli storico-artistici o paesaggistico-ambientali sul territorio.

In questi casi, infatti, gli interventi sono soggetti a permesso di costruire, la cui mancanza comporta l’applicazione di sanzioni penali.

Restano, ad esempio, esclusi dalla semplice s.c.i.a. gli interventi di realizzazione di una fossa di rilevanti dimensioni destinata a liquami di una porcilaia; oppure, quelli di scavo per eseguire le fondazioni di un fabbricato.

Infine, quanto ai reinterri, con tale espressione si fa riferimento ai lavori diretti al riempimento di una cavità o di una depressione del suolo, oppure di uno scavo preesistente.

Essi necessitano del permesso di costruire quando comportino una vera e propria trasformazione urbanistica del territorio [20].

In ogni caso, come per gli scavi, i reinterri non devono riguardare cave o torbiere che, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale, è materia riservata alla competenza delle Regioni, da non confondersi con l’edilizia, riservata ai Comuni.


Il Permesso di costruire

Opere soggette a rilascio, soggetti legittimati e competenza

Sono soggetti al previo rilascio del permesso di costruire tutti gli interventi riconducibili all’elenco di cui all’art. 10 D.P.R. 380/2001.

Ai sensi del co. 1 dello stesso, "costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire:
  • gli interventi di nuova costruzione;

  • gli interventi di ristrutturazione urbanistica;

  • gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino un aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti di destinazione d’uso".


Le prime due categorie richiamano gli interventi definiti dall’art. 3 del medesimo D.P.R.; la terza, invece, individua un’ulteriore sottocategoria all’interno della ristrutturazione edilizia, la quale può definirsi di ristrutturazione pesante, per differenziarla dagli interventi rientranti nella categoria citata, ma soggetti a semplice s.c.i.a.

A tal proposito, la giurisprudenza include tra le ipotesi di ristrutturazione edilizia solo quegli interventi di demolizione e ricostruzione che mantengano volumetria e sagoma dell’immobile preesistente [21].

In caso contrario, i giudici amministrativi sono concordi nel qualificare l’attività come di realizzazione di un nuovo immobile.

Difatti, "in via generale, va premesso che gli interventi di ristrutturazione edilizia ex art. 31 lett. d) L. 457/78, diversamente dagli interventi di manutenzione straordinaria che tendono a conservare l’organismo edilizio inalterato nei suoi elementi tipologici sono caratterizzati dalla loro idoneità ad introdurre un quid novi rispetto al precedente assetto dell’edificio. Sennonché, l’entità del quid novi ad introdursi, essendo evidentemente diversa per ogni singolo intervento, comporta effettivamente un margine piuttosto ampio di discrezionalità (tecnica) nel determinare il discrimine tra novum che possa farsi rientrare in quello ammissibile nel concetto stesso di ristrutturazione e non piuttosto qualificare l’intervento come nuova costruzione.

Orbene, la oggettiva difficoltà di individuazione del novum ammissibile in sede di ristrutturazione è stata variamente trattata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, rilevando essenzialmente sotto due profili: l’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione, per un verso, e, quanto più nella specie rileva, l’assoggettamento dell’intervento alle norme sopravvenute di piano, dall’altro, evenienze entrambe da escludersi in tutte le ipotesi in cui fosse in concreto ravvisabile un intervento meramente sostitutivo, e non già innovativo, dell’esistente" [22].

Al fine di salvaguardare, nei limiti in cui ciò sia possibile, la posizione del proprietario di immobile preesistente rispetto al pagamento degli oneri ovvero del rispetto delle più limitative norme sopravvenute, la giurisprudenza ha inteso allargare la portata del concetto di ristrutturazione, in origine definito con riguardo ai soli interventi intesi al recupero del patrimonio edilizio residenziale.

Al riguardo, è stato precisato, però, che "la ristrutturazione operata mediante demolizione e ricostruzione non rientrerebbe stricto sensu nel concetto di ristrutturazione (in quanto, logicamente, la previa distruzione del bene osta, ed è anzi incompatibile, rispetto alla finalità trasformativa dello stesso, che postulerebbe appunto la sopravvivenza fisica del bene), a meno di non ipotizzare, ovviamente, che la ristrutturazione medesima debba comunque avvenire nel rispetto della disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio della relativa autorizzazione" [23].

Il comma 2 dell’articolo in esame consente alla legislazione regionale di integrare la disciplina relativa alla indicazione e alla tipologia degli interventi subordinati al permesso di costruire.

La previsione è conforme al principio sancito dall’art. 2, co. 1, T.U., ai sensi del quale "le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico".

La violazione delle suddette disposizioni regionali implica l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 44 T.U.

Quanto ai soggetti legittimati a conseguire il titolo, in base all’art. 11 T.U. "il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo".

Ciò che rileva, quindi, non è la titolarità del diritto dominicale sull’area oggetto di intervento, ma sull’immobile genericamente inteso.

Ne consegue che, come disposto espressamente dall’art. 11, co. 2 T.U., "il permesso di costruire è trasferibile, insieme all’immobile, ai successori o aventi causa": poiché il titolo edilizio inerisce all’immobile più che al soggetto titolare, esso è trasferibile a qualsiasi soggetto che avrebbe titolo per richiederlo autonomamente.

Tale trasferimento non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio. È irrevocabile ed è oneroso.

Quanto al proprietario, è pacifico che lo ius aedificandi costituisce uno degli aspetti fondanti del diritto dominicale. Grava sulla P.A. l’onere di verificare che il richiedente sia legittimato a richiedere il permesso di costruire in relazione alle opere oggetto del progetto, ma senza l’obbligo di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà, dovendosi limitare a valutare eventuali elementi ostativi al rilascio del permesso stesso [24].

Per quanto attiene, invece, agli altri soggetti aventi titolo a richiedere il titolo abilitativo, viene in rilievo, soprattutto, la figura del comproprietario, in relazione agli interventi attuati su edifici condominiali.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, questi è legittimato al rilascio del titolo edificatorio, senza necessità di previo consenso degli altri condomini, quando l’intervento si riferisce a parti comuni dell’immobile e strettamente pertinenziali alla sua unità immobiliare, secondo quanto previsto dagli artt. 1102, 1105 e 1122 c.c. In ogni caso, i lavori non dovranno comportare una trasformazione estetica e architettonica del bene comune o esulare dall’ambito di applicazione dell’art. 1102 c.c. [25].

Ove, invece, le opere edilizie comportino le modifiche succitate, la giurisprudenza ritiene illegittimo il rilascio del titolo non preceduto dall’assenso del condominio [26].

Analoga legittimazione è riconosciuta al superficiario in virtù di quanto sancito dall’art. 952 c.c., e in ragione del fatto che la proprietà della costruzione può essere alienata separatamente dalla proprietà del suolo [27].

Anche "l’usufruttario del terreno sul quale intende erigere una costruzione edilizia è legittimato a chiedere di ottenere la concessione edilizia ai sensi dell’art. 4 L. 10/77" [28].

Dottrina e giurisprudenza hanno individuato ulteriori categorie di soggetti legittimati, in ragione del rapporto che di volta in volta li lega ad un determinato bene, quali, a titolo esemplificativo, l’espropriante immesso nel possesso anticipato del bene in virtù del decreto d’occupazione d’urgenza, oppure coloro i quali abbiano la disponibilità giuridica dell’area e la titolarità di un diritto reale o di un’obbligazione che dia loro la facoltà di eseguire opere [29].

Al contrario, particolarmente dibattuta è la questione della legittimazione al rilascio del permesso da parte del promissario acquirente di un immobile. Essa è stata risolta negativamente sulla base del principio secondo cui il trasferimento dello ius aedificandi avviene solo dopo la stipula del contratto definitivo di compravendita [30].

Quanto ai diritti dei terzi, secondo quanto disposto dall’ultimo co. dell’art. 11 T.U., il titolo edificatorio è sempre rilasciato con salvezza dei diritti di questi, i quali, eventualmente pregiudicati dall’esecuzione di un intervento edilizio realizzato con permesso, troveranno tutela non in seno al procedimento amministrativo conclusosi col rilascio del titolo, ma in sede giurisdizionale.

Riguardo ai presupposti per l’ottenimento del titolo in questione, l’art. 12 T.U. prevede che esso "è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente".

Ne discende il carattere non discrezionale del permesso di costruire, poiché l’organo competente al rilascio deve esercitare un mero accertamento di conformità dei progetti agli strumenti e alla normativa urbanistica vigente.

Il provvedimento ha, dunque, carattere vincolato e dovuto e, nei suoi riguardi, "non è configurabile la revoca, essendo questa esercizio di un’attività d’autotutela amministrativa consistente nella facoltà della P.A. di rimuovere l’atto revocando per sopravvenute circostanze che lo rendono non più idoneo a soddisfare l’interesse pubblico e che, quindi, presuppone una valutazione d’ordine discrezionale, insussistente in materia edilizia" [31].

L’art. 12 T.U. prosegue al comma 2 disponendo che "il permesso di costruire è comunque subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell'intervento oggetto del permesso".

La mancanza di opere di urbanizzazione primaria, quindi, non è di per sé ostativa al rilascio del titolo, gravando sull’amministrazione il compito di dettare al riguardo le opportune prescrizioni una volta acquisite le impegnative e le garanzie dovute [32].

Secondo il comma 3 dell’articolo in commento, inoltre, " in caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione competente all'approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione".

La norma si conclude precisando che "a richiesta del sindaco, e per lo stesso periodo, il presidente della giunta regionale, con provvedimento motivato da notificare all'interessato, può ordinare la sospensione di interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio che siano tali da compromettere o rendere più onerosa l'attuazione degli strumenti urbanistici".

Si tratta di due misure, la prima comunale e la seconda regionale, che non comportano alcun effetto abrogativo delle prescrizioni dei piani vigenti.

Quanto alla prima misura citata, la ratio sottesa è duplice: da un lato preservare l’interesse privato all’edificazione secondo gli strumenti urbanistici vigenti, dall’altro, tutelare quello pubblico all’effettività delle previsioni urbanistiche fin dal momento della loro adozione [33].

Il provvedimento di sospensione che scaturisce dalla comparazione degli interessi in gioco ha natura cautelare e temporanea, e presuppone, in ogni caso, la conformità alla strumentazione vigente, dovendo, altrimenti, essere rigettata l’stanza e non solo sospeso il procedimento [34].

La misura di salvaguardia regionale, invece, riguarda l’esecuzione di opere legittimamente assentite con titolo edilizio già rilasciato, e consegue al riscontro di un contrasto qualificato delle opere da eseguire con il piano adottato, dovendo queste essere tali da compromettere o rendere più onerosa l’attuazione degli strumenti urbanistici.

Con riferimento alla competenza per il rilascio del permesso di costruire, l’art. 12 T.U. dispone che essa spetta al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale, nel rispetto delle leggi, dei regolamenti, e degli strumenti urbanistici.

Tale previsione si pone in linea con il dettato dell’art. 107 D.Lgs. 267/2000, che conferisce [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Nel comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, le funzioni di cui al succitato art. vengono attribuite, fatta salva l’applicazione dell’art. 97, co.4 lett. d) D.Lgs. 267/2000, con provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga ad ogni diversa disposizione.

In ogni caso, è preclusa al Sindaco la possibilità di rilasciare il titolo edificatorio, soprattutto alla luce delle diposizioni del D.Lgs. 267/2000 che demanda, in via generale, la competenza all’emanazione dei provvedimenti amministrativi in materia edilizia all’apparato amministrativo [35].

Ai sensi dell’art. 14 T.U., il permesso di costruire rilasciato in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel D.Lgs. 490/99 (oggi L. 42/2004), e delle normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. Dell’avvio del procedimento è data comunicazione agli interessati, secondo le norme sulla partecipazione al procedimento amministrativo.

L’ambito di applicazione della previsione in commento va limitato ai soli casi in cui l’amministrazione può consentire la realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico in contrasto con la propria normativa edilizia e urbanistica, al fine di contemperare le esigenze dei singoli con quelle della collettività.

Inoltre, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la disposizione in questione deve essere oggetto di interpretazione restrittiva, "nel senso che tali deroghe non possono travolgere le esigenze di ordine urbanistico a suo tempo recepite nel piano; ne consegue che non possono costituire oggetto di deroga le destinazioni di zona che attengono alla impostazione stessa del piano regolatore generale ne costituiscono le norme direttrici" [36].


Decadenza del permesso di costruire

Quanto all’efficacia temporale e alla decadenza del permesso di costruire, la disciplina è contenuta nell’art. 15 T.U.

Esso dispone che "nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori", ove per inizio del lavori si fa riferimento all’esecuzione di opere dalle quali possa desumersi in modo univoco l’effettiva volontà del titolare del titolo di realizzare la costruzione, al fine di evitare che il termine suddetto venga raggirato mediante interventi fittizi.

Al riguardo, parte della giurisprudenza ha sostenuto che "il concetto di inizio dei lavori si definisce come la realizzazione di consistenti opere, che non si riducono all’impianto di cantiere, alla esecuzione di scavi o di sistemazione del terreno o di singole opere di fondazione" [37].

La nozione di ultimazione dei lavori, invece, può essere individuata in base a due criteri: il primo di ordine strutturale, allorché sia stato realizzato il rustico e completata la copertura; il secondo, di ordine funzionale, in virtù del quale il bene deve essere potenzialmente idoneo ad espletare le funzioni cui è destinato.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 15 T.U., "il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi i termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più anni finanziari".

Al comma 3, l’articolo in parola continua precisando che "la realizzazione della parte dell’intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell’art. 22 D.P.R. n. 380/2001. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione".

"Il termine annuale di decadenza per mancato inizio dei lavori inizia a decorrere soltanto dal momento in cui il titolo abilitativo viene comunicato all’interessato o da quello eventualmente antecedente in cui questi ne abbia avuto conoscenza, e non da quello di pubblicazione nell’albo pretorio" [38].

La decadenza del permesso di costruire si fonda sul decorso del tempo previsto dalla legge, fatti salvi i casi di sospensione o proroga, di forza maggiore, o di altre cause espressamente individuate dalla legge, non imputabili alla condotta del titolare, ostative in via assoluta dei lavori, e che comportino l’allungamento dei tempi stabiliti per l’esecuzione dell’opera.

"L’istituto giuridico della decadenza dalla concessione edilizia, per mancato completamento dei lavori entro il termine di cui all’art. 4 L. 10/77 ( ed oggi del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. 380/2001), assume carattere esclusivamente oggettivo. La perdita dell’efficacia della concessione edilizia si collega – in via immediata e diretta – al mero decorso del termine ivi indicato inteso a dare certezza temporale all’attività edificatoria, onde il provvedimento di decadenza serve solo a certificare una situazione già verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere meramente dichiarativo" [39].

Quanto all’onere della prova del mancato inizio dei lavori, esso incombe "sul comune che ne dichiara la decadenza alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell’atto adottato devono essere accertati dall’autorità emanante". [40]

Esso grava, quindi, sull’amministrazione.

Occorre precisare che, secondo parte della giurisprudenza amministrativa, è sempre indispensabile l’adozione di una atto dell’amministrazione che formalizzi appositamente la contestazione, in esplicazione della potestà provvedimentale [41].

Al contrario, la giurisprudenza penale ritiene che il provvedimento autorizzatorio decada ove, in assenza di proroga, nel termine triennale l’opera non risulti completata, senza che la decadenza debba essere dichiarata con provvedimento espresso. L’atto formale è ritenuto, invece, indispensabile per quanto riguarda le condizioni per l’esercizio dei poteri sanzionatori amministrativi, ma non per l’insorgenza della responsabilità penale del titolare del provvedimento decaduto ope legis.

L’accoglimento dell’una o dell’altra tesi si riverbera sul piano dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento.

A tal proposito, la giurisprudenza ritiene che, dal momento che l’avviso in questione è inteso ad assicurare la partecipazione del destinatario dell’atto conclusivo, tale possibilità non sussiste nel caso di decadenza del permesso di costruire, poiché tale atto non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa di un effetto direttamente discendente dalla norma, di talché anche qualora l’interessato fosse tempestivamente avvisato, non potrebbe influirvi a proprio vantaggio [42].

Ulteriore ipotesi di decadenza del permesso di costruire, è quella prevista dall’ultimo comma dell’art. 15 T.U., e conseguente all’"entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio".

La norma intende tutelare l’esigenza che le sopravvenute previsioni urbanistiche trovino in ogni caso applicazione, poiché deputate ad un più razionale assetto del territorio e, soprattutto, a soddisfare gli interessi pubblici e privati coinvolti.

Quanto all’eccezione ammessa dalla stessa norma, ovvero relativa ai lavori già iniziati e terminati nel termine di tre anni, la giurisprudenza ritiene che, in assenza del dato oggettivo dell’inizio dei lavori nel vigore del piano di base precedente alle nuove prescrizioni, deve essere dichiarata la decadenza del titolo edificatorio, con un atto di natura ricognitiva, con effetti ex tunc [43].

L’istituto opera nel contrasto dell’atto permissivo con sopravvenute previsioni urbanistiche che abbiano ad oggetto aspetti sostanziali del territorio, con esclusione, quindi, delle disposizioni relative a meri aspetti procedimentali [44].


Procedimento per il rilascio del permesso di costruire

Ai sensi dell’art. 20, co. 1 T.U. "la domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’art. 11, va presentata allo sportello unico corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti dal regolamento edilizio, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II, nonché da un’autocertificazione circa la conformità del progetto alle norme igienico-sanitarie nel caso in cui il progetto riguardi interventi di edilizia residenziale ovvero la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali".

L’ufficio competente a ricevere la domanda è, quindi, lo sportello unico per l’edilizia, cui è demandata la cura dei rapporti tra il privato, l’amministrazione comunale e ogni altra tenuta a pronunciarsi in merito all’intervento edilizio in questione, anche per l’acquisizione dei necessari atti di consenso, comunque denominati.

Il progetto deve essere conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e predisposto da soggetti dotati di competenze tecniche specialistiche in relazione alle opere da realizzare.

L’articolo in commento prosegue specificando che "lo sportello unico comunica entro dieci giorni al richiedente il nominativo del responsabile del procedimento ai sensi degli artt. 4 e 5 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni".

Secondo la prevalente dottrina, tale lasso di tempo è finalizzato a consentire all’amministrazione una scelta del soggetto responsabile basata su una ponderata valutazione che tenga conto della complessità della questione sottoposta alla sua attenzione.

Al riguardo, in ordine agli effetti della mancata o tardiva comunicazione del nominativo sul provvedimento finale, occorre distinguere: nel primo caso, si configura una violazione di legge preclusiva della partecipazione del privato; nel secondo, invece, non si dà vita ad alcuna invalidità, operando il meccanismo della supplenza legale del capo dell’ufficio.

Come sostenuto dalla recente giurisprudenza di legittimità e di merito, le norme che regolano la partecipazione del privato, non devono essere interpretate in senso eccessivamente formale.

Difatti, "le disposizioni di cui all’art. 7 e ss. della L. 241/90 non devono essere applicate in modo meccanico e formalistico, in quanto la partecipazione del cittadino al provvedimento amministrativo, che si sostanzia nella possibilità di presentare memorie, osservazioni e controdeduzioni, è finalizzata alla effettiva e concreta realizzazione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) e, quindi, in ultima analisi, alla corretta formazione della volontà della pubblica amministrazione; con la conseguenza che l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non vizia l’atto conclusivo quando la partecipazione dell’interessato non avrebbe potuto, comunque, apportare elementi di valutazione idonei ad incidere, in termini a lui più favorevoli, sul provvedimento finale" [45].

Pertanto, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento da parte dell’amministrazione rileva solo ove abbia effettivamente inciso sul contenuto del provvedimento finale, circostanza che deve essere provata dal soggetto privato [46].

L’esame delle domande di rilascio per permesso di costruire, ai sensi del comma 2 del succitato articolo, "si svolge secondo l’ordine cronologico di presentazione", a garanzia della parità di trattamento dei privati, che si pone quale principio generale che governa l’attività amministrativa, in difetto di espressa diversa previsione legislativa.

Secondo il dettato del co. 3 art. 20 T.U., "entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l’istruttoria, acquisisce, avvalendosi dello sportello unico, i prescritti pareri dagli uffici comunali, nonché i pareri di cui all’art. 5, co. 3 D.P.R. 380/2001 sempre che gli stessi non siano già stati allegati alla domanda dal richiedente e, valutata la conformità del progetto alla normativa vigente, formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico giuridica dell’intervento richiesto".

Tale termine, ai sensi del comma 8 della norma in esame, "può essere raddoppiato per i comuni con più di 100.000 abitanti, nonché per i progetti particolarmente complessi secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento".

Quest’ultimo riveste una posizione di centralità per tutta la fase istruttoria e, quindi, anche per la verifica delle condizioni di ammissibilità della domanda, dei requisiti di legittimazione e dei presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento finale.

Ai sensi del comma 4 della disposizione in commento, inoltre, ove il responsabile ritenga che per il rilascio sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può, sempre nel termine di sessanta giorni dalla presentazione della domanda, richiedere modifiche, illustrandone le ragioni.

Al riguardo, e a mero titolo esemplificativo, i giudici amministrativi hanno ritenuto di modesta entità la modifica di un tramezzo, nell’ambito di un progetto di realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti [47].

La facoltà di proporre modifiche progettuali riconosciuta al responsabile del procedimento, inoltre, è esercitabile esclusivamente quando l’attività di trasformazione edilizia che ci si accinge a realizzare si ponga in evidente contrasto con le prescrizioni urbanistico-edilizie.

Nel caso in cui queste vengano effettivamente proposte, l’interessato si può pronunciare entro il termine assegnato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni.

La richiesta sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine illustrato.

Il termine di sessanta giorni può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata, e che non siano già nella disponibilità dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla ricezione della documentazione integrativa.

Anche in tali fattispecie, i termini sono raddoppiati per i comuni con più di 100.000 abitanti e per i progetti particolarmente complessi, secondo la motivata risoluzione del responsabile del procedimento.

Nell’ipotesi in cui, invece, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5, co. 3, T.U., il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli artt. 14 ss. L. 241/90, salvo che si tratti di opere pubbliche incidenti su beni culturali, per i quali si osserva la procedura dettata dal relativo Codice.

Il provvedimento finale è adottato dal dirigente o dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento che cura l’istruttoria, ovvero dall’esito della conferenza di servizi. Esso viene poi notificato all’interessato dallo sportello unico.

Dell’avvenuto rilascio viene data notizia al pubblico mediante affissione all’albo pretorio, e gli estremi del permesso di costruire sono anche indicati nel cartello esposto presso il cantiere, secondo le modalità previste dal regolamento edilizio.

Questa doppia forma di pubblicità del titolo abilitativo, è funzionale all’eventuale impugnazione in sede giurisdizionale. Ai fini del decorso del relativo termine per i soggetti diversi dal destinatario, infatti, ciò che rileva non è l’effettiva conoscenza, ma la mera conoscibilità del permesso associata all’effettivo inizio dei lavori, resa possibile proprio attraverso l’affissione all’albo pretorio dell’apposito avviso e all’esposizione nel cantiere del cartello contenente gli estremi del provvedimento.

Al riguardo vige, quindi, la presunzione legale di conoscenza solo dal momento in cui le prescritte forme pubblicitarie sono state compiute [48].

Quanto alla legittimazione all’impugnazione del provvedimento finale di diniego del titolo, la giurisprudenza ha escluso che possa essere riconosciuta al progettista, essendo richiesto uno stabile collegamento tra il soggetto che assume lesa la propria posizione giuridica e la zona in cui l’opera deve essere realizzata.

Difatti, "si osserva che l’art. 31, co. 9, L. 17.8.1042, n. 150, come modificato dall’art. 10 L. 6.8.1967, n. 765, non ha introdotto un’azione popolare che consentirebbe a qualsiasi cittadino di impugnare il provvedimento che prevede la realizzazione di un’opera per far valere comunque l’osservanza delle prescrizioni che regolano l’edificazione, ma ha riconosciuto una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa ed a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la zona stessa" [49].

Ai sensi del penultimo comma dell’art. 20 T.U., "decorso inutilmente il termine previsto per l’adozione del provvedimento finale, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto".

La giurisprudenza ha osservato che il termine suddetto decorre dal momento in cui l’interessato ha depositato l’integrale documentazione che consente all’amministrazione di operare le verifiche necessaria alla valutazione dell’assentibilità dell’opera.

Questa, inoltre, una volta spirato il termine in questione, potrà comunque provvedere sull’istanza inizialmente inevasa. Essa, infatti, "non solo non perde il potere d determinarsi espressamente sulla domanda di permesso di costruire, ma addirittura permane nell’obbligo di doverlo fare, soprattutto le volte in cui l’autore della domanda insista formalmente per l’ottenimento di un provvedimento espresso di conclusione del procedimento medesimo" [50].

L’art. 21 T.U. completa la disciplina disponendo, al comma 1, che "in caso di mancata adozione, entro i termini previsti dal precedente art. 20, del provvedimento conclusivo del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, l’interessato può, con atto notificato o trasmesso in piego raccomandato con avviso di ricevimento, richiedere allo sportello unico che il dirigente o il responsabile dell’ufficio di cui all’articolo 13, si pronunci entro quindici giorni dalla ricezione dell’istanza. Di tale istanza viene data notizia al sindaco a cura del responsabile del procedimento. Resta comunque ferma la facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il silenzio-rifiuto formatosi sulla domanda di permesso di costruire".

In merito al giudizio avverso il silenzio-rifiuto, secondo il recente orientamento giurisprudenziale, il giudice deve limitarsi a dichiarare se sussiste in capo all’amministrazione intimata il potere-dovere di adottare un provvedimento esplicito di conclusione del procedimento [51].

Decorso inutilmente anche il termine previsto dall’art. 21, co. 1 T.U., l’interessato, ai sensi del co. 2 del medesimo, può inoltrare richiesta di intervento sostitutivo al competente organo regionale, il quale, nei successivi quindi giorni, nomina un commissario ad acta che provvede nel termine di sessanta giorni, trascorsi inutilmente i quali sulla domanda di intervento si intende formato il silenzio-rifiuto.

Dal combinato disposto di cui agli artt. 20 e 21 T.U. emerge con chiarezza l’intento del legislatore di non lasciare il minimo spazio all’inerzia della pubblica amministrazione.

Il commissario dovrà valutare sia l’ammissibilità che il merito dell’istanza per il rilascio del titolo abilitativo, provvedendo anche a tutte le attività istruttorie, compresi l’eventuale acquisizione di pareri e atti di assenso.

Sul punto, la giurisprudenza appare divisa in ordine alla relazione giuridica che si instaura tra il commissario e l’ente sostituito, ovvero in merito alla permanenza in capo a quest’ultima del potere di rilasciare il permesso di costruire una volta intervenuto il sostituto.

Secondo parte di questa, la relazione in questione ha natura intersoggettiva e non interorganica. Ne conseguirebbe che l’atto adottato dal commissario [Omissis - versione integrale presente nel testo].

Da ultimo, va rilevato che parte della recente giurisprudenza ha riconosciuto l’ammissibilità del rito speciale di cui all’art. 21-bis L. 1034/1971, introdotto dall’art. 2, co. 1, L. 205/2000, nel caso di silenzio-significativo conseguente alla presentazione di domanda di permesso di costruire ed all’inutile decorso del tempo.

Secondo tale orientamento, infatti, la pretesa del privato ad ottenere l’esame della propria domanda sussiste anche quando si sia in presenza di un silenzio significativo da parte dell’amministrazione. Di talché, la previsione che ammette l’impugnabilità immediata del silenzio-rigetto non può essere considerata un impedimento all’utilizzo del rito speciale, il quale, prevedendo un procedimento giurisdizionale accelerato, riconosce la sussistenza di una pretesa al medesimo.

Anche in tali ipotesi, dunque, permane in capo al privato una posizione giuridica protetta e riconosciuta dall’ordinamento, a fronte della quale sussiste in capo all’amministrazione l’obbligo di una pronunzia espressa e motivata.

Pertanto, è rimessa alla discrezione dell’interessato la scelta di seguire la via ordinaria dell’impugnazione del rigetto della domanda nel termine di decadenza previsto, oppure di attivare, nel termine di un anno e senza necessità di previa diffida, l’altro più agile strumento [54].