Fisionomia del delitto di riciclaggio

L’esatta comprensione delle caratteristiche strutturali e funzionali del delitto di riciclaggio non può prescindere, certo, da una compiuta analisi di ciò che – debitamente tipizzato – costituisce la “ragione prima” [63] del reprimere della fattispecie: il reato presupposto.


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Già sul piano della regola di diritto sostanziale, quindi, il Legislatore ha deliberatamente scelto di individuare la condicio sine qua non per la quale condotte – per sé sole neutre e anzi lecite in linea di principio – afferenti il patrimonio finiscono per determinare una offesa rilevante da un punto di vista penale. [65]

Ciò – a ben vedere – induce subito a due importanti riflessioni: da un lato, la peculiare origine delle precitate categorie economiche deve essere considerata a tutti gli effetti un elemento costitutivo del fatto tipico di riciclaggio (e non della relativa, più ampia, fattispecie), dal momento che – dovendo esistere non solo nei fatti, ma anche nella mente del riciclatore – essa rappresenta, nello schema dell’art. 648-bis c.p., un antecedente logico-cronologico della condotta e non del reato; [66] dall’altro, la metafora “riciclaggio” può davvero resultare fuorviante nell’ottica di una affrettata interpretazione normativa, poiché il riciclatore – in realtà – non nasconde affatto il provento di un reato, ma occulta un reato strumentalizzandone il provento. [67]


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Invero, se guardiamo alla clausola selettiva in tutta la sua estensione – «(…) denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo» – non è chi non veda come il problema della identificazione del reato presupposto resulti strettamente connesso a quello della identificazione del concetto di “provenienza” da reato e, anzi, come sia proprio la determinazione dell’esatto significato da attribuire alla locuzione espressiva «proveniente da delitto (…)» ciò che – evidentemente – incarna lo snodo cruciale nello sforzo di individuazione della congerie di illeciti che possano realmente qualificarsi come reati fonte.

Ora, a ben vedere, il concetto di “provenienza” consegna all’interprete l’immagine di un illecito presupposto che non è solo e semplicemente un fatto posto in essere prima, ma anche e soprattutto un fatto generatore di quel quid – denaro, beni o altre utilità – in grado di divenire l’oggetto materiale del delitto di riciclaggio. Non ogni delitto non colposo, quindi, può legittimamente qualificarsi come delitto presupposto del fenomeno previsto e punito dall’art. 648-bis c.p., ma soltanto quello cui la res – sulla quale cade la condotta riciclatoria – resulta riferibile in termini di “provento”.

Senonché, premesso che nel nostro ordinamento – a livello prettamente normativo – ancora oggi trova grosse difficoltà la cristallizzazione del concetto di “provento del reato”, [71] si tratta di stabilire se la medesima espressione coincida o meno con quelle, in un certo qual senso affini e invece più volte utilizzate dal Legislatore, di “prodotto, profitto e prezzo del reato”.

Sul punto, come è noto, per “prodotto” si deve intendere il risultato empirico, il frutto che il colpevole consegue in modo diretto dalla sua attività illecita; per “profitto”, invece, il lucro, il vantaggio economico che si ottiene per effetto della commissione del reato (in altre parole, il guadagno inteso come “ricavo meno costi”); per “prezzo”, infine, il compenso dato o promesso come corrispettivo, contropartita dell’esecuzione dell’illecito. [72]


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D’altro canto, l’art. 648-bis c.p. esprime una precisa ed ordinata sequenza di passaggi finalizzati alla consumazione del fatto tipizzato; una sequenza – la stessa – nella quale resultano fin troppo chiari non solo l’ubicazione in posizione intermedia (tra il compimento del delitto base e la concretizzazione della operazione propriamente riciclatoria) dell’incremento patrimoniale oggetto della condotta di occultamento, ma anche il legame logico-consequenziale che intercorre tra il reato presupposto e il predetto incremento. [76] Posto questo, allora, è di tutta evidenza come il concetto di “prezzo” – in quanto fattore che incide esclusivamente sui motivi che spingono l’interessato a delinquere – si collochi sempre, e di necessità, a monte della attività criminale e quindi mai possa costituire, come tale, un posterius sul quale ipotizzare una eventuale e successiva azione di riciclaggio.

Ad ogni buon conto – per concludere – è a dire che l’identificazione della nozione di provenienza non presuppone il ricorrere dell’elemento della “immediatezza”: denaro, beni o altre utilità – in effetti – ben possono essere sottoposti a vari e susseguenti “lavaggi” da parte di soggetti diversi, e dunque derivare da pregresse condotte altrettanto riciclatorie; ciò che importa e dalla quale non è possibile in assoluto prescindere, però, è la circostanza per cui il soggetto terzo – ultimo nella “catena” degli autori degli occultamenti – sia consapevole della origine delittuosa della res. [77]


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Diverso dal riciclaggio “mediato”, invece, è quello c.d. “indiretto” (o “dell’equivalente”), che concerne la ipotesi in cui l’oggetto materiale della sostituzione, del trasferimento, ecc.. resulti, invero, il frutto di uno scambio con le reali cose provenienti da delitto non colposo: tale fatto non è punibile ai sensi dell’art. 648-bis c.p. [79]

B) Il delitto tributario può fungere da illecito presupposto del reato di riciclaggio?

L’analisi dei concetti di provenienza e provento e – conseguentemente – una corretta interpretazione della clausola selettiva «(…) denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo» ci inducono, in definitiva, a ritenere l’ambito dei reati presupposto del delitto di riciclaggio ragionevolmente circoscritto ai soli fatti creativi di ricchezza.

Del resto, la tipicità criminosa del fenomeno descritto nell’art. 648-bis c.p. – così come si configura e prende forma nel relativo precetto normativo – consegna all’interprete l’immagine di un illecito primario strutturalmente orientato a generare per il suo autore un surplus economico che il medesimo, prima della commissione dello stesso illecito (rectius, senza commettere lo stesso illecito), non possedeva o non era in grado di possedere: l’autentico significato di “provenienza delittuosa”, in effetti, risiede ed è espresso nell’idea di un “passaggio di titolarità/disponibilità” del bene per cui l’artefice del reato presupposto giova, a discapito di un altro soggetto (e cioè la persona offesa danneggiata dal medesimo reato), di un indebito incremento patrimoniale, e non di un indebito mancato impoverimento a svantaggio di terzi. [80]


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Sul punto, in effetti, si riscontrano almeno tre diversi orientamenti dottrinali.

Un primo, consistente filone [82] – che oggi, peraltro, trova largo consenso e accoglimento nelle aule di giustizia [83] – ritiene tutte le ipotesi delittuose contemplate nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 certamente legittimate a fungere da reato presupposto: tale corrente, infatti, evidenzia come la citata normativa – a differenza della previgente disciplina (D.L. 10 luglio 1982, n. 429), [84] che configurava fattispecie volte in generale a punire condotte presuntivamente considerate prodromiche alla sottrazione alla imposizione fiscale, e dunque ex se incapaci di generare un illecito profitto, ma, al più, in grado di predisporre i mezzi a tal fine – resulti maggiormente improntata ad una concezione del reato tributario come reato di danno, tanto che attualmente compaiono con più frequenza fattispecie annoveranti tra i propri elementi costitutivi quello della effettiva sottrazione all’imposta.

Inoltre, se è vero che la violazione della normativa fiscale non determina un incremento di ricchezza quale “apporto esterno materialmente individuabile”, è anche vero – però – come il risultato pratico dell’illecito (guardando al reale bene giuridico protetto dall’art. 648-bis c.p.), non muti: siffatto incremento, in effetti, anziché concretizzarsi (contabilmente, per così dire) in un lucro addizionale proveniente da una fonte esterna, si manifesta nell’ottenimento di un più elevato potere di acquisto rispetto a quello che, a parità di condizioni, resulta disponibile a un soggetto che non si sottrae alla imposizione. [85] Non solo, la medesima dottrina – assai critica nei confronti di chi limita i presupposti dell’art. 648-bis c.p. optando per una ricostruzione semantica ineccepibile del concetto di “provenienza” – rileva come una simile scelta non riesca a convincere sul piano degli interessi tutelati dalla incriminazione del fatto di riciclaggio, ma anzi finisca per introdurre un inopportuno arricchimento dell’oggetto del dolo del reato, nel senso di richiedere la consapevolezza della provenienza da uno dei delitti specificamente rivolti alla produzione di capitale illecito: in pratica, un dolo specifico “retrospettivo”. [86]

Un secondo filone invece – in posizione diametralmente opposta al primo – ritiene che proprio la tipologia (nel senso di strutturazione tipica) del delitto tributario impedisca a priori la possibilità di annoverare questi tra i fatti-reato presupposto del delitto di riciclaggio. [87]


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Peraltro, per come disegnate dal Legislatore nella riforma del 2000 e per come oggi le medesime vengono interpretate e applicate dalla giurisprudenza, tutte le fattispecie di violazione della normativa attinente alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto mirano già di per se stesse a punire il fatto dissimulatorio e, in tutte, il fine di evadere è letto come dolo intenzionale. Ne deriva, allora, una perfetta sovrapposizione tra la dissimulazione che dovrebbe essere propria della condotta del delitto tributario e quella del preteso (sic!) delitto di riciclaggio: una identità che lascerebbe trasparire – sul piano applicativo – un rapporto di implicazione necessaria tra le due figurae criminis (dotate, invece, di autonoma ratio), nonché emergere – seguendo la tesi del primo filone – un bis in idem imposto per legge.

Un terzo orientamento dottrinale, infine, assume una posizione intermedia: partendo dal presupposto che in seno ai delitti in materia fiscale occorra distinguere quelli che non producono ricchezza da quelli che – invece – la producono, vi è chi ritiene che tra i reati fonte del riciclaggio non possano essere inseriti, in generale, i delitti in materia di imposte dirette e sul valore aggiunto, mentre ben possono essere annoverati i delitti di contrabbando doganale, [89] e chi ritiene che anche nell’ambito della prima categoria siano, in realtà, individuabili ipotesi speciali – come quella della vendita di fatture false da parte di società cartiere, o di dichiarazione IVA fraudolenta finalizzate al conseguimento di un credito di imposta non dovuto – in cui è ravvisabile un vero e proprio provento da delitto tributario. [90]


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C) Considerato il carattere “funzionale” del rapporto che lega il reato di riciclaggio al delitto fonte, in quale misura le vicende sostanziali e processuali afferenti il secondo possono influire sulla configurabilità del primo?

Preliminarmente, occorre spiegare il senso della funzionalità che connota la relazione tra illecito presupposto e riciclaggio (quale illecito presupponente).

In effetti, funzionalità equivale a consequenzialità: il riciclaggio costituisce il posterius di un antefatto criminale compiuto da soggetti diversi e in ciò si presenta come fattispecie – per così dire – di “secondo grado”, la cui condotta segue quella del delitto base, appunto presupponendola e proseguendola dal punto in cui questa finisce. [91]


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Infatti, posto che l’elemento condizionante la “sussistenza” della fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p. non può essere la concreta punibilità dell’illecito presupposto, ma la teorica capacità di questo di integrare i requisiti tipici di un fatto di rilevanza penale (rectius, un delitto non colposo), soltanto ciò che incide – in modo generale, o in modo particolare – sulla natura qualificata del fatto fonte è in grado di erodere l’ambito applicativo del reato di riciclaggio; soltanto rispetto a tali fattori, cioè, il reato di riciclaggio resulterà permeabile, dal momento che il giudizio disvaloriale della fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p. – sotto un profilo propriamente dogmatico – è solo autonomo (ma non indipendente) rispetto a quello della fattispecie matrice, e soltanto quei fattori resultano capaci di intaccare questa speciale caratteristica del rapporto di presupposizione.

In effetti, il delitto di riciclaggio è “autonomo” rispetto al delitto presupposto poiché l’interazione degli elementi che lo definiscono nel suo complesso dà vita ad un compiuto nucleo di illiceità; allo stesso tempo, però, non ne resulta “indipendente”, poiché il tenore normativo di uno dei suoi elementi costitutivi (il “delitto non colposo” dal quale deriva il provento che il riciclatore intende occultare) traccia un canale di comunicabilità tra un contesto delinquenziale primario e un contesto delinquenziale secondario, subordinando l’esistenza del nucleo disvaloriale di questo all’esistenza del nucleo disvaloriale di quello. [96]

Ne discende, allora, che:

a) per quanto riguarda le condizioni obiettive di punibilità riferite al reato presupposto – ovviamente quelle c.d. “estrinseche” (cioè estranee all’offesa) e non quelle c.d. “intrinseche”, che in realtà, dovendo essere ascritte nel c.d. “fuoco del dolo”, sono a tutti gli effetti elementi costitutivi dell’illecito [97] – esse non hanno capacità di incidere sulla configurabilità del delitto fonte, poiché sono elementi di fattispecie e non del fatto e il loro difetto non pregiudica la sussistenza del reato accessorio; [98]

b) per quanto riguarda le condizioni di procedibilità (querela, istanza di procedimento, richiesta di procedimento, autorizzazione a procedere) afferenti il reato presupposto, esse hanno mera rilevanza processuale e, come tali, il loro difetto resulta inidoneo a condizionare la rilevanza sostanziale del fatto matrice, ancor prima di quella del fatto accessorio; [99]

c) per quanto attiene alle cause di estinzione del reato presupposto – ovviamente quelle venute in essere dopo la commissione del reato presupponente [100] – esse si risolvono in fatti naturali (ad esempio, la morte del reo prima della condanna) o giuridici (ad esempio, la remissione di querela, la prescrizione, l’amnistia o l’oblazione) il cui effetto è quello di escludere, nei confronti di singole persone, la possibilità di realizzare la pretesa punitiva dello Stato. L’operare di tali cause dunque, rivolto solo al passato, presume – sotto il profilo logico – una attuale rilevanza giuridico-penale del fatto sub iudice; [101] semplicemente, le stesse devono essere annoverate tra le cause di esclusione della punibilità e per questo il loro ricorrere non può produrre alcun effetto sulla configurabilità del delitto accessorio; [102]

d) [Omissis - Versione integrale presente nel testo]

 
Ma se il carattere “funzionale” del rapporto intercorrente tra reato principale e reato accessorio legittima e spiega la diversità – appena esaminata – degli effetti che differenti vicende concernenti il primo producono in punto di integrazione del secondo, il medesimo carattere incide anche sulla vexata quaestio del grado di accertamento – senz’altro necessario nel procedimento per il delitto di riciclaggio – dell’effettivo ricorrere del delitto base.

In proposito, la giurisprudenza – peraltro formatasi sulla identica questione che si pone in tema di ricettazione – costantemente ritiene sufficiente una delibazione incidenter tantum che, alla stregua di elementi di fatto desumibili secondo logica dagli atti del “processo accessorio”, non si deve risolvere in una esatta e rigorosa individuazione del tipo, bensì in una mera resultanza positiva in termini di astratta configurabilità. [105]

Il diritto vivente, quindi, sfrutta la tecnica del rinvio per genera al fine di giustificare un alleggerimento dello standard probatorio in punto di sussistenza del reato presupposto: infatti, proprio l’assenza di precise indicazioni nominative dell’illecito fonte – diversamente dal contenuto dell’art. 648-bis c.p., nelle versioni del 1978 e del 1990 – legittima il giudice a non pervenire ad una precisa qualificazione dello stesso ma, più blandamente, all’autoconvinzione che il fatto dal quale derivano i proventi occultati costituisca comunque un contesto delinquenziale non colposo.


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In effetti, il rapporto di dipendenza che lega il delitto di riciclaggio al reato presupposto – nel quale, per come singolare possa sembrare, si ribadisce che insiste l’autonomia dogmatica del fenomeno riciclatorio e per mezzo del quale si traccia un canale di comunicabilità tra distinti (ma omogenei) nuclei disvaloriali – fa sì che l’illecito principale, rispetto alla fattispecie accessoria, non rilevi soltanto come elemento normativo (nella sua mera identificazione categoriale), ma anche e soprattutto come elemento materiale (nel suo essere ratio della condotta di occultamento): dunque, appare assolutamente indispensabile una ricognizione di tale illecito – sia sotto il profilo della sua tipicità oggettiva (comprensiva anche della sua antigiuridicità), sia sotto il profilo della sua tipicità soggettiva – anche se, stando alla lettera dell’art. 648-bis, comma 4 c.p. in combinato disposto con l’art. 648, comma 3 c.p., non è necessario che sia formulato positivamente nei confronti dell’autore un giudizio di colpevolezza personalizzato. [106]