Autore
Loro, Paolo
Usque in duplum et non ultra
Ugo Grozio (1585-1645) aveva individuato i due pilastri di diritto naturale che stanno a fondamento dell’espropriazione per pubblica utilità nella iusta causa e nel iustum pretium.
In effetti il giusto prezzo o equo indennizzo si trova proclamato come principio generale negli ordinamenti civili di ogni tempo e di ogni latitudine (come l’art. 834 del nostro codice civile, secondo il quale «nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità»).
Ma come si quantifica codesto iustum pretium ?
Il criterio plurisecolare e universale di quantificazione del giusto prezzo è stato ed è rappresentato dal valore venale (full compensation), non di rado soggetto a meccanismi correttivi al rialzo.
Negli statuti comunali medioevali e prerinascimentali [1], ove si rinvengono gli archetipi di una regolamentazione dell’espropriazione per pubblica utilità intesa come legittima ingerenza del potere pubblico nella proprietà privata per esigenze sociali (in genere urbanistiche e militari), l’indennità di espropriazione era pari al valore venale del bene, spesso maggiorato a titolo di ristoro della sofferenza morale causata all’espropriato, ratione affectionis, potendo raggiungere il doppio del valore venale, come nel Comune di Milano (usque in duplum et non ultra) [2].
Nelle grandi leggi organiche del XIX secolo l’indennità di esproprio era commisurata al valore venale al prezzo corrente di libero mercato, a partire dalle leggi francesi, prese a modello dai vari stati europei (Belgio, Austria, Germania, ecc.). In molti casi il valore venale era maggiorato: la legge inglese prevedeva un sovrapprezzo del 10%, la legge polacca del 5%, le leggi cantonali svizzere del 20%, le leggi lucernesi del 1930 stabilivano un indennizzo dal doppio al quadruplo del valore venale [3].
La legge fondamentale R.D. 25 giugno 1865 n. 2359, redatta da Giuseppe Pisanelli, insigne giurista e ministro di Grazia e Giustizia, disciplinò l’indennità, ragguagliandola al valore di mercato, agli articoli 39 e 40, norme di cristallina semplicità e scultorea bellezza.
« Articolo 39. Nei casi di occupazione totale, la indennità dovuta all’espropriato consisterà nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita. ».
« Articolo 40. Nei casi di occupazione parziale, l’indennità consisterà nella differenza tra il giusto prezzo che avrebbe avuto l’immobile avanti l’occupazione, ed il giusto prezzo che potrà avere la residua parte di esso dopo l’occupazione. »
La “legge di Napoli” 2892/1885
Nell’estate del 1884 il colera seminò la morte a Napoli.
Scriveva Matilde Serao: «Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli ? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare» [4]. E in effetti, gli ingegneri del Comune di Napoli, per fronteggiare l’emergenza, presentarono nell’ottobre del 1884 un progetto di radicale bonifica igienica ed edilizia della città che costituì la base della legge per il risanamento di Napoli (15 gennaio 1885, n. 2892).
Ciò comportò una imponente riqualificazione urbanistica (qualcuno parlò di imponente speculazione edilizia), basata su espropri generalizzati per consentire massicce demolizioni di tuguri malsani: «casamenti che dal livello suolo si inerpicano disordinati per scale e cunicoli, a costruire ambienti spesso privi di luce e aria diretta, e con densità di popolazione che in alcune parti della zona Porto raggiungono i 2.600 abitanti ettaro.
A questo si aggiunge anche il sistema socioeconomico, con una “economia del vicolo” entro cui si mescolano la residenza, le attività produttive anche di carattere microindustriale con l’uso di sostanze tossiche, il commercio anche alimentare e all’ingrosso con un confuso sistema di depositi e relativa rete di approvvigionamento e distribuzione» [5].
Ebbene, l’articolo 13 della legge 2892/1885 recita: «L’indennità dovuta ai proprietari degli immobili espropriati sarà determinata sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio purché essi abbiano la data certa corrispondente al rispettivo anno di locazione . In difetto di tali fitti accertati l’indennità sarà fissata sull’imponibile netto agli effetti delle imposte su terreni e su fabbricati».
Questo criterio aveva l’evidente funzione di perequare, al rialzo, l’indennità di esproprio, compensando il modesto intrinseco valore venale con l’elevata redditività degli esigui spazi disponibili, in contesti ad elevatissima densità e pressione abitativa.
La legge “casa” 865/1971: il superamento del valore venale
Pur subendo l’erosione di una progressiva serie di eccezioni, come il citato articolo 13 della legge 2892/1885, il criterio del valore venale previsto dagli articoli 39 e 40 della legge Pisanelli governò in via generale le espropriazioni per oltre un secolo, dal 1865 al 1971, sopravvivendo al terzo comma dell’articolo 42 terzo comma della Costituzione italiana, che dal iustum pretium aveva tolto l’aggettivo “iustum”, lasciando solo il “pretium” («La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale»).
Ma nel 1971 entrò in vigore la legge 865, che introdusse il criterio parametrico del valore agricolo medio, da quantificarsi annualmente ad opera di apposite Commissioni provinciali sulla base dei valori dei terreni agricoli adibiti a specifiche colture nei territori comunali ripartiti in regioni agrarie.
L’articolo 16, come successivamente modificato dall’articolo 14 della legge Bucalossi 10/1977, non distingueva le aree edificabili dalle aree non edificabili, ma introduceva un discrimine tra le aree a seconda se fossero fisicamente ricomprese o meno nel perimetro dei centri edificati (discrimine cui si è ispirata l’attuale legge sugli espropri dell’Emilia Romagna ai fini della individuazione delle aree edificabili agli effetti indennitari [6]): le prime venivano indennizzate con il valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricadeva l’area da espropriare, copriva una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa, cui si applicavano determinati coefficienti moltiplicatori differenziati a seconda del numero di abitanti.
La disciplina della legge 865/71, originariamente circoscritta all’espropriazione degli immobili per la realizzazione di programmi di interventi di edilizia abitativa e dei piani di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 167, per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compresi i parchi pubblici e di singole opere pubbliche, per il risanamento, anche conservativo, degli agglomerati urbani, per la costruzione di edifici o quartieri distrutti o danneggiati da eventi bellici o da calamità naturali, per l’acquisizione delle aree comprese nelle zone di espansione, a termini dell’art. 18 della L. 17 agosto 1942, n. 1150 , nonché per l’acquisizione degli immobili necessari per la costituzione di parchi nazionali, fu estesa dall’articolo 4 del DL 115/1974 a tutte le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o di interventi da parte dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico anche non territoriali.
Pertanto il valore agricolo medio divenne il criterio indennitario generale per qualunque opera pubblica e per qualunque tipo di area.
La sentenza 5/1980 della Corte Costituzionale e la reviviscenza del valore venale
Con la sentenza 30 gennaio 1980 n. 5 la Corte Costituzionale dichiarò, limitatamente alle aree edificabili, incostituzionale l’articolo 16 anzidetto, considerato troppo astratto per rispettare il precetto costituzionale dell’indennizzo, che secondo il consolidato orientamento della Corte, anteriore (es. sentenze nn. 91/1963, 22/1965, 115/1969, 63/1970, 58/1974, 138/1977) e successivo alla sentenza 5 (es. sentenze nn. 216/1990, 173/1991, 138/1993), deve essere “congruo, serio ed adeguato”, cioè “giusto”, nonostante, come si è detto, l’articolo 42 comma 3 abbia tralasciato quell’aggettivo e preveda di per sé solo l’indennizzo, senza ulteriori precisazioni: secondo la Corte Costituzionale “un indennizzo stabilito in misura simbolica sarebbe un indennizzo inesistente” con conseguente vulnerazione dell’art. 42, comma 3, della Costituzione.
Nella sentenza 5 la Corte Costituzionale stabilisce che la misura dell’indennità deve essere «riferita al valore del bene, determinato dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione economica perché solo in tal modo l’indennità stessa può costituire un serio ristoro per l’espropriato».
Pertanto, secondo la Corte Costituzionale, la destinazione economica di un terreno edificabile non può essere rapportata, anche per mezzo del filtro di (astratti) parametri correttivi, al valore di un terreno agricolo.
« Poste tali premesse, occorre verificare se l’adozione del valore agricolo medio come criterio per la determinazione della misura dell’indennità di esproprio sia o meno conforme al precetto dell’art. 42, comma terzo, Cost.
E la risposta a tale quesito non può essere che negativa. Come è stato sopra rilevato, perché l’indennità di espropriazione possa ritenersi conforme al precetto costituzionale, è necessario che la misura di essa sia riferita al valore del bene, determinato dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione economica perché solo in tal modo l’indennità stessa può costituire un serio ristoro per l’espropriato.
E’ palese la violazione di tale principio ove, per la determinazione dell’indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso.
E’ proprio quanto avviene nella materia in disamina perché il criterio del valore agricolo medio dei terreni secondo i tipi di coltura praticati nella Regione agraria interessata, adottato per la determinazione dell’indennità di esproprio dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 come modificato dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, non facendo specifico riferimento al bene da espropriare ed al valore di esso secondo la sua destinazione economica, introduce un elemento di valutazione del tutto astratto, che porta inevitabilmente, per i terreni destinati ad insediamenti edilizi che non hanno alcuna relazione con le colture praticate nella zona, alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore dell’area da espropriare, con palese violazione del diritto a quell’adeguato ristoro che la norma costituzionale assicura all’espropriato.
È appena il caso di rilevare che le anzidette conclusioni non contrastano con la sentenza n. 58 del 1974 di questa Corte, la quale ha ritenuto la legittimità costituzionale della legge 4 febbraio 1958, n. 158, che ragguaglia al valore venale del terreno considerato come agricolo, indipendentemente dalla sua eventuale edificazione, la indennità di esproprio per le aree necessarie all’attuazione di opere nella zona industriale e nel porto fluviale di Padova.
La Corte ritenne infatti che la indennità stabilita da tale legge riguardava terreni agricoli, secondo la loro attuale destinazione, prescindendo dal maggior valore derivante dalla loro eventuale edificabilità; pertanto, la indennità di espropriazione veniva ragguagliata al valore del bene, desumibile dalle caratteristiche di esso e dalla sua destinazione economica attuale e non appariva in contrasto con il precetto dell’articolo 42 Cost.
Né appaiono meno fondate le censure riferite all’art. 3, comma primo, Cost. (n. 3, sub b). Invero, l’astrattezza del criterio adottato e la mancata considerazione delle caratteristiche del singolo bene da espropriare possono portare a irragionevoli trattamenti differenziati di situazioni sostanzialmente omogenee, in quanto, per terreni in eguale situazione per la loro destinazione edilizia, potrebbero essere attribuiti indennizzi diversi in relazione al maggiore o minore pregio delle zone agricole nelle quali sono posti.
Egualmente palese è la disparità di trattamento che viene a determinarsi tra gli espropriati per effetto dell’attribuzione del coefficiente di maggiorazione dell’indennità, relativamente ad aree situate all’interno dei centri edificati (art. 16 della legge n. 865 del 1971 e art. 14 della legge n. 10 del 1977).
Un primo rilievo di incongruità, che genera anche esso disparità di trattamento, va fatto in relazione al criterio che regola il potere dei comuni di determinare il perimetro del centro edificato (art. 18 della legge n. 865 del 1971).
In questo, invero, non possono essere compresi suoli esterni al perimetro continuo delle aree edificate, anche se interessati dal processo di urbanizzazione; viene pertanto ad essere sacrificato senza adeguata ragione il diritto del proprietario delle aree immediatamente adiacenti al perimetro urbano, le quali hanno caratteristiche identiche a quelle incluse nel perimetro stesso, essendo interessate dal processo di urbanizzazione.
La sperequazione e la conseguente irrazionalità del diverso trattamento appaiono manifeste quando, dalla incongruità del criterio per la determinazione del perimetro urbano, si fa derivare l’attribuzione del coefficiente di maggiorazione alle sole aree interne al perimetro.
Non può opporsi al riguardo la incensurabilità del criterio, di natura discrezionale, adottato dal legislatore ordinario, in quanto essa trova un limite nel rispetto delle norme costituzionali dettate a garanzia dei diritti del cittadino. E nella specie sussiste la violazione dell’art. 3, comma primo, Cost., in quanto in situazioni sostanzialmente omogenee, stante la contiguità e la identità della destinazione delle aree, vengono disposti trattamenti differenziati, attribuendo, senza adeguata ragione, la maggiorazione dell’indennità di esproprio solo ai suoli posti all’interno del perimetro urbano, riconoscendo così per questi la rilevanza della loro destinazione edilizia e negandola per gli altri, in identità di situazioni.
Meritevole di considerazione è pure un altro aspetto di incongruità del sistema (vedi ord. n. 688 del 1978) fonte pure esso di disparità di trattamento. L’art. 15 della legge n. 865 del 1971, come sostituito dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, prevede che per i terreni agricoli l’indennità di esproprio sia fissata, sia pure a seguito di opposizione dell’interessato alla liquidazione dell’indennità in base al valore agricolo medio, con specifico riferimento alle colture effettivamente praticate nel fondo espropriato ed anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola.
Si stabilisce così l’esatto criterio che l’indennità va liquidata in base al valore effettivo del bene espropriato, determinato in relazione alle sue caratteristiche e alla sua destinazione economica; l’aver pretermesso tali riferimenti per le aree con destinazione edilizia e adottato per queste criteri astratti e irrazionali, determina una ulteriore disparità di trattamento tra gli espropriati.
Egualmente fondata appare, infine, la censura di irrazionale disparità di trattamento tra proprietari di aree edificabili colpiti da provvedimento di espropriazione e proprietari di aree aventi identiche caratteristiche e poste nella stessa zona, i quali possono disporne in regime di libera contrattazione. La disparità di trattamento non può essere ragionevolmente giustificata con riferimento agli oneri che accompagnano la concessione di edificare (art. 3 della legge n. 10 del 1977), i quali dovrebbero servire a perequare le due situazioni. Come è stato già osservato in dottrina, è quanto mai difficile che il sistema adottato riesca ad impedire la traslazione degli oneri stessi a carico degli acquirenti delle unità immobiliari costruite, affrancandone così il costruttore. » (Corte Costituzionale, sentenza 30 gennaio 1980 n. 5).
Dopo la sentenza 5/1980, il legislatore pensò bene di reintrodurre i criteri dichiarati illegittimi con la legge 385/1980, in attesa di una nuova disciplina. L’indennità determinata con il valore agricolo medio venne assoggettata a conguaglio rispetto al maggiore ipotetico indennizzo da quantificarsi in futuro sulla base di nuova legge, da emanarsi entro un anno dall’entrata in vigore della legge 385, termine più volte prorogato e poi definitivamente non rispettato.
La Corte Costituzionale con la sentenza 19 luglio 1983 n. 223 dichiarò incostituzionale tale reintroduzione del criterio già dichiarato illegittimo con la sentenza 5/1980, con l’espediente del “salvo conguaglio” rimandato a futuro fantomatico intervento legislativo.
« Per giungere a tale conclusione, non è indispensabile verificare se la determinazione della definitiva indennità di esproprio (o di occupazione) possa mai venire dissociata, differendola nel tempo, dall’emanazione del provvedimento ablativo della proprietà privata.
Quale che sia la risposta da dare a questo problema generale (ed anche ammesso che la soluzione debba essere unitaria ed univoca), l’illegittimità dell’espediente al quale ha fatto ricorso la legge n. 385 discende dalla peculiare configurazione delle impugnate «norme provvisorie»: le quali risultano comunque divergenti dal modello costituzionale di «indennizzo», previsto nel terzo comma dell’art. 42, ed in pari tempo violano il primo comma dell’art. 136 della Costituzione.
Anzitutto, non può essere trascurata o sottovalutata la testuale corrispondenza riscontrabile fra l’art. 16, quinto, sesto e settimo comma, della legge 22...