L'art.32 T.U. D.P.R.327/2001: lo ius tollendi

L’articolo 32 secondo comma del TU DPR 327/2001 stabilisce che « Il valore del bene è determinato senza tenere conto delle costruzioni, delle piantagioni e delle migliorie, qualora risulti, avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, che esse siano state realizzate allo scopo di conseguire una maggiore indennità. Si considerano realizzate allo scopo di conseguire una maggiore indennità, le costruzioni, le piantagioni e le migliorie che siano state intraprese sui fondi soggetti ad esproprio dopo la comunicazione dell’avvio del procedimento ».

Il terzo comma aggiunge che « Il proprietario, a sue spese, può asportare dal bene i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera da realizzare ».

L’articolo 32 riproduce quanto a suo tempo stabilito dall’articolo dell’articolo 43 della legge fondamentale 2359/1865, ai sensi del quale « 1. Non possono essere calcolate nel computo delle indennità le costruzioni, le piantagioni e le migliorie, quando, avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, risulti essersi eseguite nello scopo di conseguire, un’indennità maggiore, salvo il diritto al proprietario di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi. 2.

Si considerano fatte allo scopo di conseguire una maggiore indennità, senza d’uopo di prova, le costruzioni, le piantagioni e le migliorie, che, dopo la pubblicazione dell’avviso del deposito del piano d’esecuzione, siano state intraprese sui fondi in esso segnati fra quelli da espropriare. »

Pertanto, tra tutti i beni eventualmente presenti sul fondo, le “costruzioni”, le “piantagioni” e le “migliorie” incidono nel valore del bene oggetto di esproprio, salvo il caso che risultino preordinate a spuntare un’indennità maggiore (finalità opportunistica presunta se esse vengono intraprese dopo la comunicazione di avvio del procedimento).

E’ evidente infatti, che se le costruzioni, le piantagioni e le migliorie non fossero mai suscettibili di indennizzo autonomo rispetto al terreno o comunque tali da incidere in qualche misura nella stima, l’articolo 43.1 della L. 2359/1865, e soprattutto (giacché si è sostenuto – cfr. sentenza sotto riportata – che l’articolo 43.1 era stato superato dall’articolo 16 che introduceva il VAM, valore agricolo medio) l’attuale articolo 32.2 TU – coesistente con il VAM previsto dall’art. 40.3 –, non avrebbero alcun senso.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 19/05/2006 n. 11848 – presidente De Musis, relatore Ceccherini – « ... è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che il criterio del valore tabellare per la determinazione indennitaria dei suoli agricoli, introdotto dalla L. 22 ottobre 1971, n. 865, è commisurato al tipo di piantagioni effettivamente praticate sul fondo, e - a differenza dal sistema previgente, di cui alla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 43, che continua ad applicarsi unicamente alle espropriazioni ancora regolate da quella legge - non consente alcuna considerazione separata tra il valore del suolo e quello delle essenze arboree su di esso esistenti (cosiddetto soprassuolo), ai fini di un compenso aggiuntivo (9 marzo 2004 n. 4732; 9 aprile 2003 n. 5566) ».

Indipendentemente da ciò, e più in generale, il proprietario ha il diritto di asportare a sue spese – e purché ciò non arrechi pregiudizio per l’opera – qualsiasi bene e materiale sia, fisicamente ed economicamente, rimuovibile dal fondo oggetto di esproprio (ius tollendi).

A questo punto è d’uopo volgere lo sguardo al primo comma dell’articolo 32 cit., il quale recita: « l’indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data dell’emanazione del decreto di esproprio ».

Ora, il citato primo comma può indurre a ritenere che se al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio non si riscontrano in sito le piante, asportate in precedenza dal proprietario una volta venuto a conoscenza dell’esproprio, quel terreno non possiede (più) le caratteristiche per poter essere qualificato vigneto, o frutteto, o pioppeto, o bosco, ma dovrà essere considerato ai fini indennitari privo di quelle specifiche essenze arboree (es. incolto o coltura prevalente della zona ex art. 40.2 TU).

Di conseguenza, giacché l’accordo di cessione si configura quando l’indennità offerta dall’espropriante viene accettata dal proprietario, se – e solo se – lo ius tollendi viene da questi esercitato dopo l’accettazione dell’indennità (o dopo l’emanazione del decreto di esproprio), esso non si ripercuote sulla natura del terreno ai fini della sua qualificazione indennitaria: cioè, secondo questa interpretazione, il vigneto va indennizzato con il VAM relativo al vigneto solo se il proprietario taglia le vigne successivamente all’accordo di cessione o all’emanazione del decreto di esproprio.

Questa impostazione sconta, sul piano pratico, il grave inconveniente che se la p.a. segue l’iter espropriativo accelerato previsto dall’articolo 22 bis, al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio il bene è già stato occupato, e verosimilmente i soprassuoli sono già andati distrutti, vanificando così lo ius tollendi. Né, sul piano teorico, sembra trovare alcuna giustificazione, sia sotto il profilo logico, sia sotto il profilo del tenore letterale dell’articolo 32.3, che l’esercizio dello ius tollendi sia fatto dipendere dalla condivisione dell’indennità o dall’emanazione del decreto di esproprio.

Secondo una diversa impostazione, dal momento che il valore del bene è determinato senza tenere conto delle costruzioni, piantagioni e migliorie intraprese dopo la comunicazione dell’avvio del procedimento, si può ragionevolmente supporre che, a contrariis, occorra tenersi conto delle costruzioni, piantagioni e migliorie esclusivamente esistenti al momento della comunicazione dell’avvio del procedimento (sempreché non risulti aliunde il loro carattere opportunistico), a prescindere dal loro successivo destino. In pratica, dopo che il proprietario è stato informato dell’esproprio, qualunque nuova coltivazione, costruzione o miglioria da egli intrapresa sul fondo rimane a suo rischio; viceversa, qualunque coltivazione, costruzione e miglioria esistente sul fondo al momento della comunicazione di avvio del procedimento (e non gli altri beni mobili, come si dirà), incide nella stima (compatibilmente con la natura del criterio indennitario del terreno), fermo restando il diritto del proprietario ex art. 32.3 TU (già primo comma dell’articolo 43 della legge fondamentale) di scegliere se abbandonare i beni presenti sul fondo, ovvero asportare quanto può essere tolto senza pregiudizio dell’opera da realizzare, dal momento che dalla comunicazione di avvio del procedimento egli è a conoscenza che il bene è assoggettato a procedura espropriativa.

In altri termini, fin dal momento in cui è informato che perderà il terreno, il proprietario, giacché non può essere costretto a continuare a coltivarlo o a investire su di esso risorse economiche a suo rischio, può scegliere se abbandonare i soprassuoli presenti o portarseli via.

Secondo quest’ultima, preferibile, interpretazione, il bene va apprezzato in base alle sue caratteristiche al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio (ex art. 32.1, abbastanza in linea con la giurisprudenza che ha finora indicato nella vicenda ablatoria il momento cui riferire il valore del bene), fermo restando il fatto che occorre tenere conto delle piantagioni, costruzioni e migliorie esistenti al momento della comunicazione di avvio del procedimento, e ignorare quelle intraprese successivamente, o delle quali consti la finalità opportunistica.

Ciò che può essere tenuto fermo, è che i soprassuoli vegetali esistenti al momento della comunicazione di avvio del procedimento sono suscettibili di concorrere a qualificare la tipologia colturale del fondo ai fini dell’applicazione del corrispondente VAM, indipendentemente dal successivo esercizio dello ius tollendi. Cioè se al momento della comunicazione di avvio del procedimento c’erano le vigne, si applicherà il VAM “vigneto”, anche se le vigne saranno di seguito tagliate dal proprietario e non esisteranno più al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio: semmai quest’ultimo momento rileverà per la scelta dell’anno del VAM di riferimento.

Per quanto riguarda la cumulatività dello ius tollendi con l’indennità per il terreno, potrebbero sorgere dubbi dal fatto che il VAM – criterio indennitario valevole per i terreni agricoli – è, salvo diversa indicazione da parte delle Commissioni provinciali, da intendersi comprensivo del valore delle piante: lasciar togliere il soprassuolo al proprietario dopo che allo stesso ne viene pagato il controvalore mediante il VAM potrebbe sembrare, sotto questo profilo, una indebita locupletazione.

Ora (a parte ipotesi fantasiose come la decurtazione del VAM di un imprecisato ‘tot’ riferito ai soprassuoli, ovvero dell’attribuzione al terreno da cui siano state asportate le piante in vista dell’esproprio della qualità di ‘incolto produttivo’), occorre considerare che l’alternativa all’esercizio dello ius tollendi è la distruzione delle piante lasciate dal proprietario sul fondo per non vedersi diminuito il VAM.

E’ evidente che non ha senso costringere la p.a. alla distruzione (onerosa) delle piante quando per il proprietario, disponibile a rimuoverle a sue spese, esse potrebbero costituire una qualche fonte di utilità, finanche come mera legna da ardere, senza danno né oneri per l’ente. Né si vede quale preoccupazione debba derivare dall’eventuale vantaggio economico che il proprietario ricavi dalle piante, dal momento che lo ius tollendi costituisce una precisa prerogativa riconosciutagli dalla legge, senza che rilevi in alcun modo l’uso che egli intenda fare del materiale asportato, o il guadagno che riesca a ricavarne.

Né infine sembra ammissibile che a lucrare dei soprassuoli – impedendo al proprietario di esercitare lo ius tollendi – sia l’impresa che esegue i lavori, sottobanco oppure mediante esplicita attribuzione di tale facoltà dalla stazione appaltante in detrazione al corrispettivo, come si verifica non di rado con il materiale litoide ricavabile dal fondo.

Occorre infatti considerare, a proposito dello ius tollendi, che, in generale, l’espropriazione del fondo si estende a tutto quanto vi sia stabilmente impiantato, ma non anche ai beni mobili non costituenti stabile accessione dell’immobile oggetto di esproprio, i quali continuano ad appartenere a chi ne era proprietario prima dell’espropriazione del terreno; è per tale ragione che essi possono essere da quest’ultimo liberamente asportati.

I costi di rimozione dei soprassuoli spettano al proprietario che intenda esercitare lo ius tollendi, come prevedono esplicitamente sia l’articolo 43 che l’articolo 32, e non può essere imputato alla p.a. alcun onere di farsi parte attiva per la restituzione dei beni presenti sul fondo, rimediando all’inerzia del proprietario.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 8/06/2005 n. 12007 – presidente De Musis, relatore Salvago – « la mera emissione del provvedimento se comporta, per un verso, il trasferimento in capo all’occupante di tutte le facoltà connesse al godimento del fondo, opera contestualmente la trasformazione di tutti i pregressi diritti del proprietario in diritto all’indennizzo stabilito dall’art. 42 Costit.: perciò costituente la sola obbligazione posta dalle menzionate norme a carico dell’amministrazione occupante, che per avere svolto ritualmente il procedimento ablativo, non può incorrere in responsabilità per attività illecita ai sensi dell’art. 2043 cod. civ..

Consegue, da un lato, l’insussistenza del preteso diritto del (omissis) di ottenere le restituzione e/o la consegna materiale delle loro attrezzature per la vinificazione indicate nel ricorso (pag. 2), da parte della Provincia, su cui gravava il solo obbligo di corrispondere ai proprietari la dovuta indennità, da calcolarsi esclusivamente in base ai parametri di legge specificamente stabiliti per essa (art. 20 della legge 865/1971, art. 5 bis della legge 359/1992), e non in proporzione alle spese che gli espropriando avrebbero dovuto sopportare per la rimozione ed il trasporto di questi mobili, ovvero in base ai parametri previsti dall’art. 57 del r.d. 1741 del 1940 riguardanti la sola indennità di requisizione.

E dall’altro, che, dopo l’adozione e l’esecuzione del provvedimento di occupazione, il protrarsi della eventuale permanenza sul fondo di detti mobili non poteva che ascriversi a mera tolleranza dell’amministrazione, gravando semmai sui proprietari l’obbligo di rimuovere gli ostacoli dovuti al proprio comportamento (anche omissivo) che precludano alla p.a. occupante di disporre del fondo.

Se è vero, infatti, che al diritto dell’Amministrazione di occupare d’urgenza il terreno destinato ad essere trasformato in opera pubblica non corrisponde un obbligo di cooperazione del proprietario perchè l’occupazione si realizzi, una volta che questa sia avvenuta, sorge a suo carico l’obbligo di non vanificarla, mediante comportamenti che impediscano la utilizzazione piena dell’immobile da parte dell’occupante in funzione (e per l’attuazione) dello scopo cui l’occupazione risulta preordinata, e di non opporre, quindi, ostacoli alla realizzazione di quest’ultimo; perciò rimuovendo anche - ove necessario - quelle preesistenti (Cass. 11700/1991). Sicché e semmai la violazione di tale obbligo, come già affermato da questa Corte, a ledere il corrispondente diritto del titolare di disporre della cosa ed a costituire, dunque, un illecito, perciò, valutabile in termini di responsabilità (anche) civile per i danni che ne siano derivati all’espropriante.

Siffatta disciplina trova conferma proprio nella regola di carattere generale enunciata dall’art. 43 della legge fondamentale 2359 del 1865, ricordato dalla sentenza impugnata, per la quale in seguito al provvedimento ablatorio, al proprietario dell’immobile è attribuita la sola scelta di abbandonare ogni suo bene sul fondo senza poter pretendere alcuna indennità aggiuntiva (con la sola eccezione de “le costruzioni, le piantagioni e le migliorie” purché non eseguite allo scopo di conseguire un’indennità maggiore).

Ovvero “di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi”: in conformità del resto al disposto del precedente art. 1 secondo cui l’espropriazione ha per oggetto “beni immobili o diritti relativi ad immobili” e non anche i beni mobili che vi insistono e quanto non costituisce stabile accessione del fondo; che continuano ad appartenere a chi ne era in precedenza proprietario, e possono pertanto da questi essere asportati ».

Tuttavia è tradizionalmente ammessa l’indennizzabilità della perdita rappresentata dai costi necessari a rimuovere e reinstallare macchinari ed attrezzature industriali o dall’impossibilità di una loro ulteriore utilizzazione, in applicazione analogica della regola dettata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, in tema di espropriazione parziale: in tal caso l’indennità deve comprendere sia il ristoro del pregiudizio per il fatto che attrezzature, macchinari ed beni strumentali debbano essere rimossi ed impiantati altrove, sia computando le singole perdite, o aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri che incidendo sulla parte residua ne riducano detto valore.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 11/03/2006 n. 5381 – presidente Panebianco, relatore Giuliani – « ... quando sull’immobile espropriato siano stati costruiti edifici ed installate attrezzature al fine di imprimergli, in tutto o in parte, una destinazione industriale, l’espropriazione del fondo si estende a tutto quanto vi si presenti stabilmente impiantato e, per la parte in cui gli immobili espropriati presentino destinazione industriale, essi devono essere in tal modo valutati, per stabilirne il valore venale, nell’ambito in cui ciò rilevi ai fini del criterio indennitario applicabile, laddove, per quanto concerne, invece, beni mobili facenti parte dell’attrezzatura aziendale e non costituenti, pertanto, stabile accessione, essi continuano ad appartenere a chi ne era proprietario prima dell’espropriazione e possono essere da quest’ultimo asportati, ferma restando la possibilità, in applicazione della regola dettata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, in tema di espropriazione parziale, che venga ricompreso nell’indennità il ristoro del pregiudizio che l’espropriazione arreca, in rapporto ad attrezzature, macchinari ed in genere a cose non colpite dall’espropriazione medesima, per il fatto che queste debbano essere rimosse e reimpiantate altrove, ovvero per il fatto che non possano più essere utilizzate in altro modo. »

Corte di Cassazione, Sezione I civile 15/07/2004 n. 13115 – presidente De Musis, relatore Salvago – « ... ove l’espropriazione parziale di un immobile avente destinazione produttiva lo rende inidoneo all’uso pregresso costringendo l’impresa a trasferire altrove la propria sede, la relativa indennità deve tener conto di detti elementi, e comprendere sia il ristoro del pregiudizio sofferto per il fatto che attrezzature, macchinari ed ulteriori beni strumentali debbano essere rimossi ed impiantati altrove, sia la differenza ulteriore di valore perduto a causa dell’espropriazione, calcolabile altresì computando le singole perdite, o aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri che incidendo sulla parte residua ne riducano detto valore. »

Corte di Cassazione, Sezioni Unite 08/06/1998 n. 5609 – presidente La Torre, relatore Vittoria – « L’indennità deve peraltro essere rapportata anche al valore delle costruzioni che stabilmente insistono sul terreno espropriato (Sez. Un. 21 aprile 1977 n. 1465), se la loro valutabilità non è esclusa dalla legge (art. 42 della legge n. 2359 del 1865). Quanto non costituisce stabile accessione, ma attrezzatura dell’azienda, e ciò vale certamente per ogni sorta di bene mobile, che continua ad appartenere a chi ne era in precedenza proprietario, può da questi essere asportato.

E però la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di considerare - ad esempio con la sentenza 3 marzo 1962 n. 396 - che dalla regola dettata dall’art. 40 della legge n. 2359 del 1865 in tema di espropriazione parziale si desume il principio per cui nell’indennità va ricompreso il ristoro del pregiudizio che l’espropriazione arreca, in rapporto ad attrezzature e macchinari ed in genere alle cose non comprese nell’espropriazione, per il fatto che debbano essere rimossi e reimpiantati altrove o per il fatto che non possano essere in altro modo utilizzati. In conclusione, quando sull’immobile espropriato siano stati costruiti edifici ed installate attrezzature, al fine di imprimergli - in tutto od in parte - una destinazione industriale, l’espropriazione dell’immobile si estende anche a tutto quanto vi si presenti stabilmente impiantato; e, per la parte in cui gli immobili espropriati presentano destinazione industriale, essi debbono essere in tal modo valutati, per stabilirne il valore venale, nell’ambito in cui ciò rilevi ai fini del criterio indennitario applicabile; l’indennità può poi estendersi a comprendere il pregiudizio prima indicato, valutabile alla stregua dei principi sull’espropriazione parziale. (...)

Resta salvo, invece, quanto si è osservato, in sede di esame dei primi due motivi del ricorso principale, a proposito dell’indennizzabilità del pregiudizio che lo smembramento dell’unità aziendale può arrecare, sotto il profilo della perdita rappresentata dai costi necessari a rimuovere e nuovamente installare macchinari ed attrezzature o dall’impossibilità di una loro ulteriore utilizzazione. »

Al proprietario dell’immobile è dunque pacificamente attribuito in giurisprudenza il diritto potestativo di scegliere se abbandonare i beni presenti sul fondo e da esso separabili senza poter pretendere alcuna indennità aggiuntiva (con l’eccezione delle costruzioni, piantagioni e migliorie non eseguite allo scopo di conseguire un’indennità maggiore ovvero non intraprese dopo la comunicazione di avvio del procedimento, come precisa anche la sentenza 12007 cit.), ovvero di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi.

Quanto all’esclusione dall’indennizzo delle piantagioni, costruzioni o migliorie che abbiano finalità opportunistiche, l’art. 43.2 della legge del 1865 individuava come data rilevante ai fini della presunzione iuris et de iure ivi prevista, la pubblicazione dell’avviso del deposito del piano d’esecuzione. Ad escludere l’indennizzabilità della miglioria opportunistica, pertanto, non bastava la circostanza che essa fosse anteriore al decreto di espropriazione, ma lo spartiacque era individuato nella conoscenza dell’esproprio da parte del proprietario data per acquisita al momento della pubblicazione dell’avviso di deposito.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 19/01/2007 n. 1161 – presidente Proto, relatore Ceccherini – « Con il terzo motivo di ricorso si denunziano la violazione della L. n. 2359 del 1865, artt. 39 ss., e vizi di motivazione sulle opere di imbonimento, la cui esistenza è stata accertata dal consulente tecnico e ammessa nell’impugnata sentenza. Si deduce che l’esistenza di queste opere era stata accertata anche dal consulente, e che il riferimento alla mancanza di prova circa il soggetto che ne aveva sopportato i costi e circa l’epoca in cui erano state eseguite, con cui la corte territoriale aveva rigettato la richiesta, era irrilevante, perchè a norma della L. n. 2359 del 1865, art. 43 l’epoca della realizzazione delle opere su un fondo espropriato rileva solo allorché risulti successiva al provvedimento di espropriazione, e finalizzata a conseguire un maggior indennizzo di espropriazione.

Occorre premettere all’esame del motivo che, nonostante la carente esposizione, da altre parti del ricorso si desume che l’imbonimento di cui si parla era costituito da opere di livellamento di un terreno paludoso. Nell’impugnata sentenza, la corte del merito ha recepito le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il quale aveva accertato l’intervenuta bonifica del terreno, all’epoca del giudizio di merito, e la limitata edificabilità legale e di fatto del terreno espropriato, quantificandone il valore di mercato sulla base del metodo analitico.

Non risulta, né si allega, che sia stato apportato alcun abbattimento per la natura del terreno, ma la società ricorrente si duole del mancato riconoscimento del valore separato delle opere di bonifica eseguite. Il motivo - con il quale non si fa questione di onere della prova sull’epoca della miglioria, bensì si assume genericamente l’irrilevanza della prova della data d’esecuzione di migliorie, per il solo fatto che esse sono anteriori al decreto di espropriazione - è infondato nei termini nei quali è proposto.

La L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 43, norma invocata dalla società ricorrente, stabilisce infatti che sono escluse dal computo delle indennità le migliorie quando, avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, risultino eseguite allo scopo di conseguire, un’indennità maggiore, aggiungendo nel secondo comma che si considerano fatte allo scopo di conseguire una maggiore indennità, senza necessità di prova, le migliorie che, dopo la pubblicazione dell’avviso del deposito del piano d’esecuzione, siano state intraprese sui fondi in esso segnati fra quelli da espropriare. In forza di questa disposizione, diversamente da quanto si assume nel ricorso, la data rilevante non è quella del decreto di espropriazione, bensì quella della conoscenza presunta dell’espropriazione che seguirà.

Ad escludere l’indennizzabilità della miglioria opportunistica, pertanto, non bastava la circostanza che essa fosse anteriore al decreto di espropriazione, e il motivo, basato su tale erroneo assunto, deve essere respinto.»

L’art. 32.2 TU non fa riferimento al deposito del piano d’esecuzione, retaggio di una procedura superata, ma alla “comunicazione dell’avvio del procedimento”. Sennonché nella procedura espropriativa delineata dal Testo Unico sono previste tre comunicazioni di avvio del procedimento: quella per l’avvio del procedimento diretto all’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio (11.1), quella per l’avvio del procedimento diretto alla dichiarazione di pubblica utilità (16.4) e quella per l’avvio del procedimento diretto alla determinazione dell’indennità (17.2, 20.1).

Sembra ragionevole ritenere che l’articolo 32.2 intenda riferirsi all’avvio del procedimento diretto alla dichiarazione di pubblica utilità.

In primo luogo perché la fase dell’art. 11 è solo eventuale, e può precedere la realizzazione dell’opera e l’esproprio anche di anni, risultando del tutto irrealistico cristallizzare la situazione dei luoghi a un momento così distante dall’effettivo avvio della procedura espropriativa; in secondo luogo perché solo con la dichiarazione di p.u., coincidente con il progetto definitivo, si determina un ragionevole grado di certezza che l’opera si farà; in terzo luogo perché inibire rilevanza alle migliorie opportunistiche solamente dopo l’avvio della fase di determinazione dell’indennità è, viceversa, troppo tardi rispetto all’intendimento del legislatore di scongiurare comportamenti speculativi.

Rimane il fatto che la comunicazione di avvio del procedimento diretto alla dichiarazione di p.u. è prevista solo nel caso dell’approvazione di un progetto definitivo, restandone escluse le ipotesi in cui la dichiarazione di pubblica utilità discenda dall’approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o attuativo, ovvero dal rilascio di una concessione, di una autorizzazione, o di un atto avente effetti equivalenti (12.1.b). In questi casi, verosimilmente, occorre fare riferimento al momento in cui l’intenzione di approvare l’atto che equivale a dichiarazione di p.u. è divenuta di pubblico dominio. 

Autore

Loro, Paolo

Laureato in giurisprudenza, direttore e coordinatore scientifico della rivista Esproprionline, direttore del network di riviste tecnico-giuridiche Territorio.it, consulente e operatore in materia di espropriazione per pubblica utilità, direttore dei notiziari bimestrali di giurisprudenza Esproprionline, Urbium, Patrimoniopubblico, curatore di repertori e massimari giurisprudenziali, autore e curatore di varie pubblicazioni, docente in numerosi corsi di formazione, già capo ufficio espropriazioni del Comune di Padova.