L'art.32 T.U. D.P.R.327/2001: lo ius tollendi

L’articolo 32 secondo comma del TU DPR 327/2001 stabilisce che « Il valore del bene è determinato senza tenere conto delle costruzioni, delle piantagioni e delle migliorie, qualora risulti, avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, che esse siano state realizzate allo scopo di conseguire una maggiore indennità. Si considerano realizzate allo scopo di conseguire una maggiore indennità, le costruzioni, le piantagioni e le migliorie che siano state intraprese sui fondi soggetti ad esproprio dopo la comunicazione dell’avvio del procedimento ».

Il terzo comma aggiunge che « Il proprietario, a sue spese, può asportare dal bene i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera da realizzare ».

L’articolo 32 riproduce quanto a suo tempo stabilito dall’articolo dell’articolo 43 della legge fondamentale 2359/1865, ai sensi del quale « 1. Non possono essere calcolate nel computo delle indennità le costruzioni, le piantagioni e le migliorie, quando, avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, risulti essersi eseguite nello scopo di conseguire, un’indennità maggiore, salvo il diritto al proprietario di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi. 2.

Si considerano fatte allo scopo di conseguire una maggiore indennità, senza d’uopo di prova, le costruzioni, le piantagioni e le migliorie, che, dopo la pubblicazione dell’avviso del deposito del piano d’esecuzione, siano state intraprese sui fondi in esso segnati fra quelli da espropriare. »

Pertanto, tra tutti i beni eventualmente presenti sul fondo, le “costruzioni”, le “piantagioni” e le “migliorie” incidono nel valore del bene oggetto di esproprio, salvo il caso che risultino preordinate a spuntare un’indennità maggiore (finalità opportunistica presunta se esse vengono intraprese dopo la comunicazione di avvio del procedimento).

E’ evidente infatti, che se le costruzioni, le piantagioni e le migliorie non fossero mai suscettibili di indennizzo autonomo rispetto al terreno o comunque tali da incidere in qualche misura nella stima, l’articolo 43.1 della L. 2359/1865, e soprattutto (giacché si è sostenuto – cfr. sentenza sotto riportata – che l’articolo 43.1 era stato superato dall’articolo 16 che introduceva il VAM, valore agricolo medio) l’attuale articolo 32.2 TU – coesistente con il VAM previsto dall’art. 40.3 –, non avrebbero alcun senso.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 19/05/2006 n. 11848 – presidente De Musis, relatore Ceccherini – « ... è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che il criterio del valore tabellare per la determinazione indennitaria dei suoli agricoli, introdotto dalla L. 22 ottobre 1971, n. 865, è commisurato al tipo di piantagioni effettivamente praticate sul fondo, e - a differenza dal sistema previgente, di cui alla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 43, che continua ad applicarsi unicamente alle espropriazioni ancora regolate da quella legge - non consente alcuna considerazione separata tra il valore del suolo e quello delle essenze arboree su di esso esistenti (cosiddetto soprassuolo), ai fini di un compenso aggiuntivo (9 marzo 2004 n. 4732; 9 aprile 2003 n. 5566) ».

Indipendentemente da ciò, e più in generale, il proprietario ha il diritto di asportare a sue spese – e purché ciò non arrechi pregiudizio per l’opera – qualsiasi bene e materiale sia, fisicamente ed economicamente, rimuovibile dal fondo oggetto di esproprio (ius tollendi).

A questo punto è d’uopo volgere lo sguardo al primo comma dell’articolo 32 cit., il quale recita: « l’indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’accordo di cessione o alla data dell’emanazione del decreto di esproprio ».

Ora, il citato primo comma può indurre a ritenere che se al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio non si riscontrano in sito le piante, asportate in precedenza dal proprietario una volta venuto a conoscenza dell’esproprio, quel terreno non possiede (più) le caratteristiche per poter essere qualificato vigneto, o frutteto, o pioppeto, o bosco, ma dovrà essere considerato ai fini indennitari privo di quelle specifiche essenze arboree (es. incolto o coltura prevalente della zona ex art. 40.2 TU).

Di conseguenza, giacché l’accordo di cessione si configura quando l’indennità offerta dall’espropriante viene accettata dal proprietario, se – e solo se – lo ius tollendi viene da questi esercitato dopo l’accettazione dell’indennità (o dopo l’emanazione del decreto di esproprio), esso non si ripercuote sulla natura del terreno ai fini della sua qualificazione indennitaria: cioè, secondo questa interpretazione, il vigneto va indennizzato con il VAM relativo al vigneto solo se il proprietario taglia le vigne successivamente all’accordo di cessione o all’emanazione del decreto di esproprio.

Questa impostazione sconta, sul piano pratico, il grave inconveniente che se la p.a. segue l’iter espropriativo accelerato previsto dall’articolo 22 bis, al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio il bene è già stato occupato, e verosimilmente i soprassuoli sono già andati distrutti, vanificando così lo ius tollendi. Né, sul piano teorico, sembra trovare alcuna giustificazione, sia sotto il profilo logico, sia sotto il profilo del tenore letterale dell’articolo 32.3, che l’esercizio dello ius tollendi sia fatto dipendere dalla condivisione dell’indennità o dall’emanazione del decreto di esproprio.

Secondo una diversa impostazione, dal momento che il valore del bene è determinato senza tenere conto delle costruzioni, piantagioni e migliorie intraprese dopo la comunicazione dell’avvio del procedimento, si può ragionevolmente supporre che, a contrariis, occorra tenersi conto delle costruzioni, piantagioni e migliorie esclusivamente esistenti al momento della comunicazione dell’avvio del procedimento (sempreché non risulti aliunde il loro carattere opportunistico), a prescindere dal loro successivo destino. In pratica, dopo che il proprietario è stato informato dell’esproprio, qualunque nuova coltivazione, costruzione o miglioria da egli intrapresa sul fondo rimane a suo rischio; viceversa, qualunque coltivazione, costruzione e miglioria esistente sul fondo al momento della comunicazione di avvio del procedimento (e non gli altri beni mobili, come si dirà), incide nella stima (compatibilmente con la natura del criterio indennitario del terreno), fermo restando il diritto del proprietario ex art. 32.3 TU (già primo comma dell’articolo 43 della legge fondamentale) di scegliere se abbandonare i beni presenti sul fondo, ovvero asportare quanto può essere tolto senza pregiudizio dell’opera da realizzare, dal momento che dalla comunicazione di avvio del procedimento egli è a conoscenza che il bene è assoggettato a procedura espropriativa.

In altri termini, fin dal momento in cui è informato che perderà il terreno, il proprietario, giacché non può essere costretto a continuare a coltivarlo o a investire su di esso risorse economiche a suo rischio, può scegliere se abbandonare i soprassuoli presenti o portarseli via.

Secondo quest’ultima, preferibile, interpretazione, il bene va apprezzato in base alle sue caratteristiche al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio (ex art. 32.1, abbastanza in linea con la giurisprudenza che ha finora indicato nella vicenda ablatoria il momento cui riferire il valore del bene), fermo restando il fatto che occorre tenere conto delle piantagioni, costruzioni e migliorie esistenti al momento della comunicazione di avvio del procedimento, e ignorare quelle intraprese successivamente, o delle quali consti la finalità opportunistica.

Ciò che può essere tenuto fermo, è che i soprassuoli vegetali esistenti al momento della comunicazione di avvio del procedimento sono suscettibili di concorrere a qualificare la tipologia colturale del fondo ai fini dell’applicazione del corrispondente VAM, indipendentemente dal successivo esercizio dello ius tollendi. Cioè se al momento della comunicazione di avvio del procedimento c’erano le vigne, si applicherà il VAM “vigneto”, anche se le vigne saranno di seguito tagliate dal proprietario e non esisteranno più al momento dell’accordo di cessione o dell’emanazione del decreto di esproprio: semmai quest’ultimo momento rileverà per la scelta dell’anno del VAM di riferimento.

Per quanto riguarda la cumulatività dello ius tollendi con l’indennità per il terreno, potrebbero sorgere dubbi dal fatto che il VAM – criterio indennitario valevole per i terreni agricoli – è, salvo diversa indicazione da parte delle Commissioni provinciali, da intendersi comprensivo del valore delle piante: lasciar togliere il soprassuolo al proprietario dopo che allo stesso ne viene pagato il controvalore mediante il VAM potrebbe sembrare, sotto questo profilo, una indebita locupletazione.

Ora (a parte ipotesi fantasiose come la decurtazione del VAM di un imprecisato ‘tot’ riferito ai soprassuoli, ovvero dell’attribuzione al terreno da cui siano state asportate le piante in vista dell’esproprio della qualità di ‘incolto produttivo’), occorre considerare che l’alternativa all’esercizio dello ius tollendi è la distruzione delle piante lasciate dal proprietario sul fondo per non vedersi diminuito il VAM.

E’ evidente che non ha senso costringere la p.a. alla distruzione (onerosa) delle piante quando per il proprietario, disponibile a rimuoverle a sue spese, esse potrebbero costituire una qualche fonte di utilità, finanche come mera legna da ardere, senza danno né oneri per l’ente. Né si vede quale preoccupazione debba derivare dall’eventuale vantaggio economico che il proprietario ricavi dalle piante, dal momento che lo ius tollendi costituisce una precisa prerogativa riconosciutagli dalla legge, senza che rilevi in alcun modo l’uso che egli intenda fare del materiale asportato, o il guadagno che riesca a ricavarne.

Né infine sembra ammissibile che a lucrare dei soprassuoli – impedendo al proprietario di esercitare lo ius tollendi – sia l’impresa che esegue i lavori, sottobanco oppure mediante esplicita attribuzione di tale facoltà dalla stazione appaltante in detrazione al corrispettivo, come si verifica non di rado con il materiale litoide ricavabile dal fondo.

Occorre infatti considerare, a proposito dello ius tollendi, che, in generale, l’espropriazione del fondo si estende a tutto quanto vi sia stabilmente impiantato, ma non anche ai beni mobili non costituenti stabile accessione dell’immobile oggetto di esproprio, i quali continuano ad appartenere a chi ne era proprietario prima dell’espropriazione del terreno; è per tale ragione che essi possono essere da quest’ultimo liberamente asportati.

I costi di rimozione dei soprassuoli spettano al proprietario che intenda esercitare lo ius tollendi, come prevedono esplicitamente sia l’articolo 43 che l’articolo 32, e non può essere imputato alla p.a. alcun onere di farsi parte attiva per la restituzione dei beni presenti sul fondo, rimediando all’inerzia del proprietario.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 8/06/2005 n. 12007 – presidente De Musis, relatore Salvago – « la mera emissione del provvedimento se comporta, per un verso, il trasferimento in capo all’occupante di tutte le facoltà connesse al godimento del fondo, opera contestualmente la trasformazione di tutti i pregressi diritti del proprietario in diritto all’indennizzo stabilito dall’art. 42 Costit.: perciò costituente la sola obbligazione posta dalle menzionate norme a carico dell’amministrazione occupante, che per avere svolto ritualmente il procedimento ablativo, non può incorrere in responsabilità per attività illecita ai sensi dell’art. 2043 cod. civ..

Consegue, da un lato, l’insussistenza del preteso diritto del (omissis) di ottenere le restituzione e/o la consegna materiale delle loro attrezzature per la vinificazione indicate nel ricorso (pag. 2), da parte della Provincia, su cui gravava il solo obbligo di corrispondere ai proprietari la dovuta indennità, da calcolarsi esclusivamente in base ai parametri di legge specificamente stabiliti per essa (art. 20 della legge 865/1971, art. 5 bis della legge 359/1992), e non in proporzione alle spese che gli espropriando avrebbero dovuto sopportare per la rimozione ed il trasporto di questi mobili, ovvero in base ai parametri previsti dall’art. 57 del r.d. 1741 del 1940 riguardanti la sola indennità di requisizione.

E dall’altro, che, dopo l’adozione e l’esecuzione del provvedimento di occupazione, il protrarsi della eventuale permanenza sul fondo di detti mobili non poteva che ascriversi a mera tolleranza dell’amministrazione, gravando semmai sui proprietari l’obbligo di rimuovere gli ostacoli dovuti al proprio comportamento (anche omissivo) che precludano alla p.a. occupante di disporre del fondo.

Se è vero, infatti, che al diritto dell’Amministrazione di occupare d’urgenza il terreno destinato ad essere trasformato in opera pubblica non corrisponde un obbligo di cooperazione del proprietario perchè l’occupazione si realizzi, una volta che questa sia avvenuta, sorge a suo carico l’obbligo di non vanificarla, mediante comportamenti che impediscano la utilizzazione piena dell’immobile da parte dell’occupante in funzione (e per l’attuazione) dello scopo cui l’occupazione risulta preordinata, e di non opporre, quindi, ostacoli alla realizzazione di quest’ultimo; perciò rimuovendo anche - ove necessario - quelle preesistenti (Cass. 11700/1991). Sicché e semmai la violazione di tale obbligo, come già affermato da questa Corte, a ledere il corrispondente diritto del titolare di disporre della cosa ed a costituire, dunque, un illecito, perciò, valutabile in termini di responsabilità (anche) civile per i danni che ne siano derivati all’espropriante.

Siffatta disciplina trova conferma proprio nella regola di carattere generale enunciata dall’art. 43 della legge fondamentale 2359 del 1865, ricordato dalla sentenza impugnata, per la quale in seguito al provvedimento ablatorio, al proprietario dell’immobile è attribuita la sola scelta di abbandonare ogni suo bene sul fondo senza poter pretendere alcuna indennità aggiuntiva (con la sola eccezione de “le costruzioni, le piantagioni e le migliorie” purché non eseguite allo scopo di conseguire un’indennità maggiore).

Ovvero “di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi”: in conformità del resto al disposto del precedente art. 1 secondo cui l’espropriazione ha per oggetto “beni immobili o diritti relativi ad immobili” e non anche i beni mobili che vi insistono e quanto non costituisce stabile accessione del fondo; che continuano ad appartenere a chi ne era in precedenza proprietario, e possono pertanto da questi essere asportati ».

Tuttavia è tradizionalmente ammessa l’indennizzabilità della perdita rappresentata dai costi necessari a rimuovere e reinstallare macchinari ed attrezzature industriali o dall’impossibilità di una loro ulteriore utilizzazione, in applicazione analogica della regola dettata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, in tema di espropriazione parziale: in tal caso l’indennità deve comprendere sia il ristoro del pregiudizio per il fatto che attrezzature, macchinari ed beni strumentali debbano essere rimossi ed impiantati altrove, sia computando le singole perdite, o aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri che incidendo sulla parte residua ne riducano detto valore.

Corte di Cassazione, Sezione I civile 11/03/2006 n. 5381 – presidente Panebianco, relatore Giuliani – « ... quando sull’immobile espropriato siano stati costruiti edifici ed installate attrezzature al fine di imprimergli, in tutto o in parte, una destinazione industriale, l’espropriazione del fondo si estende a tutto quanto vi si presenti stabilmente impiantato e, per la parte in cui gli immobili espropriati presentino destinazione industriale, essi devono essere in tal modo valutati, per stabilirne il valore venale, nell’ambito in cui ciò rilevi ai fini del criterio indennitario applicabile, laddove, per quanto concerne, invece, beni mobili facenti parte dell’attrezzatura aziendale e non costituenti, pertanto, stabile accessione, essi continuano ad appartenere a chi ne era proprietario prima dell’espropriazione e possono essere da quest’ultimo asportati, ferma restando la possibilità, in applicazione della regola dettata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, in tema di espropriazione parziale, che venga ricompreso nell’indennità il ristoro del pregiudizio che l’espropriazione arreca, in rapporto ad attrezzature, macchinari ed in genere a cose non colpite dall’espropriazione medesima, per il fatto che queste debbano essere rimosse e reimpiantate altrove, ovvero per il fatto che non possano più essere utilizzate in altro modo. »

Corte di Cassazione, Sezione I civile 15/07/2004 n. 13115 – presidente De Musis, relatore Salvago – « ... ove l’espropriazione parziale di un immobile avente destinazione produttiva lo rende inidoneo all’uso pregresso costringendo l’impresa a trasferire altrove la propria sede, la relativa indennità deve tener conto di detti elementi, e comprendere sia il ristoro del pregiudizio sofferto per il fatto che attrezzature, macchinari ed ulteriori beni strumentali debbano essere rimossi ed impiantati altrove, sia la differenza ulteriore di valore perduto a causa dell’espropriazione, calcolabile altresì computando le singole perdite, o aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri che incidendo sulla parte residua ne riducano detto valore. »...

Autore

Loro, Paolo

Laureato in giurisprudenza, direttore e coordinatore scientifico della rivista Esproprionline, direttore del network di riviste tecnico-giuridiche Territorio.it, consulente e operatore in materia di espropriazione per pubblica utilità, direttore dei notiziari bimestrali di giurisprudenza Esproprionline, Urbium, Patrimoniopubblico, curatore di repertori e massimari giurisprudenziali, autore e curatore di varie pubblicazioni, docente in numerosi corsi di formazione, già capo ufficio espropriazioni del Comune di Padova.