La contraffazione e l'art. 517 c.p.

L’art. 517 c.p. prevede quindi due condotte alternative consistenti nel «porre in vendita» ovvero nel «mettere altrimenti in circolazione» prodotti con attitudine ingannatoria. La prima condotta consiste nell’offerta di un determinato bene a titolo oneroso, mentre la seconda ricomprende qualsiasi forma di messa in contatto della merce con il pubblico, anche a titolo oneroso [12].

La condotta di “messa in circolazione” differisce infatti dalla condotta di “messa in vendita” per la sua più ampia estensione, e deve riferirsi infatti a qualsivoglia attività finalizzata a fare uscire la res dalla sfera giuridica e di custodia del mero detentore, includendo quindi anche condotte come la diffusione per mera liberalità [13], l’immagazzinamento finalizzato alla distribuzione o la circolazione della merce destinata alla messa in vendita, con esclusione della mera detenzione in locali diversi da quelli della vendita o del deposito prima dell’uscita della merce dalla disponibilità del detentore [14].

In tal senso si esprime anche la giurisprudenza: «L’espressione “chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti ad indurre in inganno il compratore” deve essere intesa non come effettivo compimento di un atto dispositivo, bensì come attività consistente nel mettere sul mercato beni con segni distintivi di per sé idonei a trarre in errore la controparte, trattandosi di reato di pericolo, diretto alla tutela dell’ordine economico. La semplice traditio del bene dal grossista al dettagliante costituisce essa stessa “messa in circolazione”, in quanto sicuramente si configura quale atto diffusivo della merce» [15].

Ed anche la semplice presentazione di prodotti industriali con segni mendaci alla dogana per lo sdoganamento può integrare il delitto in esame. [16]

Di vitale importanza per l’integrazione degli estremi del delitto è l’attitudine ingannatoria che deve avere il prodotto imitato; in altri termini il prodotto deve poter trarre in inganno il consumatore di media diligenza, anche se poi non si concretizza il reale danno al consumatore, poiché la fattispecie è di pericolo concreto.

Secondo Palombi-Pica [17], il mendacio ingannevole può cadere anche sulle modalità di presentazione del prodotto, cioè in quel complesso di colori, immagini, fregi, che possono indurre l’acquirente a falsare il giudizio sulla qualità o la provenienza della merce offerta.

Parte della giurisprudenza di merito [18] tendeva ad escludere la configurabilità del delitto qualora, in ragione delle modalità con cui avviene la circolazione dei prodotti non originali (vendita al di fuori del circuito esclusivo di distribuzione, prezzi di molto inferiori al normale, assenza dei contrassegni notoriamente apposti su tutti i prodotti originali) il consumatore non possa non essere consapevole di acquistare oggetti solo similari.

Più rigorosa è però la giurisprudenza di legittimità, che insiste sull’astratta attitudine ingannatoria del bene, nel tentativo di non permettere “zone franche”, in cui è possibile smerciare impunemente prodotti frutto di imitazione.

«La mera attitudine del marchio “imitato” a trarre in inganno il consumatore sulle caratteristiche essenziali del prodotto integra essa stessa l’elemento oggettivo del reato, per la cui sussistenza non rilevano, come si è detto, né l’esistenza di un marchio registrato o riconosciuto, né l’effettiva contraffazione dello stesso e neppure la concreta induzione in errore dell’acquirente sul bene acquistato, dovendosi ritenere sufficiente, per la configurabilità del reato ex art. 517 c.p., la mera attitudine, derivante dall’imitazione del marchio, a trarre in inganno colui che acquista.

In quest’ottica, appaiono allora del tutto irrilevanti le considerazioni svolte dal Tribunale nelle ordinanze impugnate, secondo cui, dato come fatto notorio che nei negozi “(OMISSIS)” si vendono solo o prevalentemente beni contraffatti, a ciò consegue che il cliente è “preventivamente” avvertito circa la natura della merce che si accinge ad acquistare e non può essere, conseguentemente, fuorviato. Simile argomentare non solo è in contrasto con quanto poc’anzi esposto circa il momento consumativo del reato, ma appare viziato anche sotto un profilo di ordine logico, perché - come rilevato anche dal Pubblico Ministero impugnante - vorrebbe dire riconoscere di fatto una “zona franca” nel cui ambito il precetto penale può essere tranquillamente eluso» [19].

Il reato, infine, richiede solo il dolo generico; occorre quindi la mera consapevolezza dell’attitudine decettiva della veste di presentazione del prodotto [20].

Un’ultima notazione deve riguardare l’abrogazione del delitto di cui al primo comma dell’art. 127 del D.Lgs. 30/2005 (Codice della Proprietà industriale), operata dalla legge n. 99/2009.

Ebbene, l’abrogato delitto testualmente disponeva: «Salva l’applicazione degli articoli 473, 474 e 517 del codice penale, chiunque fabbrica, vende, espone, adopera industrialmente, introduce nello Stato oggetti in violazione di un titolo di proprietà industriale valido ai sensi delle norme del presente codice, è punito, a querela di parte, con la multa fino a 1.032,91 euro».

In vigenza della disposizione, era stato rilevato come tale reato, pur costituendo un’ipotesi sussidiaria rispetto a quelle previste dagli artt. 473, 474 e 517 c.p., tutelasse esclusivamente il patrimonio privato, con la conseguenza che l’accertamento processuale dovesse legarsi a parametri diversi da quelli richiesti dalle norma codicistiche, le quali, invece, assorbivano lo specifico interesse patrimoniale in un altro collettivo di maggiore portata (ordine economico e tutela del pubblico dei consumatori) [21].

Orbene, l’abrogazione del citato delitto porta a ritenere che, ad oggi, le condotte prima punite in base al codice di proprietà industriale rientrino ora, se del caso, nell’art. 517 c.p. o negli artt. 473 e 474 c.p. [22], i quali, avendo raggio di tutela più ampio, ricomprenderanno oggi anche l’interesse privatistico del singolo imprenditore danneggiato dalle condotte di imitazione o contraffazione.

L’art. 517, quindi, è venuto ad assumere una valenza più ampia ed un ruolo di tutela del mercato, al quale si aggiunge quantunque accidentalmente, anche la protezione dell’interesse dell’imprenditore a non vedere i propri prodotti imitati o contraffatti.