1. Le vulnerabilità del mercato e la contraffazione
Le particolarità del mercato italiano, delle imprese che vi operano ed il tipo di prodotti che esse realizzano e/o commerciano hanno indubbiamente una forte influenza sullo sviluppo del fenomeno contraffattivo.
In ragione di ciò, l’Osservatorio per l’economia sana della Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato di Milano, con il supporto scientifico del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale (CNPDS) in collaborazione con Transcrime, ha avviato il progetto “Analisi dell’impatto dell’attuale regolazione sul mercato della moda finalizzata alla riduzione delle opportunità criminali (crime proofing)” proprio al fine di analizzare le vulnerabilità dei mercati della moda e le problematiche inerenti la tutela della proprietà industriale in questo settore, per proporre soluzioni suscettibili di migliorarne lo stato di salute e l’efficienza.
Grazie allo studio effettuato, si è riscontrato che le principali criticità delle imprese lombarde del settore moda rispetto a condotte di contraffazione ed usurpazione sono i “mercati alternativi al mercato della moda”, e i settori “vendite”, “risorse umane” e “produzione”, nei quali è stato rilevato un livello di vulnerabilità molto elevato.
Per quanto concerne i “mercati alternativi al mercato della moda”, si è considerato se i criminali operanti in questo settore sono coinvolti in ulteriori attività lecite alternative. Poiché i principali produttori di contraffatto sono operatori del mercato legale con una conoscenza approfondita del settore di riferimento e del know-how tecnico necessario, essi difficilmente disperdono le proprie energie in altre attività lecite parallele. Al contrario, tendono a concentrare tutte le risorse disponibili esclusivamente nella produzione di abbigliamento e accessori contraffatti.
Quanto al mercato nero di prodotti contraffatti, esso è molto esteso e fiorente, anche in ragione del contrasto esistente tra la domanda elevata di beni di lusso e la difficile situazione economica del Paese. Questo divario sembra indirizzare i consumatori verso beni più economici e/o contraffatti. Con il termine “vendite” si fa riferimento alle tecniche utilizzate dalle imprese per attrarre la clientela.
Il livello di vulnerabilità molto elevato di questo processo produttivo è da imputarsi all’assenza di costi di pubblicità e di marketing per chi produce contraffatto (diversamente dalle imprese lecite che investono fortemente in questo settore); all’esiguità degli sconti praticati per i prodotti delle fasce alte del settore ed ai prezzi molto elevati dei prodotti delle fasce alte del settore moda (quelli maggiormente attrattivi per i consumatori).
Anche nel settore delle risorse umane il livello di vulnerabilità è molto elevato, soprattutto nelle attività di gestione e di formazione del personale; ciò sembra derivare dal basso livello di corporate culture interno all’impresa. Nel settore moda il processo produttivo è molto frammentato ed i terzisti che lavorano per conto di più imprese raramente sono vincolati da contratti di esclusiva. Questa realtà produttiva ostacola la diffusione e la condivisione dell’etica aziendale, che sarebbe altrimenti in grado di sanare eventuali carenze (quali, ad esempio, l’insoddisfazione dei dipendenti) e può favorire, più o meno direttamente, l’ingresso della criminalità nel settore.
Infine, l’elevata vulnerabilità della produzione appare determinata essenzialmente da due fattori.
Anzitutto la mancanza di attaccamento delle aziende terziste ai valori dell’impresa committente può indurle a utilizzare conoscenze e informazioni sensibili e/o riservate per attività parallele di natura illegale. Infatti, pur detenendo un know-how tecnico-scientifico molto elevato, i terzisti spesso ignorano il valore economico di beni immateriali come marchio e design, e le conseguenze derivanti dalla violazione dei diritti di proprietà industriale.
Inoltre, le imprese del settore moda tendono a demandare una o più fasi del processo produttivo ad aziende esterne (terzisti), e a ritenere all’interno solo i momenti legati alla progettazione delle nuove linee. Di solito i terzisti sono meri esecutori e non vengono coinvolti in fasi distinte da quelle della produzione, quali progettazione e scelta delle materie prime. La mancanza di coinvolgimento con le attività svolte dall’impresa madre può dunque determinare insoddisfazione ed estraneità, sentimenti che potrebbero indurre condotte contrarie agli interessi dell’impresa. Tra queste rientrano anche quelle a favore della produzione e commercio di merce contraffatta e usurpativa.
A presentare un livello di vulnerabilità elevato a condotte di contraffazione e usurpazione sono invece gli indicatori “natura del prodotto” e “soglia di accesso al mercato”. Ciò è imputabile principalmente al valore intrinseco di questi beni, altamente desiderabili dai consumatori e con un alto valore aggiunto; al fatto che questi beni mantengono il loro valore fisico per un periodo sufficientemente esteso da costituire un’ottima opportunità di investimento per i criminali e al fatto che i maggiori produttori di contraffatto spesso sono imprenditori che già operano nel mercato legale, quindi che detengono know-how, macchinari e materie prime necessari.
Molti sono quindi i fattori propri del mercato del lusso italiano che sono, loro malgrado, quasi un incentivo per i contraffattori, dalla facilità con cui abbigliamento e accessori possono essere trasportati e alla liberalizzazione del mercato europeo, che rende più ardui i controlli della merce in transito all’interno dell’Unione; alla scarsità di risorse allocate per la protezione dei diritti di proprietà industriale; alla natura stessa del mercato di abbigliamento ed accessori, caratterizzato da un alto grado di competizione; alla scarsa presenza di beni di lusso sul mercato, che lascia insoddisfatta una percentuale importante della domanda.
La ricerca ha dato come esito la suddivisione in tre categorie delle vulnerabilità del mercato italiano, a seconda che siano riconducibili:
a) alla natura stessa del mercato, (ad esempio, alla tipologia ed al valore intrinseco del prodotto ed alla facilità con cui può essere trasportato);
b) alla specifica situazione locale, in una visione ampia, ovvero allo sviluppo economico del Paese e alle risorse allocate per la protezione dei diritti di proprietà industriale, che incidono sull’operato delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria;
c) alle caratteristiche delle imprese operanti nel settore, ovvero alle scelte di gestione interna e di allocazione delle risorse per la lotta alla contraffazione.
Per quanto concerne la natura del mercato e la situazione locale, gli unici interventi possibili sono una maggiore allocazione di risorse statali per la protezione dei diritti di proprietà industriale e il miglioramento dell’operato dell’autorità giudiziaria (ad esempio, attraverso l’adozione di orientamenti unitari). Quanto alle caratteristiche delle imprese del settore, è stato invece rilevato che le maggiori vulnerabilità derivano dalla tendenza a terziarizzare e delocalizzare parte della produzione, dalla mancanza di controlli approfonditi sull’operato dei terzisti, e dall’assenza di un’etica aziendale condivisa.
2. Un modello strategico
Avendo già analizzato gli enormi costi che la contraffazione comporta per le imprese che lavorano nel lusso, è evidente che grande sarà anche l’influenza che il contrasto ad esso avrà nei bilanci, nelle politiche e nelle strategie aziendali.
Gucci ad esempio ha un dipartimento di Legal&Corporate Affairs composto da trenta professionisti tra avvocati e assistenti legali, distribuiti tra le varie sedi principali della casa di moda.
Vista l’immensità dello sforzo economico che i marchi del lusso dovrebbero affrontare per combattere in tutti i fronti e ad ogni livello la contraffazione, è necessario che i dipartimenti legali scelgano cosa difendere, quando farlo, con quanta aggressività e quindi con quale investimento di risorse.
È cioè fondamentale mantenere una logica di efficienza anche in queste operazioni, tenendo presente il necessario equilibrio tra costi e benefici, anche perché l’obiettivo delle azioni legali non è necessariamente sempre lo stesso.
In taluni casi, considerando ad esempio l’insolvibilità dell’eventuale controparte, il cosiddetto “accordo di principio” può essere l’obiettivo più utile da conseguire, visto che di fatto consiste in un impegno formale del contraffattore di turno ad interrompere per sempre la sua attività (almeno nei confronti del marchio attore). Altre volte il risultato più importante per l’impresa è il risarcimento del danno subito.
A decidere quale strategia adottare e come muoversi è il team legale interno della casa di moda che agisce anche per preparare l’istruzione della causa.
Ad esso compete il compito di raccogliere le prove documentali in modo che all’advisor legale esterno siano forniti tutti gli elementi che saranno utili a far valere la posizione dell’impresa detentrice del marchio stabilendo anche il grado di aggressività da tenere nell’azione che si va ad incominciare.
In tal senso la struttura legale interna seleziona i professionisti in grado di svolgere al meglio questo compito, ritenendo fondamentale nell’affidamento dei mandati il possesso sia di una specializzazione in materia di proprietà intellettuale che una buona conoscenza del settore moda.
Il team dell’impresa tiene inoltre conto del valore, sia economico ma anche di immagine, della controversia, della necessità di arrivare ad una transazione o di portare fino in fondo il contenzioso, e non da ultimo prende in considerazione chi sia la controparte e quale debba essere la tipologia e il livello più adatto del legale da contrapporre.
Una singola azienda può avvalersi contemporaneamente di studi specialistici, professori esperti nella materia e law firm, con un team molto mutevole; similmente a come periodicamente si provvede ad una revisione dei fornitori di materiali, altrettanto avviene anche per i fornitori di servizi di consulenza legale.
A riprova poi che l’incidenza delle parcelle influisce sulla valutazione del tipo e della misura di azione da svolgere, le maison di moda richiedono regolarmente ai propri consulenti un preventivo, che consenta di avere una chiara idea dei costi che una determinata iniziativa potrà comportare. Ciò avviene soprattutto quando si procede ad un’azione legale in tribunale e dopo un’usuale negoziazione.
L’impegno a difesa dei marchi e brevetti è molto elevato sul fronte asiatico per quasi tutti i marchi coinvolti, del lusso e non. La Cina in particolare è contemporaneamente uno dei mercati per essa più importanti, ma è anche uno dei fronti più caldi per le imprese nella lotta alla contraffazione. Viene riconosciuto però, che dopo le olimpiadi la Cina ha accresciuto notevolmente gli sforzi nella lotta alla contraffazione anche se, dall’inizio dell’attuale crisi economica, sembra già essere purtroppo subentrato un atteggiamento meno severo da parte dell’autorità giudiziaria cinese, tendenzialmente incline a sanzionare solo le violazioni più gravi.
Nonostante ciò, il recupero danni, a dispetto di quanto accadeva in passato, porta risultati di maggior rilievo rispetto alle condanne quasi nominali che venivano emesse fino a pochi anni fa e questo è di non poco incentivo per i grandi marchi del lusso a investire in indagini ed azioni legali verso i grandi contraffattori.
3. La contraffazione nel D.Lgs. 231/01
C’è già stata occasione di osservare che le imprese non sono sempre ed esclusivamente vittime della contraffazione, ma possono anche, intenzionalmente ovvero anche solo colposamente, concorrere a favorirne lo sviluppo.
L’inserimento dei reati contro la contraffazione dei marchi nel novero dei reati-presupposto della responsabilità penale dell’impresa ex D.Lgs. 231/01 contenuta nella L. 99/09 ha attualmente esteso anche a livello imprenditoriale e sovra individuale gli ambiti della responsabilità derivante dalla commissione dei reati contraffattivi, giustamente riconsiderati come reati gravi, da qualificarsi come veri e propri delitti contro l’economia.
È questo un passo certamente significativo, che va anche nella direzione della lotta alla concorrenza sleale, alla scorrettezza di quel certo modo di fare impresa che fino ad oggi, approfittando della lentezza dei procedimenti giudiziari di accertamento e condanna, e della sostanziale inidoneità del sistema sanzionatorio tradizionale a reprimere queste attività illecite, è giunto ad utilizzare l’impresa come uno strumento versatile per copiare i prodotti di successo del momento e venderli a prezzi bassi o bassissimi senza pagare alcun dazio agli aventi diritto.
L’opportunità fornita dalla nuova norma e dal potenziamento del microsistema della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (derivante dalla commissione di reati a loro interesse e vantaggio), è quella di favorire la creazione di un circuito virtuoso, nel quale le imprese innovative possano trovare un supporto operativo di controllo costante, diverso da quello giudiziario, dove le procedure ed i controlli introdotti scoraggiano la produzione di prodotti contraffatti da parte, ad esempio, di licenziatari infedeli con notevoli vantaggi economici.
Questo nuovo assetto del D.Lgs. 231/01 è, senz’ombra di dubbio, uno stimolo agli imprenditori, affinché ristrutturino l’organizzazione delle loro imprese in modo più sicuro e moderno rispetto alle problematiche della proprietà industriale e dell’innovazione del mercato, dedicandovi attenzione, procedure e risorse.
L’inclusione della contraffazione nel bouquet dei reati cui il D.Lgs 231/01 risulta applicabile non ha solo il senso di un inasprimento del generale aspetto sanzionatorio, che pure ha caratterizzato la L. 99/09; si tratta invero di un approccio nuovo al problema, volto a sradicare la cultura della contraffazione dalle imprese, che spesso non si curano delle privative altrui con scelte al limite del parassitario e sicuramente concorrenzialmente scorrette.
È evidente, infatti, che la diffusione della contraffazione crea un’area critica del sistema economico nazionale e l’impresa non può più porsi sul mercato come uno spettatore distratto, che possa permettersi di omettere le opportune verifiche sui segni che si intendono adottare, senza aver accuratamente verificato l’esistenza di vincoli alla messa in libera circolazione dei prodotti fatti realizzare all’estero, o comunque importati, e sulla presenza di brevetti o privative di terzi.
La nuova normativa offre l’opportunità all’impresa di dotarsi di un approccio metodologico ed organizzativo; consente di mappare il percorso interno delle scelte; permette di creare delle idonee procedure di controllo, interno ed esterno all’impresa. Inoltre consente di selezionare i fornitori anche su basi etiche e, così facendo, è favorito l’aumento del valore aggiunto del prodotto e l’ampliamento dell’effetto anticontraffattivo. Di conseguenza verrà meglio inquadrato e valorizzato ogni elemento produttivo del valore della filiera del marchio, dell’innovazione tecnologica o dello sfruttamento del diritto d’autore. Infine risulterà più facile sanzionare le trasgressioni, compiere verifiche e tenere traccia dei controlli, e tutto ciò, non solo a vantaggio delle piccole e medie imprese, come si ritiene genericamente, ma anche a favore dei grossi gruppi industriali.
Ogni impresa che punti sugli elementi sopra citati è perciò molto incentivata, se non quasi costretta, a creare proprie procedure e protocolli, che diano evidenza di quanto l’impresa dedichi attenzione alla ricerca ed alla qualità e ciò in particolare per quando riguarda le società che fanno produrre o duplicare diritti principalmente all’estero o che distribuiscono prodotti provenienti da altri mercati come telefonia, computer, capi di abbigliamento o moda provenienti da Paesi produttori a basso costo.
Sono altresì interessate le società che hanno proprio nell’italianità dei prodotti il loro valore aggiunto, come ad esempio quelle del settore agro-alimentare o delle produzioni tipiche.
Anche la fascia dei fornitori deve offrire garanzie idonee; così come avviene già da anni per la salvaguardia del lavoro infantile, si deve evidenziare e premiare un circuito di eccellenza anche esterno all’azienda che disincentivi la contraffazione, coinvolgendo tutto il circuito di realizzazione del prodotto.
È evidente, infatti, che anche un solo fornitore sbagliato o non all’altezza rischia di compromettere l’intera produzione, oltre che danneggiare l’immagine complessiva dell’azienda.
Adottare procedure e controlli, secondo le best practices dei Modelli Organizzativi contemplati dal D.Lgs. 231/01, quindi, non solo può servire a garantire il rispetto e l’esenzione da responsabilità da parte dell’azienda, ma testimonia l’impegno consapevole del valore del marchio, della ricerca e l’eccellenza dell’impresa stessa.
4.La tutela del Made in Italy di prodotti tessili, di pelletteria e calzaturieri
È recentissimo l’ennesimo provvedimento (Legge 8 aprile 2010 n. 55) con cui il legislatore è intervenuto a introdurre una disciplina speciale per la tutela del Made in Italy nei settori tessile e delle calzature. Ed infatti da alcuni anni si sono succeduti numerosi interventi normativi volti alla lotta alla contraffazione del marchio di origine della merce della produzione italiana. La fattispecie penale di base era, come noto, costituita dall’art. 4 comma 49 della Legge 350 del 2003, più volte aggiornata, che punisce con le pene dell’art. 517 c.p. la commercializzazione, anche tentata, di prodotti recanti l’utilizzo improprio del marchio Made in Italy. In particolare con Legge 99 del 23 luglio 2009, è stato chiarito il significato dei termini “uso falso” o “fallace” (introducendo anche un apposito comma 49-bis
concernente l’uso fallace di marchio costituente mero illecito amministrativo, e la possibilità di sanatoria amministrativa mediante l’esatta indicazione dell’origine ovvero l’asportazione della stampigliatura Made in Italy.).
Tale complessa disciplina, che inevitabilmente deve fare i conti con i regolamenti comunitari in materia con riferimento ai singoli settori produttivi
, sino all’emanazione della Legge 55/2010 poneva un regime di sostanziale facoltatività dell’indicazione di provenienza dei prodotti in quanto l’ordinamento consentiva, ma non costringeva, a indicare il luogo di provenienza, limitandosi ad apprestare una protezione particolarmente rigorosa e penalmente rilevante del cd. Made in Italy contro indicazioni false o fallaci che lo riguardassero.
Ecco che, non senza difficoltà di introduzione, critiche e dubbi, la Legge 55/2010 ha stabilito invece, per la prima volta, un vero e proprio obbligo di indicazione della provenienza per i prodotti di questi settori
.
Per di più la necessità di evidenziare il luogo di origine di ciascuna fase della lavorazione rappresenta una difficoltà assai gravosa posto che nei tre settori è la stessa leggea dettagliare cosa si intenda per “fasi di lavorazione” col risultato di produrre un catalogo assai ricco, che dovrà, per forza di cose, essere contemplato nella etichettatura dei vari prodotti posti in commercio con il marchio Made in Italy. Inoltre l’obbligo in questione grava non solo sugli imprenditori italiani, ma anche sugli operatori stranieri, comunitari od extracomunitari.
La Legge 55/2010 pone seri problemi applicativi ed interpretativi anche sul piano delle sue previsioni sanzionatorie. Nello specifico, l’art. 3 della Legge stabilisce un complesso meccanismo di sanzioni amministrative a carico sia della persona fisica, sia dell’impresa che compiono attività in violazione delle sole disposizioni di cui all’art. 1 commi 3 e 4; tali violazioni assurgono a delitto - con conseguenti severe sanzioni - allorquando l’agente commetta tali condotte “reiteratamente” o “attraverso attività organizzate”.
Come si vede, dunque, e sebbene l’art. 3 premetta una classica clausola di riserva penale, che porrà all’interprete l’ulteriore problematica del coordinamento di tale disposizione con quelle di cui alla Legge 350/2003 nonché con l’art. 517 c.p., lo stesso articolo non sottopone a sanzione l’omissione di etichettatura dei prodotti Made in Italy stabilita come obbligo dal comma 1 dell’art. 1 (che costituisce la vera novità della legge), ma solo le condotte di minore innovatività e comunque di natura esclusivamente commissiva previste dai commi 3 e 4. In tal modo è evidente che la portata innovatrice ed originale della norma viene privata in partenza di quella efficacia che solo la sua coercitività avrebbe consentito di realizzare.
Transcrime è il Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dell’Università degli Studi di Trento.
Per advisor si intende il consigliere e/o il consulente in grado di sostenere e supportare un azienda nelle fasi delicate di cambiamento, come fusioni, acquisizioni, joint-venture o di problemi di carattere legale/finanziario. Ha competenze specifiche, altamente specialistiche e professionali, sia in tema di tecniche di analisi e valutazione di azienda, sia per gli aspetti negoziali e contrattuali, nonché capacità di relazione e disponibilità di un network di contatti a livello nazionale ed internazionale al fine di massimizzare le opportunità di individuazione di possibili controparti interessate all’operazione.
Art. 25-bis: «1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal codice penale in materia di falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconoscimento, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie: (omissis) f-bis) per i delitti di cui agli articoli 473 e 474, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote».
Art. 25-bis.1. Delitti contro l’industria e il commercio: «1. In relazione alla commissione dei delitti contro l’industria e il commercio previsti dal codice penale, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-ter e 517-quater la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per i delitti di cui agli articoli 513-bis e 514 la sanzione pecuniaria fino ad ottocento quote.
2. Nel caso di condanna per i delitti di cui alla lettera b) del comma 1 si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2».
«L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione, ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 c.p. costituisce falsa indicazione la stampigliatura “Made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “Made in Italy”. Le false e le fallaci indicazioni di provenienza o di origine non possono comunque essere regolarizzate quando i prodotti o le merci siano stati già immessi in libera pratica».
Reclusione fino a due anni e multa fino a 20.000 euro.
«Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000».
Cfr. Regolamento CE 450/2008 cd. Codice doganale europeo, e, ad es. Regolamento CE 479/2008 sulla produzione vinicola e Regolamento CE 510/2006 sui prodotti alimentari ed agro-alimentari.
In particolare la Commissione Europea ha sollevato obiezioni formali e sostanziali, alle quali il governo italiano ha risposto sottolineando che la Legge 55/2010 è una legge quadro, che per la sua efficacia prevede l’adozione delle disposizioni attuative stabilite dall’art. 2 della medesima legge; a tal proposito si veda più ampiamente Antonella Madeo, Obbligo di indicazione di provenienza e criteri per il “Made in Italy” in Diritto penale e processo, 2011, n. 1 pag. 21 e 22.
Art. 1, comma 1: «Al fine di consentire ai consumatori finali di ricevere un’adeguata informazione sul processo di lavorazione dei prodotti, ai sensi dell’art. 2, comma 2, e dell’art. 6, comma 1, del cd. Codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni, è istituito un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti e intermedi, intendendosi per tali quelli che sono destinati alla vendita, nei settori tessile, della pelletteria e calzaturiero, che evidenzi il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione e assicuri la tracciabilità dei prodotti stessi».
Art. 1 commi 5, 6, 7, 8 e 9.
Art. 1 co. 10: «Per ciascun prodotto di cui al comma 1, che non abbia i requisiti per l’impiego dell’indicazione “Made in Italy”, resta salvo l’obbligo di etichettatura con l’indicazione dello Stato di provenienza, nel rispetto della normativa comunitaria».
Art. 3: «Salvo che il fatto costituisca reato, chiunque violi le disposizioni di cui all’art. 1, commi 3 e 4, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Nei casi di maggiore gravità la sanzione è aumentata fino a due terzi. Nei casi di minore gravità la sanzione è diminuita fino a due terzi. Si applicano il sequestro e la confisca delle merci.
2. L’impresa che violi le disposizioni di cui all’art. 1, commi 3 e 4, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 30.000 a 70.000 euro. Nei casi di maggiore gravità la sanzione è aumentata fino a due terzi. Nei casi di minore gravità la sanzione è diminuita fino a due terzi. In caso di reiterazione della violazione è disposta la sospensione dell’attività per un periodo da un mese a un anno.
3. Se le violazioni di cui al comma 1 sono commesse reiteratamente si applica la pena della reclusione da uno a tre anni. Qualora le violazioni siano commesse attraverso attività organizzate, si applica la pena della reclusione da tre a sette anni».
«3. Nell’etichetta dei prodotti finiti e intermedi di cui al comma 1, l’impresa produttrice deve fornire in modo chiaro e sintetico informazioni specifiche sulla conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro, garantendo il rispetto delle convenzioni siglate in seno all’Organizzazione internazionale del lavoro lungo tutta la catena di fornitura, sulla certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti, sull’esclusione dell’impiego di minori nella produzione, sul rispetto della normativa europea e sul rispetto degli accordi internazionali in materia ambientale.
4. L’impiego dell’indicazione «Made in Italy» è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9, hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità».