La truffa aggravata e l'applicabilità dell'art. 322 Codice Penale

Il rapporto tra truffa aggravata e altri reati

Data per acquisita la definizione in termini di circostanza aggravante della natura della fattispecie di cui all’art. 640-bis c.p., si procede ora ad analizzare in maniera unitaria e statica le molteplici interferenze tra il delitto di truffa aggravata (art. 640, co. 2 e 640-bis c.p.) e gli altri reati con struttura analoga.

Con specifico riguardo al rapporto con il reato di cui all’art. 316-ter c.p. (“indebita percezione di erogazioni pubbliche”) si tratta di stabilire se gli artifici o raggiri tipicamente necessari per l’integrazione del reato di truffa ricomprendano, o meno, le condotte di omissione o falsa dichiarazione descritte all’art. 316-ter c.p. e, conseguentemente di inquadrare il ruolo che tale ultima norma riveste all’interno dell’ordinamento penalistico in relazione alla più severa previsione di cui all’art. 640-bis. Secondo giurisprudenza consolidata [1] detto rapporto deve intendersi in termini di sussidiarietà e non di specialità [2], così che il residuale e meno grave delitto dell’art. 316-ter c.p. è configurabile solo quando difettino gli estremi della truffa, circoscrivendone l’ambito di operatività a situazione del tutto marginali.

Decisiva è stata, in tal senso, l’ordinanza della Corte Costituzionale del 12 marzo 2004, n. 95: «nella prospettiva della natura meramente sussidiaria e residuale della norma impugnata — è ben vero che l’art. 316-ter cod. pen. si presta, nell’intenzione del legislatore, a reprimere taluni comportamenti che, se posti in essere in danno di soggetti privati — o anche di soggetti pubblici, quando non si discuta dell’indebita erogazione di sovvenzioni — restano privi di sanzione: ma ciò senza che ne derivi affatto la lesione dell’art. 3 Cost. ventilata dal rimettente, posto che — come correttamente osserva l’Avvocatura generale dello Stato — la previsione di una tutela penale rafforzata, anche quanto ad ampiezza, delle finanze pubbliche e comunitarie contro le frodi, rispetto alla generalità degli altri interessi patrimoniali, costituisce ragionevole esercizio di discrezionalità legislativa, tenuto conto della specialità dell’interesse offeso, nonché del carattere "minore" delle violazioni di cui si discute (evidenziato anche dall’applicazione di una semplice sanzione amministrativa al sotto di una certa soglia), rispetto a quelle integrative del delitto di truffa».

Il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche può configurarsi, a differenza di quello di cui all’art. 640-bis c.p., anche in difetto di un’induzione in errore da parte dell’agente; in questi casi, infatti, l’erogazione può anche non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente, solo requisito per addivenire all’erogazione [3].

Sempre in termini di sussidiarietà [4] è da considerare il rapporto tra la truffa aggravata e il reato di cui all’art. 316-bis c.p. (“malversazione a danno dello Stato”). Quest’ultimo articolo è stato introdotto con Legge 26 aprile 1990, n. 86 – a distanza, quindi, di pochissimo tempo dalla previsione di cui all’art. 640-bis c.p. – con lo specifico intento di fornire copertura penale a quelle condotte che, interessando la fase successiva alla indebita percezione del denaro pubblico, sarebbero rimaste fuori dal raggio di operatività del reato di truffa.

Una questione peculiare è rappresentata dai rapporti tra la truffa aggravata e la fattispecie di cui all’art. 2, Legge 23 dicembre 1986, n. 898, che punisce l’indebito conseguimento di sovvenzioni da parte del Fondo Europeo per l’Agricoltura. L’art. 43, Legge 19 febbraio 1992, n. 142 ha apportato un’importante modifica alla predetta fattispecie, consistente nell’aggiunta dell’inciso «ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall’art. 640-bis c.p.». In forza di quest’ultima aggiunta, emerge chiaramente la natura sussidiaria della norma meno grave, che si applica quando la condotta fraudolenta non integra i requisiti degli artifizi e raggiri propri della truffa, ma si esaurisce nella mera esposizione dolosa di dati non veritieri [5].

In tutti i predetti casi, quindi, non vi è margine per un concorso tra la truffa aggravata e i reati che hanno, rispetto a quest’ultima, natura sussidiaria e residuale. Si parla, in questi casi, di concorso apparente di norme in quanto il confluire di più norme incriminatrici nei confronti di un medesimo fatto non è reale: sicché, in luogo di configurarsi un concorso di reati, si ha unicità di reato, essendo una sola la norma incriminatrice veramente applicabile all’ipotesi di specie. Oltre a quello di sussidiarietà, gli altri criteri adoperati per risolvere il concorso apparente di norme sono quelli di specialità [6] e di assorbimento [7].

Ha suscitato un vivo interesse in giurisprudenza il tema del concorso della truffa aggravata con la frode fiscale [8]. Da ultimo la Corte di Cassazione, Sez. II Penale, con sentenza del 7 novembre 2009, n. 34546, ha affermato che «il delitto di frode fiscale può concorrere, attesa l’evidente diversità del bene giuridico protetto, con quello di truffa comunitaria [art. 640-bis c.p.], purché allo specifico dolo di evasione si affianchi una distinta ed autonoma finalità extratributaria non perseguita dall’agente in via esclusiva» [9] . In sostanza, si può ipotizzare un concorso di reati quando il reo ottenga, attraverso l’impiego di fatture passive per operazioni inesistenti (artt. 2 e 8 del D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), oltre ad un indebito rimborso IVA anche la concessione di un contributo pubblico per l’acquisto di beni strumentali.


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Un primo orientamento riconosceva un rapporto di specialità tra la truffa aggravata e i reati di frode fiscale (artt. 2 e 8 D.lgs. n. 74/2000), e concludeva nel senso che l’unica fattispecie che può formare oggetto di contestazione è quella prevista dalla disciplina tributaria [10].

Un secondo orientamento giurisprudenziale, facendo leva sull’operatività del principio di consunzione (o assorbimento, v. nota n. 35), per il quale è sufficiente l’unità normativa del fatto (desumibile dall’omogeneità tra i fini dei due precetti) ai fini dell’assorbimento dell’ipotesi meno grave in quella più grave, escludeva che tra le due fattispecie criminose operi il principio di specialità [11].

Un terzo orientamento, sempre escludendo un rapporto di specialità tra i reati in questione, ammetteva il concorso tra loro. A tale conclusione perveniva in considerazione della eterogeneità delle fattispecie sia rispetto al bene giuridico tutelato che rispetto alle modalità di consumazione, non occorrendo per la frode fiscale l’induzione in errore della amministrazione finanziaria né l’ingiusto profitto, che sono invece elementi costitutivi della truffa [12].

Nella prassi, la contestazione cumulativa, secondo lo schema del concorso formale di reati (art. 81, co. 1 c.p.), degli artt. 2 e 8 D.lgs. n. 74/2000 e dell’art. 640, co.2 c.p., consentiva di applicare il sequestro preventivo per equivalente, tanto nei confronti delle persone sottoposte ad indagini in forza dell’art. 640 c.p., quanto nei confronti degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato ai sensi degli artt. 24 e 53 del D.lgs. n. 231/2001. L’esistenza di un disallineamento normativo (venuto meno in forza della Legge Finanziaria 2008 che ha esteso ai reati tributari l’applicabilità della confisca per equivalente) precludeva all’attivazione di questa misura reale rispetto alle fattispecie rientranti nel D.lgs. n. 74/2000 e, conseguentemente, alimentava l’orientamento volto a sostenere la compatibilità tra le violazioni di frode fiscale e truffa ai danni dello Stato [13].

Ad oggi, comunque, le disposizioni in materia penale tributaria non costituiscono reato-presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti.

La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con sentenza del 28 ottobre 2010, n. 1235, ha risolto i dubbi interpretativi in materia, così argomentando: «il raffronto fra le fattispecie astratte evidenzia che la frode fiscale è connotata da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Una volta chiarito che la condotta di cui alla frode fiscale è una specie del genere "artifizio", non si può far leva, per affermare la diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché questi dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell’azione in totale diversità del fatto. […]sia l’induzione in errore che il danno sono presenti nella condotta incriminata dal reato di frode fiscale, posto che alla presentazione di una dichiarazione non veridica si accompagna normalmente il versamento di un minor (o di nessun) tributo e genera, in prima battuta e nella fase di liquidazione della dichiarazione, un’induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria e un danno immediato quanto meno nel senso del ritardo nella percezione delle entrate tributarie […].

Il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali», dichiarando, infine, il seguente principio di diritto: «i reati in materia fiscale di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2 e 8, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata a danno dello Stato di cui all’articolo 640 c.p., comma 2, n. 1». Le Sezioni Unite, quindi, adoperano il principio di specialità – a discapito di quello di consunzione – quale direttrice per dirimere la questione relativa al concorso apparente delle norme incriminatrici di cui all’art. 640, co. 2, n. 1 c.p. e agli artt. 2 e 8 del D.lgs. n. 74/2000.


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Di recente, la Corte di Cassazione, III Sez. Penale, con sentenza del 15 gennaio 2013, n. 10580, ha ulteriormente specificato che «il discrimen tra concorso apparente di norme e concorso di reati non è da ravvisarsi nella tipologia di artifizi e raggiri posti in essere dagli indagati, bensì nel tipo di profitto che, all’agente, la condotta criminosa apporta». Profitto che, ai fini della configurabilità di un concorso di reati, deve essere comprensivo dell’evasione fiscale ma – contemporaneamente – ulteriore rispetto a quest’ultima (profitto extratributario).


L’applicabilità dell’art. 322-ter c.p.

L’art. 640-quater c.p. – rubricato “applicabilità dell’art. 322-ter c.p.” – prevede che «nei casi di cui agli articoli 640, secondo comma, numero 1, 640-bis e 640-ter, secondo comma, con esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nell’articolo 322-ter».

La norma in oggetto, introdotta dall’art. 3 dalla Legge 29 settembre 2000, n. 300 [14], estende alle ipotesi di truffa aggravata e di frode informatica aggravata l’istituto della confisca per equivalente previsto dall’art. 322-ter c.p..


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La confisca “per equivalente” (art. 322-ter c.p.) – i cui presupposti logico-giuridico potrebbero essere circoscritti alla mancata individuazione ed apprensione (nella sfera giuridico-patrimoniale del responsabile del reato) dei beni che, fisicamente, costituiscono il prezzo o il profitto del reato e alla necessità di rispettare la proprietà altrui – permette di espropriare somme di denaro, beni o altre utilità in misura proporzionale al prezzo o al profitto del reato, in assenza di qualsiasi prova di un rapporto di pertinenzialità tra i beni confiscati ed il fatto illecito cui si riferisce la sentenza di condanna [17].

In passato si era posta una delicata questione interpretativa sulla formulazione dell’art. 640-quater c.p. (che limita il rinvio alle citate disposizioni dell’art. 322-ter c.p. «in quanto compatibili»): se il sequestro preventivo – funzionale alla confisca per equivalente ex art. 321, co. 2 c.p.p. – disposto nei confronti di persona sottoposta ad indagini per uno dei reati previsti dall’art. 640-quater c.p. potesse avere, o meno, ad oggetto beni per un valore equivalente non solo al prezzo [18], ma anche al profitto [19] del reato (come previsto dal comma 2 dell’art. 322-ter c.p., trattando specificamente del corruttore) [20]. La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con sentenza del 25 ottobre 2005, n. 41936, aveva fornito una soluzione alla predetta questione interpretativa, ritenendo fondata la tesi che sosteneva la confiscabilità per equivalente del profitto dei reati contemplati dall’art. 640-quater c.p., in forza del rinvio indifferenziato a tutte le disposizioni contenute nell’art. 322-ter c.p., e non al solo comma 1 della fattispecie, operato dalla lettera dell’art. 640-quater c.p. [21].

Da ultimo, il Legislatore con Legge 6 novembre 2012, n. 190 (art. 1, co. 75) ha definitivamente esteso – tramite l’aggiunta delle parole «o profitto» al comma 1 dell’art. 322-ter c.p. – l’ambito di operatività della confisca per equivalente anche al profitto del reato. La recente novella legislativa – allineando l’ordinamento giuridico interno a quello europeo che obbliga gli Stati a prevedere la confisca di valore in relazione a qualsiasi vantaggio economico da reato (art. 2, par.1, della decisione quadro 212/2005) – colma una lacuna normativa e, contemporaneamente, rende la misura ablativa realmente efficace e concretamente applicabile per quelle fattispecie delittuose rispetto alle quali il prezzo del reato è nozione inconferente e priva di concreta valenza operativa (peculato di cui all’art. 314 c.p.; malversazione a danno dello Stato di cui all’articolo 316-bis del c.p. e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’articolo 316-ter del c.p.) [22].

Funzionale alla confisca per equivalente è il sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 2, c.p.p. [23].


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La particolarità della misura cautelare reale di cui al comma 2 dell’art. 321 c.p.p., consiste nel fatto che per l’applicabilità della stessa non occorre necessariamente la sussistenza dei presupposti previsti dal comma 1 per il sequestro preventivo tipico [26], ma basta il presupposto della confiscabilità. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, poiché il sequestro disposto ex art. 322-ter c.p. (a differenza del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 2, c.p.p.) ha ad oggetto l’equivalente del profitto del reato, e quindi anche cose che non hanno rapporti con la pericolosità individuale del soggetto, e non sono collegate con il singolo reato (nesso di pertinenzialità), allora in tal caso non necessiterà la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il periculum in mora [27].

Adeguata motivazione sarà, invece, necessaria in ordine alla sussistenza del presupposto del fumus commissi delicti [28], consistente nell’astratta configurabilità, nel fatto attribuito all’indagato e in relazione alle concrete circostanze indicate dal p.m., dell’ipotesi criminosa cui è correlata la confisca [29].

Con specifico riferimento all’oggetto del sequestro preventivo per equivalente, si è consolidata in giurisprudenza una concezione estensiva dello stesso. Emblematica sul punto è stata la pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con sentenza del 6 marzo 2008, n. 10280, in una fattispecie di concussione nella quale il denaro era stato richiesto da un ufficiale di P.G. per l’acquisto di un immobile.

La Corte, in quella sede, aveva affermato che: «in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., costituisce “profitto” del reato anche il bene acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia casualmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo».

Autore

Greco, Angelo Mattia

Laureato in giurisprudenza